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Martedì 23 SETTEMBRE 2014
Farmaceutica. Quale criterio per definire il prezzo di rimborso dei farmaci?

L’equilibrio ideale dovrebbe giacere nel punto d’incrocio delle bisettrici tra sostenibilità dei budget pubblici, equo accesso a tutti i pazienti che ne abbisognano, giusta remunerazione per l’industria e la filiera. Significano disponibilità finanziaria a coprire l’assistenza, a curare senza discriminazioni, a reinvestire per ottenere farmaci sempre più efficaci.

Qual è il prezzo giusto per un farmaco? E come calcolarlo? “Crocevia epocale tra etica ed economia”, ha commentato il presidente dell’Aifa Pecorelli. La questione, riaccesa in questi giorni dalla vicenda del prezzo e della rimborsabilità degli antiepatite C, la cui spesa sbancherebbe letteralmente il Ssn, è ormai al primo punto nell’agenda della sostenibilità di tutte le sanità pubbliche.

L’equilibrio ideale del sistema dovrebbe giacere nel punto d’incrocio delle bisettrici tra sostenibilità dei budget pubblici, equo accesso a tutti i pazienti che ne abbisognano, giusta remunerazione per l’industria e la filiera. Significano disponibilità finanziaria a coprire l’assistenza, a curare senza discriminazioni, a reinvestire per ottenere farmaci sempre più efficaci.

L’Aifa a quel baricentro da alcuni anni si avvicina meritoriamente, facendo dell’Italia uno dei Paesi con la migliore assistenza farmaceutica, con una spesa tra le più basse in Eu e Ocse, ma con prezzi medi tra i più bassi e facendo leva su tetti e payback a carico d’industria e filiera. Per raggiungere quell’equilibrio ideale di cui sopra, quel crocevia, un esemplare “ottimo paretiano”, quali dovrebbero essere da parte dell’Autorità i criteri di definizione del prezzo a carico del Ssn, cioè della collettività?

Nell’economia classica, da Smith a Ricardo fino all’ortodossia di Marx, il valore del prodotto è costruito sul costo dei fattori produttivi impiegati (materie prime, lavoro, capitale, ecc.) cosicché il prezzo deriva da tale ammontare con aggiunto il margine della filiera. È quello che potremmo definire il valore “industriale” del prodotto. Avveniva così anche da noi per i farmaci, fino al 1994, coi cosiddetti “Metodo CIP costi” e successivamente “CIP 2”. È più o meno quanto pure avviene oggi in aree, al pari del farmaceutico, ad economia controllata dalla mano pubblica, come con le principali "commodities" (luce, gas, acqua). Si costruisce il prezzo sulle spese di produzione, distribuzione, gli ammortamenti di quelle per ricerca e sviluppo, commercializzazione e il margine di produttore e filiera distributiva.

Invece quella utilizzata oggi per i farmaci, in particolare gli innovativi, è una metodologia che si basa sull'impostazione marginalista, teoria nata a fine ‘800 con Jevons e Menger e più tardi rivitalizzata, tra gli altri da Marshall e Clark: il valore del prodotto riflette il grado di utilità attribuitagli dai consumatori-utilizzatori che lo pagano, nel nostro caso il Ssn ovvero la collettività.

Il criterio generale di fondo utilizzato da noi come nella maggioranza dei Paesi Ocse è quindi basato prevalentemente sul valore apportato dal farmaco. Una metodologia sulla carta condivisibile ma dall’applicabilità, nei fatti, dalle non poche criticità. Un esempio recente piuttosto esemplificativo è nella vicenda Lucentis-Avastin, dove l’elevato differenziale di prezzo per dose assegnato ai due farmaci dal principio attivo simile, quasi sovrapponibile, ci dice come a diverse indicazioni terapeutiche siano andati livelli di prezzo molto diversi persino di un fattore 10.

In altre parole, quindi, nel criterio di definizione del prezzo dei farmaci, in particolare degli innovativi, da parte dell’Autorità prevale la finalità del bene sulla sua consistenza, sulle caratteristiche intrinseche dello stesso. Con questo approccio paghiamo (il Ssn, ovvero noi come collettività) un farmaco non per il suo valore intrinseco come “bene” di produzione, così come avviene per la stragrande maggioranza dei beni commerciali, fatta forse eccezione per le griffe e l’alta moda o certe tecnologie dal forte “brand”, ma per il beneficio che è in grado di apportare.

Tuttavia questo sembra avvenire da noi in modo apparentemente discontinuo: ad esempio, il prezzo di diversi innovativi, come in onco-ematologia, capaci di prolungare la sopravvivenza media di alcuni mesi, è pari anche a decine di migliaia di euro per paziente, mentre farmaci come antipertensivi, PPI, antibiotici o statine, pure dal beneficio collettivo indubbio (morti, invalidità e accidenti evitati), costano pochi centesimi al giorno.

Nell’approccio “marginalista” al prezzo di rimborso di un farmaco il valore tuttavia è per niente facile da calcolare equamente: come assegnare un “punteggio” al beneficio dato da quel farmaco? E quindi poi come monetizzarlo in un “prezzo” che la collettività, il Ssn, è disposto a pagare?
Sono le criticità dei metodi di valorizzazione dell’utilità incentrate sull’elaborazione statistica dell’insieme delle preferenze individuali, queste basate su scale (Rating Scale), probabilità (Standard Gamble), o tempi (Time-Trade-Off) e di loro conseguente monetizzazione basata sulla produttività individuale guadagnata (Human Capital) o di disponibilità a pagare (Willingness To Pay).

In sintesi, come quantificare esattamente il grado di beneficio e conseguentemente come e quanto monetizzarlo come prezzo del bene capace di apportare quel beneficio stesso. Entrambi non possono che essere valori medi espressione delle preferenze di chi paga, in questo caso la collettività, intesa come popolazione di pazienti ma anche di soggetti sani (il Ssn si finanzia con la fiscalità generale). Sono delle proxy di valori medi tuttavia scaricate di significato concreto dalla loro elevatissima variabilità (deviazione standard): il ricco e il povero, il giovane o il vecchio, il sano o il malato, l’ottimista o il pessimista, attribuiranno a quel certo beneficio clinico punteggi diversissimi l’uno con l’altro, così come li valorizzeranno monetariamente in modo profondamente differente.

Quali criteri adottare, quindi? Prezzo sul valore “terapeutico” come avviene oggi, o su quello “industriale” in alternativa? O un mix sapientemente dosato di entrambi? Chiara la preferenza per il primo dato che parliamo del massimo plusvalore generato, quello di salute, individuale e collettiva.
Che tuttavia presenta un risvolto della medaglia a dir poco critico, come avviene in UK, dove se il costo necessario per guadagnare un anno di vita (QALY) è superiore a una certa soglia, oggi 40mila sterline, il farmaco non è rimborsato dal Nhs perché il costo-opportunità sarebbe troppo elevato, cioè per quel beneficio per un solo paziente si toglierebbero “troppe” risorse al sistema, ovvero agli “altri” pazienti (un approccio lutero-anglicano certamente buono per Canterbury e similari latitudini, ma di difficile asilo all’ombra del Cupolone).

Insomma, metodo classico e/o marginalista, la questione del prezzo dei farmaci è di quelle davvero spinose. Tuttavia l’obiettivo deve restare il più possibile vicino all’incrocio di quelle bisettrici di cui sopra, tra sostenibilità, equità e qualità dell’assistenza e giusta remunerazione di produttori e filiera. Significano welfare, politiche industriali di sviluppo e progresso sociale e sanitario. Tutto in una fiala o in una compressa. “Crocevia epocale tra etica ed economia”. Una riflessione attenta e competente in merito non è rimandabile.

Fabrizio Gianfrate
 

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