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Mercoledì 18 MARZO 2015
Mielofibrosi. Da ottobre in Italia ruxolitinib a carico del Ssn. Il punto sulle terapie e sulla diagnosi

L’80% delle regioni lo ha già messo a disposizione. E’ l’unico farmaco ad aver dimostrato di aumentare significativamente la sopravvivenza nei pazienti con questa malattia rara per la quale finora non erano disponibili terapie in grado di modificarne il decorso

Ruxolitinib (nome commerciale Jakavi®), è il primo farmaco specifico per il trattamento della mielofibrosi ad essere rimborsato dal Ssn. La molecola ha rivoluzionato lo scenario terapeutico della mielofibrosi, poiché è l’unico farmaco ad aver dimostrato di aumentare significativamente la sopravvivenza nei pazienti con patologia per la quale finora non erano disponibili terapie in grado di modificarne il decorso. 
 
I pazienti trattati con Ruxolitinib inoltre, sperimentano una regressione della sintomatologia con un conseguente miglioramento sostanziale della qualità di vita. Il farmaco, a somministrazione orale, è stato approvato dall’FDA (Food and Drug Administration) nel 2011 e dall’EMA (European Medicines Agency) nel 2012 ed è entrato nella pratica clinica dopo solo 5 anni dal primo paziente trattato negli studi clinici, grazie ai significativi risultati ottenuti nel programma di sviluppo. 
 
In Italia il percorso è stato più lungo, infatti l’Aifa lo ha posto a carico del Ssn lo scorso ottobre ma oggi l’80% delle regioni loo ha reso disponibile.  Un ritardo importante per una malattia che non aveva cura e “che oggi l'Aifa ha destinato soltanto ai casi più difficili, mentre - secondo il professor Alessandro Maria Vannucchi, professore ematologo all'università di Firenze - il nuovo farmaco che contiene la molecola Ruxolitinib, potrebbe avere ancora più efficacia nelle forme lievi, evitando così ai malati di sopportare i pesanti disagi di una malattia che finora consentiva soltanto dai 2 ai 6 anni di sopravvivenza. Oggi siamo a una svolta nella cura di questa malattia del sangue e dagli studi in corso ci aspettiamo vantaggi ancora maggiori".  
 
In attesa della rimborsabilità del farmaco in Italia, i malati hanno potuto usufruire della cura attraverso le sperimentazioni e la casa farmaceutica Novartis ha consentito l'utilizzo del prodotto in ambito compassionevole, così da consentire ai malati colpiti da mielofibrosi di beneficiare dei miglioramenti nella qualità di vita e nel prolungamento della sopravvivenza stessa, nell'intervallo di tempo fra la registrazione e la commercializzazione, arrivata in ottobre 2014. Già l'80% delle regioni ha predisposto la rimborsabilità secondo i criteri stabiliti dall'Aifa. 
 
La mielofibrosi, una condizione che si instaura nel midollo osseo a causa di una serie di modificazioni genetiche, colpisce le cellule staminali emopoietiche, dalle quali hanno origine le cellule del sangue che comprendono globuli rossi, i bianchi e le piastrine. Le persone che presentano una modifica del gene Jak 1 e 2, oppure MPL e Carl, manifestano una iperattivazione cellulare che causa l’incontrollata proliferazione delle cellule del sangue. Il 60% dei pazienti presenta la mutazione Jak2, scoperta nel 2005 e nel 2006 sono state scoperte le altre così da poter dar inizio allo sviluppo dei farmaci, che vanno a bloccare il meccanismo alla base della patologia.
 
“E’ uno dei pochi casi – spiega Vannucchi - in cui la sperimentazione è passata alla fase clinica soltanto dopo 5 anni, grazie ai significativi risultati ottenuti dal programma di sviluppo. Questa patologia, che ha una incidenza di un caso ogni 100.000 persone,  determina una fibrosi nel midollo osseo con alterazione della produzione delle cellule del sangue. Fino a pochi anni fa la diagnosi non era favorita da sintomi specifici che vanno dall’anemia all’astenia, dalla perdita di peso alla sudorazione notturna, dalla febbre al dolore. Spesso si arrivava alla diagnosi in modo casuale, passando da un esame del sangue alterato. Oppure la diagnosi più semplice consisteva nella palpazione dell’addome, perché l’organo che manifesta i segni più evidenti è la milza, che si ingrossa fino a raddoppiare e triplicare il suo volume, diventando un vero peso nell’addome. Ora invece, dopo la scoperta delle mutazioni genetiche, l’OMS ha predisposto e rivisto i criteri diagnostici che ci permettono di scoprire la mielofibrosi seguendo un percorso specifico: splenomegalia, alterazioni delle cellule del sangue, alterazioni midollari e molecolari, fino alla biopsia e allo studio delle mutazioni.
 
L’arrivo di questo nuovo prodotto ha cambiato radicalmente la vita di questi pazienti. “In passato – dice il professor Francesco Passamonti, direttore dell’ematologia all’ospedale di Circolo di Varese – curavamo i malato controllando i sintomi e utilizzando farmaci come il cortisone per l’anemia, o l’eritropoietica per evitare le trasfusioni di sangue, ma pochi erano gli effetti sulla milza. Oggi, il nuovo farmaco ha dimostrato di agire sulla splenomegalia riducendo la milza del 50% del suo volume, sui segni clinici della malattia, come prurito, dolore osseo, muscolare e addominale. Ma ciò che più ci soddisfa è dare al paziente più anni di vita e una sensibile riduzione del rischio di morte. Una terapia risolutiva è il trapianto di midollo osseo, ma considerando l’età dei pazienti e il rischio di mortalità elevato, questa tecnica è riservabile soltanto al 5-10% dei malati”.
 
Stanchezza, mancanza di forze, difficoltà a stare con gli altri, un prurito su tutto il corpo, in particolare dopo la doccia. Sono queste le difficoltà che i malati hanno segnalato nelle domande e nelle storie del progetto “Back to life” avviato dalla Fondazione ISTUD per valutare e quantificare i disagi dei malati e dei loro familiari che spendono almeno 3 ore al giorno per assistere il loro familiare. Un impegno economico della malattia che raggiunge, fra perdita di lavoro e impegno assistenziale dei familiari, 11.000 euro all’anno che aumentano se l’assistenza viene eseguita da personale esterno.
 
Ma il momento più difficile da superare è l’impatto con la diagnosi: Pensavo che mi fosse rimasto poco tempo per vivere, dicono alcuni e per altri la maggior difficoltà era il lavoro, dove non hanno più potuto mantenere la posizione dirigenziale, ma si sono declassati a un livello impiegatizio. Storie significativamente diverse fra coloro che sono curati con le terapie tradizionali e chi invece già può utilizzare Ruxolitinib. Anche chi assiste il malato ha raccontato la sua storia, accennando a stati di umore pessimo del congiunto, talvolta anche aggressivo. Un prendersi cura veramente difficile. Oggi i pazienti possono avere voce attraverso il sito del Gruppo pazienti MMP-Ph, malattie mieloproliferative croniche, all’interno dell’Associazione italiana contro le leucemie-linfomi e mielomi, AIL, con l’obiettivo di promuovere occasioni di confronto tra le persone colpite da queste patologie oncologiche rare. Una sorta di reality della malattia per scongiurare falsi miti e tabù.
 
Edoardo Stucchi

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