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Lunedì 26 GENNAIO 2015
La riforma della sanità lombarda va nel segno giusto

Si propongono cose sulle quali si può anche non essere d’accordo ma che testimoniano una volontà  “evolutiva” superando quella del semplice “riordino”. Dal nuovo rapporto tra programmazione e erogazione all’assessorato unico salute-famiglia. Dall’integrazione della rete ospedale-territorio al nuovo rapporto tra sanità e enti locali

In tutta sincerità non ho compreso le critiche della ministra Lorenzin nei confronti della proposta di riforma della sanità della Lombardia. A parte alcune perplessità su eventuali eccessi di “regionalismo ambrosiano” più che federalista sui quali si può discutere, mi pare che la ministra non colga alcune novità che tuttavia si possono comprendere  solo se si  rammenta da dove si parte.  Sino ad ora  la sanità lombarda è stata prevalentemente “ospedalocentrica”, per usare il linguaggio della ministra, senza un territorio degno di questo nome, con una forte dicotomia tra sociale e sanitario e con una azienda concepita come di “gestione” che comprava per il pubblico  prestazioni dal privato.
 
La prima cosa che mi ha colpito del disegno di legge è il titolo “evoluzione del sistema socio-sanitario lombardo”. Mi sono chiesto perché non chiamarlo come fanno tutti “riordino”? La risposta è che non è un riordino e non è solo una “semplice revisione legislativa” ma è una contro prospettiva strategica per rispondere in tempo a certe prospettive epidemiologiche, sociali, economiche. Quindi è una “evoluzione” del sistema sanitario “verso la società del futuro” nel tentativo di adeguarlo “alle nuove complessità”. E questo non mi pare male.
I provvedimenti di riordino sono sempre  a sistema invariante e i loro  interventi in genere sono di tipo  marginalista, cioè  riguardano solo  alcune variabili del sistema, con lo scopo o di massimizzarle o di minimizzarle, convinti che agendo su quelle variabili di poter ottenere, nell’invarianza del sistema data, dei risultati o di compatibilità, o di risparmio o come si dice ora di “sostenibilità” e soprattutto nel breve periodo. Il riordino non è mai un pensiero riformatore, agisce nella logica dell’immanenza e il suo cruccio è amministrare lo status quo in altro modo  per raggiungere nella maggior parte dei casi risultati di compatibilizzazione e di risparmio.
 
In questa ottica si muove la proposta di riordino della Toscana di cui ho parlato recentemente incentrata sulla riduzione del numero delle Asl, e la riorganizzazione della rete ospedaliera del Piemonte di cui intendo occuparmi a breve.
Nel caso della Lombardia non di riordino si tratta ma di riforma e in questo desolato panorama in cui tutto viene riordinato per restare invariante  è un fatto che ha quanto meno un certo significato politico. Allora perché negarlo?
 
Lo spirito riformatore della proposta lombarda si evince da tante cose sulle quali si può anche non essere d’accordo ma che testimoniano comunque una volontà  evolutiva (nuovo rapporto tra programmazione e erogazione, assessorato unicosalute-famiglia, integrazione della rete ospedaliera con quella territoriale, nuovo rapporto tra sanità e enti locali  quindi integrazione socio sanitaria, programmazione su base epidemiologica ecc).
 
Si dirà  che alcune di queste proposte non sono proprio idee nuove di zecca e questo è vero ma il bello è che la maggior parte delle regioni a queste idee hanno rinunciato da tempo  scadendo per l’appunto nelle logiche economicistiche del riordino, mentre la Lombardia proprio in ragione delle sue esperienze passate le sta recuperando e in una certa misura rinnovando.
 
In questo sforzo riformatore ci sono tre idee nuove che vorrei rimarcare:
· il discorso sull’appropriatezza quale  relazione  tra clinica e economia che è un discorso non di compatibilità ma  di compossibilità tra modo di conoscere la malattia e limite economico;
· l’unificazione in un  unico assessorato le problematiche sociali con le problematiche sanitarie
· la valorizzazione  delle professioni attraverso  una “contrattistica” regionale il cui presupposto sono le prassi del  lavoro assunte quali mezzi di cambiamento per rispondere meglio  ai bisogni delle persone e per governare meglio i problemi della spesa.
 
Su questo  ultimo punto la ministra Lorenzin in nome del  pragmatismo si è detta contraria, ma è proprio per essere pragmatisti, nel senso giusto del termine, che, a certe condizioni  la proposta della Lombardia va incoraggiata.
 
Le mie proposte di autore cioè di operatore che va oltre l’idea burocratica di “compitiere”, da definire con un nuovo  scambio tra autonomia/responsabilità/esiti, sono note, come quella discussa su queste pagine di shareholder, cioè di un operatore che considera la propria professionalità il proprio capitale, e penso anche quella di reticolo professionale, cioè di un modo per definire prassi effettive a partire da effettive organizzazioni del lavoro. Il fil rouge di queste idee è riformare le prassi per riformare i loro effetti sia nei confronti dei diritti che nei confronti dei limiti economici proprio nel senso della proposta della Lombardia.
 
Se a prassi riformate corrispondono effetti riformati, cioè se cresce il valore aggiunto del valore delle professioni, questo valore aggiunto va retribuito oltreché  con delle retribuzioni mensili anche con  delle “attribuzioni” periodiche finalizzate a compensare l’impegno misurato per risultati. Per fare tutto ciò l’idea della Lombardia è la prima condizione fondamentale, cioè contrattare sul posto le condizioni del valore effettivo del lavoro e quindi dare un altro peso politico a quello che si definisce “contrattazione decentrata”.
 
In conclusione: applaudo all’idea riformatrice della Lombardia...che  invito a continuare il suo cammino evolutivo.. suggerendole ai fini di sostenere una contrattualistica adeguata  di mettere in piedi  un laboratorio “lavoro”. In tanti anni di riordino sanitario e quindi di programmazione sanitaria nessuno, ripeto, nessuno, ha mai avuto l’idea di fare del lavoro il primo fattore di trasformazione del sistema. Tutto ciò che è stato organizzato, riordinato ...razionalizzato è stato concepito a lavoro sostanzialmente  invariante. Non si riforma “un tubo” se non si riformano le prassi. Se il lavoro come sostengo io è il vero capitale del sistema riformare le prassi vale come la sua ricapitalizzazione. Ma senza una “contrattistica” adeguata come faccio a ricapitalizzare?
 
Ivan Cavicchi

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