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Martedì 16 DICEMBRE 2014
Riforma Titolo V. Intervista a Balduzzi: "Sulla salute il rischio è quello di aumentare ancora di più il contenzioso tra Stato e Regioni"

Per il costituzionalista, membro laico del Csm ed ex ministro della Salute, il pericolo risiede nella nuova formulazione del Titolo V che, attraverso la locuzione  “disposizioni generali e comuni”, prevede la competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela della salute. "Le Regioni uscirebbero dalla riforma con competenze più ristrette e permeabili a interventi statali molto discrezionali".

Renato Balduzzi è attualmente membro laico del Consiglio superiore della Magistratura, ma fino a pochi mesi fa presiedeva la Commissione bicamerale per le questioni regionali e faceva parte della I Commissione Affari costituzionali della Camera, quella che in questi giorni ha lavorato al disegno di legge di revisione della Costituzione. La riforma trasforma il Senato in camera delle autonomie e riscrive estesamente il riparto di potestà legislativa tra Stato e Regioni, compresa la materia sanitaria, il cui assetto di competenze uscirebbe molto diverso dall’attuale nel caso di conferma del testo approvato in Senato lo scorso luglio. Da lui, che di professione è costituzionalista (ordinario alla Cattolica di Milano) ed è stato Ministro della Salute nel Governo Monti, vorremmo capire qualcosa di più sui cambiamenti in corso.

Prof. Balduzzi, qualche giorno fa lei è intervenuto ad una conferenza tenuta ad Alessandria dal prof. Francesco Taroni proprio sulle conseguenze che la riforma costituzionale ha in sanità: anche nelle sue nuove vesti non ha smesso di interessarsi a questi temi?
L’interesse, direi, è doppiamente doveroso. Da un lato, quale componente di un organo a rilievo costituzionale che si occupa di governare un ordine dello Stato importante qual è la Magistratura ordinaria, non sarebbe saggio spegnere la luce su di un percorso che promette una revisione ampia e profonda di una buona porzione della II parte della Costituzione – sebbene, lo ricordo, attualmente nessun articolo del progetto riguardi il Titolo IV dedicato alla Magistratura. È chiaro che la mia attenzione è tutta diversa che nel passato e tiene conto dell’indipendenza che il CSM garantisce ai giudici e che i suoi membri devono garantire ad esso medesimo, ma esiste. Dall’altro lato, quella conferenza cui faceva riferimento è stata promossa da un dottorato di ricerca da me promosso alcuni anni fa. Il ciclo di lezioni di quest’anno è intitolato “Riforme istituzionali e riforme strutturali” e il caso della sanità, alla luce del progetto di revisione costituzionale, è paradigmatico del legame che corre tra i cambiamenti istituzionali e quelli dei comparti strutturali del nostro Paese.

E questo legame come funziona nell’attuale testo di riforma?
Il progetto approvato in Senato riconfigura nel suo complesso il riparto di competenze tra Stato e Regioni, eliminando in gran parte la legislazione concorrente e dividendo tra la competenza esclusiva statale e quella esclusiva (che in parte è “nominata” e in parte è “residuale”) regionale. Per la sanità il cambiamento è notevole perché attualmente la tutela della salute (che tiene dentro anche l’organizzazione sanitaria) figura tra le materie di legislazione concorrente, mentre dal nuovo testo esce divisa tra lo Stato, che è esclusivamente competente a dettare “disposizioni generali e comuni per la tutela della salute”, e le Regioni, che sono esclusivamente competenti a disciplinare la “programmazione e organizzazione dei servizi sanitari”.

Non è una semplificazione? Decidendo di che cosa è responsabile solo lo Stato e di che cosa lo sono soltanto le Regioni, non si diminuisce quella confusione di competenze che tanto spesso ostacola un loro efficace esercizio?
Le cose non stanno così, purtroppo. Prendiamo questa locuzione inedita delle “disposizioni generali e comuni”. Non è facile capirne il contenuto. Le disposizioni generali potrebbero essere assimilate a quelle norme generali che attualmente la Costituzione prevede per l’istruzione, ma le altre, quelle "comuni", sono di difficile decifrazione, anche perché l’efficacia delle norme statali su tutto il territorio nazionale è il presupposto medesimo della legge statale. Il rischio molto concreto è che dall'interpretazione e applicazione di questa formula nasca un conflitto di competenze peggiore di quello originato dalla revisione del 2001. E tutto questo nel momento in cui la Corte costituzionale ha ormai risolto gran parte del contenzioso relativo alle materie di legislazione concorrente, sanità compresa, il quale negli ultimi anni è quasi totalmente incentrato sul solo problema del coordinamento della finanza pubblica (risolvibile, almeno in parte, con l’attrazione di questa materia alla potestà statale, secondo quanto previsto dalla stessa revisione in corso). Lascia poi molti dubbi la scelta di individuare nei servizi sanitari l’oggetto di una potestà esclusiva regionale, quasi come se questi non fossero strumentali alla tutela della salute: il problema di fondo è che gli intrecci e la complessità che esistono in questa materia e che si riflette anche nelle relazioni tra i livelli di governo non si cancellano facendo venir meno la categoria della potestà legislativa concorrente, perché il concorso di competenze e di responsabilità esiste nella realtà.

Questo riassetto delle competenze è problematico solo per la sanità?
Probabilmente no. Richiamo l’attenzione solo su di un dato estrinseco. La tecnica di individuare nelle disposizioni generali e comuni l’ambito della potestà esclusiva statale su alcune materie che erano di potestà concorrente, a fronte della limitazione della nuova potestà regionale ai profili di organizzazione dei servizi, desta perplessità per gli oggetti, molto diversi, che mette insieme. Mi spiego: il legislatore costituzionale sta trattando allo stesso modo sanità, scuola, assistenza sociale e alcuni profili del lavoro. Chiunque conosca come questi comparti strutturali funzionano nel nostro ordinamento intuisce che una stessa veste per corpi estremamente diversi l’uno dall’altro rischia di creare difficoltà importanti.

Lei fino ad alcuni mesi fa sedeva in Parlamento, questi problemi li aveva rilevati?
Come noto, l’iter legislativo è partito dal Senato e fino ad ottobre, di fatto, la Camera non si è occupata di riforma costituzionale, quindi nella Commissione Affari costituzionali non me ne sono occupato neppure io. Però, come lei ricordava, presiedevo una commissione bicamerale che fornì il proprio parere in merito. Invito a rileggerlo, perché queste criticità sono state oggetto di significativa discussione e la commissione ne ha condivise alcune tra le principali. Parlo della problematicità della eliminazione della potestà concorrente, su cui ho già detto, ma parlo anche della clausola di supremazia in forza della quale la legge dello Stato può intervenire – senza alcune procedura particolare – a comprimere le competenze regionali quando il Parlamento reputi che lo richieda “la tutela dell'unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell'interesse nazionale”. Due formule tanto ampie da poterci mettere dentro tutto. Allora, la Commissione per le questioni regionali aveva proposto una disposizione più dettagliata e con due accorgimenti essenziali: una procedura legislativa rinforzata, con parere obbligatorio del Senato (nell’ottica di garantire una partecipazione di quelle Regioni che subiscono la compressione di autonomia prodotta dall’attivazione della clausola); una definizione dei presupposti di intervento che, richiamando la legge fondamentale tedesca, faceva riferimento alla necessità che la legge statale andasse soprattutto a garantire l’equivalenza delle condizioni di vita e di godimento dei diritti sul territorio nazionale, ovvero rimediasse a gravi e intollerabili diseguaglianze prodotte dal cattivo funzionamento dell’autonomia.

Lei, riassumendo, ci sta dicendo che le Regioni uscirebbero dalla riforma con competenze più ristrette e sostanzialmente permeabili ad interventi statali molto discrezionali. Ma non crede che il regionalismo abbia dato prova proprio di quel cattivo funzionamento cui stava accennando ora?
Non tutte le Regioni sono uguali – e questa sarebbe già un buon motivo per non trattarle tutte allo stesso modo – però è vero ed evidente che l’autonomia, specialmente quella interna degli organi regionali, è stata interpretata come licenza ad adottare molti comportamenti della parte peggiore della storia delle nostre istituzioni. E ciò, peraltro, è avvenuto in un contesto in cui i malcostumi che si volevano mutuare dalle istituzioni statali stavano rapidamente regredendo presso quelle stesse istituzioni, grazie alla limitazione o cancellazione di privilegi per troppo tempo tollerati. Ma di fronte a tutto questo, non credo che la soluzione sia gettare il proverbiale bambino insieme all’acqua sporca. Ad esempio, ho proposto in più occasioni due soluzioni per contrastare il cattivo esercizio di autonomia da parte delle Regioni. Una è l’introduzione delle c.d. norme cedevoli, dando possibilità allo Stato di prevedere, accanto alla disciplina di principio, norme di dettaglio pronte ad essere applicate oltre un certo termine entro il quale le Regioni avrebbero dovuto dare attuazione ai principi statali. L’altra si sostanzia nella previsione, all’interno dell’articolo 119 della Costituzione, di una clausola in forza della quale lo Stato avrebbe potuto revocare determinate risorse finanziarie, assegnate per finalità prestabilite, se la Regione fosse risultata inadempiente nell’impiego delle stesse. Anche qui la logica è quella per cui chi lavora bene è premiato e chi non fa quel che deve subisce una sanzione. Mi chiedo – e spero possa essere così – se questa via sia ancora percorribile da parte del legislatore costituzionale.

Un’ultima parola sul Senato: potrebbe essere una soluzione alla perdita di autonomia regionale?
Vorrei chiarire una cosa: qui nessuno difende a priori l’autonomia delle Regioni o degli altri enti territoriali. Per anni abbiamo detto, anche nei nostri convegni, che l’autonomia delle Regioni italiane consisteva soprattutto nella condivisione con lo Stato della potestà legislativa. La realtà ci pone di fronte ad una situazione in cui la legislazione regionale è spesso non all’altezza di quella che dovrebbe essere una delle forme di manifestazione della sovranità. Nella vicina Francia, dove le Regioni hanno una tradizione più recente e condizionata da un’organizzazione dei poteri molto accentrata e non hanno potestà di fare le leggi, assistiamo ad una crescita di autonomia e di peso politico delle Regioni sul piano della (buona) amministrazione. Dovrebbe farci riflettere e, magari, rivalutare qualche concetto polveroso come quello del c.d. regionalismo amministrativo di esecuzione. In ordine a questo problema, il Senato non è indifferente. Dovrebbe essere la camera grazie alla quale le autonomie, anche se un po’ più deboli singolarmente nelle loro periferie, riacquistano voce sulle decisioni che riguardano sia la comunità nazionale sia le comunità locali. Perché sia così, però, nel Senato devono sedere soggetti che siano davvero in grado di lavorare per rappresentare le autonomie dalle quali provengono e ciò dipende sia delle modalità di selezione di questa rappresentanza e dallo status dei singoli senatori sia dai poteri praticabili dalla seconda camera. Nel testo attuale, non addentrandoci nei problemi della rappresentanza (che sono grandi e sui quali ho avuto modo di dire come la penso concorrendo a scrivere una proposta di legge a suo tempo presentata dai senatori Monti e Lanzillotta), va almeno detto che i poteri di questa seconda camera nel processo legislativo e in ordine alle altre funzioni parlamentari sono probabilmente un po' troppo ridotti. Il rischio è di produrre un ramo del Parlamento del quale, tra qualche anno, potremmo pensare di poter fare a meno.

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