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Lunedì 24 GENNAIO 2011
Anziani: l’Italia è un Paese per vecchi e il Ssn è costretto ad adeguarsi

Continua a crescere il numero di anziani nel Paese, si stima che entro il 2030 potrebbero essere il 26,5% della popolazione. Negli ultimi 20 anni il tasso di over 80 è aumentato del 150%. Di fronte al drastico cambiamento demografico il Ssn è costretto a ripensarsi e riprogettare la sua rete di offerta di servizi. Territorio e prevenzione diventano i capisaldi di un nuovo modello sanitario che, per ovviare ad un ormai imminente insostenibilità del sistema, deve gestire in maniera più efficiente le proprie risorse e fornire una migliore erogazione di prestazioni allontanandosi sempre più da un’ottica ospedalocentrica.

L’Italia è sempre più ‘vecchia’. I numeri presentati all'interno del sesto volume dei "Quaderni del ministero della Salute" parlano chiaro, il nostro è uno dei Paesi più longevi non solo in Europa ma anche nel mondo. Il cambiamento demografico, ed una sempre più difficile gestione della spesa sanitaria che, specie in alcune Regioni, ha fatto negli anni segnare numeri in ‘profondo rosso’, e ha reso sempre più necessario un serio ripensamento sia a livello logistico che strutturale delle prestazioni erogabili. Non mancano però le note positive. Un’attenta analisi del sistema, infatti, non può esentarsi dal ricordare che, quello italiano, è uno dei sistemi sanitari con il più alto indice di gradimento al mondo. E non solo, il nostro Ssn, di stampo universalistico, è anche quello che può contare su una quota di spesa in rapporto al Pil, di livello inferiore rispetto a quella di altre Paesi europei. Avendo dunque ben chiari questi elementi, vediamo ora quali sono i nuovi modelli di riferimento adottati per fornire risposte adeguate al cambiamento demografico, visto che, secondo i dati Istat, gli over 65 risultano già da ora i maggiori fruitori dei servizi sanitari.

Un Italia sempre più longeva, i numeri. L’Italia è uno tra i Paesi con il più alto tasso di longevità. Lo dimostrano i dati raccolti dall’Istat nel Rapporto 2007,  dove su un totale di 59,1 milioni di abitanti, gli over 65 risultavano essere 11,8 milioni, raggiungendo una percentuale pari al 19,9% della popolazione totale, che si stima possa arrivare al 26,5% entro il 2030. Dal 1980 al 2005 il numero di ultrasessantacinquenni è aumentato del 50%, mentre quello di ultraottantenni di oltre il 150%. Si può dunque riscontrare un trend in continua e cospicua crescita. Anche passando ad osservare il dato relativo alla speranza di vita media nel Paese, possiamo evidenziare come questa sia passata dai 71 anni per gli uomini ed i 77 anni per le donne registrati agli inizi degli anni Ottanta; ai 77 anni per gli uomini e gli 83 anni per le donne riscontrati attualmente. Data quindi per assodata una considerevole presenza di anziani sul territorio nazionale, possiamo ora chiederci quale sia il loro stato di salute nell’età avanzata. In questo caso il rapporto dell'Istat mostra che, tra la popolazione degli over 65, il 40% è affetto da almeno una malattia cronica, il 18% ha limitazioni funzionali che incidono nella loro quotidianità (disabilità), il 68% delle persone con disabilità presenta almeno 3 malattie croniche, l'8% è confinato all’interno del proprio domicilio. La maggiore sopravvivenza e l'elevata prevalenza della multimorbosità e della fragilità nell'anziano hanno determinato inevitabilmente un incremento della disabilità con l'età. In Italia, nel periodo 2004-2005, le persone con disabilità di età superiore a 6 anni che vivono in famiglia erano circa 2.600.000 (4,8% della popolazione di 6 anni e più che vive in famiglia), oltre 2 milioni avevano più di 65 anni e di questi più della metà (circa 1.200.000) aveva oltre gli 80 anni. Se a queste si aggiungono anche le persone residenti nei presidi sociosanitari si arrivava a un totale di 2.800.000 disabili. Osservando il dato di genere, è possibile notare come siano in prevalenza le donne a essere svantaggiate, svantaggio che accresce con l'aumentare dell’età: quasi la metà (49%) delle donne di 80 anni e oltre presenta disabilità, mentre l'analoga percentuale per gli uomini è pari al 36%. Da sottolineare inoltre, che, in relazione all'aumento della popolazione, la previsione dell'Istat sul numero delle persone disabili per i prossimi 20 anni è di un incremento del 65-75%.
Gli ultrasessantacinquenni risultano poi essere i maggiori utilizzatori delle risorse sanitarie, il che, necessariamente, ha portato il Ssn alla necessità di una seria riflessione circa il ripensamento a livello logistico e strutturale delle prestazioni erogabili.
Nel concreto, questo importante cambiamento demografico, unito al progressivo allungamento delle aspettative di vita e all’aumento delle cronicità, ha comportato il tramonto di una visione ospedalocentrica dei servizi sanitari, resa necessaria sia per evitare un possibile collasso del sistema di assistenza, sia per migliorare la qualità delle prestazioni erogate. Non bisogna infatti sottovalutare anche i problemi di carattere economico prospettati dall’invecchiamento della popolazione, non solo in termini di assistenza e spesa sanitaria, ma anche in termini pensionistici. Diventa quindi vitale una più efficiente gestione delle risorse anche in quest’ottica.

I nuovi modelli territoriali di assistenza.  In Italia il principale strumento di supporto alle persone con disabilità e alle loro famiglie è rappresentato dal sistema dei trasferimenti monetari, di tipo sia pensionistico sia assistenziale. Vi è una carenza di servizi di assistenza formale da parte del sistema sociale, carenza che ricade inevitabilmente sulle famiglie, che continuano a svolgere e a farsi carico della maggior parte delle attività di cura e di aiuto ai loro componenti in condizione di disabilità. Il problema si aggrava ulteriormente se teniamo conto di ulteriori fattori che stanno sempre più caratterizzando la nostra società: la trasformazione della famiglia per la diminuzione o l'assenza dei figli e l'aumento della rottura delle unioni; la maggiore partecipazione della donna al mercato del lavoro (arrivata al 50,7%, valore peraltro ancora molto basso rispetto ad altri Paesi europei); la bassissima percentuale di anziani che ricevono un aiuto statale (2,1%) e spesso non adeguato ai reali bisogni rispetto alla media europea pari al 6-7%. Anche per questi motivi l'impiego di assistenti familiari straniere è attualmente in corso su vasta scala soprattutto nei Paesi dell'Europa Mediterranea. Questo fenomeno è in parte alimentato dalla diffusione di politiche pubbliche basate su trasferimenti monetari – piuttosto che sull'erogazione di servizi – che hanno finito con l'attrarre un gran numero di lavoratori non qualificati, principalmente nel settore domestico, con modalità occupazionali di sovente irregolari. Di recente, lo stesso ministro della Salute Ferruccio Fazio, ha proposto la messa a norma delle badanti con l’istituzione di corsi di formazione a livello nazionale, in modo da poter da una parte sfruttare quella che può divenire una risorsa a livello di assistenza domiciliare, dall’altro poter mantenere l’anziano nel proprio contesto limitando il ricorso al ricovero solo nei casi di effettiva necessità. Il ministro, per evitare confusione sul tema, ha anche sottolineato come questo tipo di assistenza non sia da confondersi con l’Assistenza Domiciliare Integrata (Adi). Quest’ultimo è un servizio in progressivo sviluppo nella rete dei servizi, anche se il suo grado di diffusione risulta ancora poco omogeneo nelle realtà regionali del Paese. L’Adi si può definire come l'insieme dei trattamenti medici, infermieristici e riabilitativi, prestati da personale qualificato direttamente al domicilio del paziente. Si tratta di interventi finalizzati alla cura e all'assistenza di persone non autosufficienti e in condizioni di fragilità, con patologie in atto o esiti delle stesse, per stabilizzarne il quadro clinico, limitarne il declino funzionale e migliorarne la qualità della vita quotidiana. Nasce dunque con l’obiettivo di ridurre il ricorso all'ospedalizzazione – in particolare dei ricoveri impropri o incongrui – e, dove indispensabile, contenere la durata della degenza con una riduzione dei giorni di ricovero impropri e/o incongrui.
Altro profilo assistenziale è quello delle Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA), ossia istituti di ricovero che accolgono persone anziane non autosufficienti, non più in grado di rimanere al proprio domicilio per la compromissione anche molto grave delle loro condizioni di salute e autonomia.
La ricerca di nuove soluzione non finisce qui. La rilevanza del problema della non autosufficienza in Italia e la carenza di una strategia di assistenza continuativa, ha reso necessario disegnare un possibile percorso di assistenza nelle sue diverse fasi, dalla segnalazione del problema alla sua valutazione, alla presa in carico, fino alla valutazione delle attività e degli esiti. Per fare ciò si è individuato nel territorio l'ambito di gestione del percorso assistenziale, nel quale si è deciso di collocare una nuova realtà, il Punto Unico di Accesso (PUA), che è il luogo fisico in cui viene ricevuta la domanda iniziale, viene coordinata l'erogazione dei servizi e vengono ospitate le figure responsabili delle equipe assistenziali.
Si può dunque affermare che a cambiare sia sostanzialmente l’approccio al paziente anziano, l’indirizzo è infatti quello di avere una visione olistica che comporti il passaggio dalla cura della malattia al prendersi carico della persona nella sua interezza.
Anche dal punto di vista del personale sanitario, con il paziente anziano dovrà venir meno il tradizionale approccio medico, a favore di una valutazione multidimensionale centrata sulla persona, che consideri la totalità e la complessità del paziente geriatrico, valutandone lo stato cognitivo, la funzione fisica, il tono dell'umore e le condizioni socioeconomiche.
Cruciale sarà poi, nello specifico, concentrare i propri sforzi sulla prevenzione primaria nei confronti delle malattie cronico-degenerative in modo da poter favorire quello che viene definito ‘invecchiamento attivo’. L’obiettivo diventa quello di individuare l’anziano fragile, in modo da poter da una parte migliorare la sua qualità della vita, e al tempo stesso diminuire i ricoveri impropri, con una conseguente riduzione della spesa sociosanitaria.

Anziani e farmaci.  Ultima voce in capitolo è, infine, quella relativa all’uso di farmaci. Ottimizzare il trattamento in presenza di condizioni di comorbidità multiple può essere un compito estremamente arduo, in particolar modo per ciò che riguarda gli anziani. Infatti i pazienti anziani con comorbidità multiple sono spesso esclusi dai trials clinici randomizzati (randomized controlled trial, RCT) e, di conseguenza, le evidenze provenienti da questi studi non possono essere generalizzabili a questa popolazione. La questione è ancora più complessa se si considera che le informazioni sulla sicurezza dei farmaci nella popolazione anziana sono molto scarse: generalmente gli RCT non sono progettati per avere sufficiente potenza nel rilevare il rischio di reazioni avverse (adverse drug reaction, ADR) e quindi solo i dati provenienti da studi osservazionali (con tutti i loro limiti intrinseci) possono essere d'aiuto. Peraltro, applicare le linee guida per singola patologia al paziente anziano è comunque problematico. Infatti, le raccomandazioni delle linee guida sono generalmente mirate alla singola malattia, e nella quasi totalità dei casi non tengono in considerazione la coesistenza di altre patologie croniche e dei relativi trattamenti farmacologici. Di conseguenza, aumentano notevolmente i rischi di interazioni farmaco-farmaco o farmaco-patologia.

Giovanni Rodriquez

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