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Venerdì 26 SETTEMBRE 2014
Speciale ESMO. L’accesso alle terapie oncologiche innovative non è garantito a tutti allo stesso modo

Non tutti i pazienti hanno accesso alle terapie innovative anti-cancro, per vari motivi. Di ordine economico, come accade nel caso del trastuzumab, non offerto come strategia terapeutica alle donne con carcinoma della mammella nell’Est Europa; o per la burocrazia regolatoria, che rallenta anche di anni l’arrivo di farmaci innovativi nella pratica clinica in Europa e in Canada, rispetto a quanto accade invece negli Stati Uniti, dove tutto è più rapido.

Esistono gravi disparità nell’accesso alle terapie anti-tumorali nelle diverse regioni del mondo. La denuncia viene da due studi presentati a Madrid, al congresso dell’ESMO, che rivelano come in alcuni Paesi i pazienti oncologici siano costretti ad aspettare anni, prima di poter accedere a terapie, che per altri si rendono disponibili molto prima.
 
Gli autori di questi studi ritengono che sia necessario migliorare la collaborazione tra medici e autorità regolatorie su scala internazionale, al fine di assicurare a tutti i pazienti l’accesso al miglior trattamento per le loro patologie in tempi rapidi.
 
“Di certo – ammette uno degli autori dello studio, il dottor Sunil Verma, Sunnybrook Odette Cancer Center, Toronto, Canada - i processi che portano all’autorizzazione di un farmaco sono fondamentali per assicurare ai pazienti terapie sicure ed efficaci” ma questo non può giustificare i cospicui ritardi nell’approvazione dei farmaci da parte di alcuni Paesi, che inevitabilmente hanno un impatto negativo sulla cura dei pazienti.
 
Per valutare le discrepanze nei tempi di autorizzazione dei farmaci nei diversi Paesi, Verma e colleghi sono andati a confrontare i tempi di approvazione di 41 terapie oncologiche in Canada, Stati Uniti ed Europa. Lo studio, il primo di questo genere mai realizzato, ha dimostrato che il tempo di approvazione di questi farmaci da parte dell’FDA risultava in media più rapido di 6 mesi rispetto all’EMA e di 7,6 mesi rispetto alle autorità regolatorie canadesi. Il farmaco con il maggior gradiente temporale di approvazione tra i diversi Paesi è risultato essere l’azactidina, terapia per le neoplasie ematologiche. L’EMA l’ha approvato 55,8 mesi dopo l’FDA e il Canada dopo altri 10,3 mesi rispetto all’Europa.
 
Il cabazitaxel, terapia per il carcinoma prostatico metastatico, detiene invece il record del farmaco con i tempi di approvazione più rapidi; l’FDA gli ha dato il via libera dopo appena 17 giorni dalla sottomissione del dossier registrativo da parte dell’azienda produttrice; in compenso, il Canada l’ha autorizzato dopo 11,63 mesi e l’EMA dopo 11,03 mesi.
 
“Il nostro scopo principale come medici – commenta Verma – è di far sì che ai pazienti venga data l’opportunità di ricevere trattamenti sicuri e dall’efficacia provata in maniera tempestiva. Dobbiamo trovare il giusto equilibrio tra un diligente processo di revisione da parte delle autorità regolatorie e la disponibilità di quei trattamenti per i nostri pazienti. E’ necessario imbastire un dialogo tra industria, autorità regolatorie, associazioni di pazienti, ricercatori e oncologi su come fare per ridurre al minimo i tempi di approvazione dei nuovi farmaci, garantendo al contempo la sicurezza dei farmaci approvati. È necessario inoltre fare uno sforzo a livello internazionale per ridurre la disparità nei tempi con i quali i nuovi farmaci vengono resi disponibili nelle diverse parti del mondo”.
 
“Questo interessante studio – commenta il professor David Cameron, Cancer Research Centre di Edinburgo, Gran Bretagna –  ha evidenziato che, mentre non ci sono grandi differenze nei tempi di autorizzazione dei nuovi farmaci tra Canada ed Europa, l’FDA ha dei tempi di approvazione nettamente inferiori rispetto a questi Paesi. Non sono chiari i motivi di questi ritardi, ma sembrano essere più di ordine burocratico che medico-scientifico. Sono necessari ulteriori studi per chiarire le ragioni di questi ritardi e le eventuali ricadute sulla salute dei pazienti”.
 
Un altro studio, effettuato da Felipe Ades Moraes , Institut Jules Bordet di Bruxelles (Belgio) e colleghi, ha evidenziato che l’accesso al trastuzumab non sempre è garantito alle pazienti dell’Europa dell’Est affette da carcinoma della mammella; questo può portare a importanti differenze di sopravvivenza tra queste pazienti e quelle dell’Europa occidentale o degli Usa.
Il trastuzumab, approvato dall’FDA nel 1998, è il farmaco che ha rivoluzionato il trattamento del carcinoma della mammella HER2 positivo, ritenuto prima dell’avvento di questa terapia una delle forme a prognosi peggiore.
 
Secondo gli autori dello studio, l’impari accesso alle terapie oncologiche spiegherebbe le diverse statistiche di mortalità per alcuni tipi di cancro in diverse regioni del mondo. Utilizzando i dati dei registri nazionali, i ricercatori sono andati a stimare l’incidenza dei casi di carcinoma della mammella HER2-positivo in 24 Paesi, tra i quali 14 dell’Europa occidentale e 9 dell’Europa dell’Est; sono andati poi a stimare il numero di pazienti trattate con trastuzumab, andando ad analizzare i dati di mercato dei singoli Paesi, in un periodo compreso tra il 2001 e il 2013. In questo modo è stato possibile evidenziare che le nazioni dell’Europa dell’Est hanno acquistato una quantità di trastuzumab decisamente insufficiente rispetto al numero di pazienti che ne avrebbero potuto trarre beneficio.
 
“Aver dimostrato che le nazioni con il maggior acquisto di trastuzumab sono quelle con le migliori statistiche di sopravvivenza per cancro della mammella HER2 positivo – afferma l’autore – rafforza l’impressione che il mettere a disposizione questi farmaci salva-vita rimane uno dei determinanti maggiori della prognosi quoad vitam dei pazienti oncologici. In un’epoca in cui i trattamenti e i farmaci oncologici diventano sempre più complessi e costosi, una stretta relazione tra autorità sanitarie e medici può portare a migliorare in maniera importante la cura dei pazienti e la sopravvivenza, attraverso la definizione delle priorità di allocazione dei budget sanitari”.
 
Maria Rita Montebelli

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