quotidianosanità.it

stampa | chiudi


Lunedì 11 MAGGIO 2015
Contratti. Ripensare quelli degli operatori Ssn per una retribuzione in “funzione della salute”

È tempo di aprire un tavolo di confronto con le OO.SS. per rinnovare almeno la parte normativa dei contratti. Moltissimo tempo fa, Ivan Cavicchi e un gruppo di giovani sindacalisti della Cgil, avviarono una riflessione sulla ipotesi che si potesse definire la retribuzione in “funzione della salute” immaginando un salario mutevole in relazione ai mutevoli ambiti di lavoro e alle caratteristiche del lavoro stesso.

È tempo di aprire un tavolo di confronto con le OO.SS. per rinnovare almeno la parte normativa dei contratti. Non è più rinviabile, infatti, la ridefinizione di un modello contrattuale nato in un contesto in cui occorreva rispondere ai processi inflattivi con rinnovi biennali della parte economica e si considerava la parte normativa poco dinamica e in grado di reggere rinnovi ogni quadriennio. Quanto è accaduto in questi anni mostra, al contrario, la necessità di mettere il sistema delle relazioni sindacali al passo con il rapido mutare dei contesti ed in particolare con il profondo mutamento dello scenario legato ai processi di progressione di carriera dei professionisti che operano nella sanità.

È indubbio che il paradigma contrattuale legato alla copertura di ruoli di dirigenza gestionale (direttore di struttura complessa, di dipartimento, di struttura semplice ecc.), mostra la corda ed è sempre più lontano dal garantire ai professionisti di qualità prospettive di carriera realmente praticabili. L’aggancio delle strutture complesse ai posti letto (una struttura complessa ogni 17,5) prima, e gli standard, previsti dal Patto per la Salute, relativi al rapporto tra abitanti e discipline dopo, hanno sostanzialmente modificato e modificheranno le opportunità di percorsi di carriera degli operatori. Di fronte a tale contesto è inevitabile ripensare il modello contrattuale in direzione, a mio avviso, di una netta separazione tra le funzioni gestionali e quelle professionali. Immaginando le prime funzionali alle seconde. Come in una squadra di calcio occorre distinguere chiaramente tra chi ha le responsabilità organizzative e strategiche, l’allenatore, e chi fa i goals, i giocatori della squadra, superando promiscuità di ruoli e appiattimenti retributivi (nelle grandi squadre i campioni sono pagati ben oltre il loro allenatore anche se sarà quest’ultimo a stabilire chi scende in campo e a poter sospendere coloro che non rispettano le strategie di “gioco”).

Per essere chiari, non è pensabile che le punte di elevata qualità professionale di una azienda debbano essere retribuite nello stesso modo del resto del personale e di coloro che svolgono funzioni organizzative. Queste scelte potrebbero essere avviate modificando l’uso del fondo posizioni e di risultato legando l’accesso a queste risorse esclusivamente a coloro che garantiscono almeno l’equilibrio economico tra costi sostenuti e valore della produzione. Come è possibile che si continui a ritenere sullo stesso piano l’unità operativa con una quantità e qualità di prestazioni erogate di dimensione e pregio elevato con unità operative non in grado di coprire gran parte dei costi? E non mi riferisco certo alle attività di emergenza che dovranno continuare ad essere finanziate augurandosi che nessuno ne abbia bisogno.

Analogamente, anche per il personale del comparto occorre distinguere nettamente tra realtà (dipartimenti, aree assistenziali) organizzate con logiche di ottimizzazione delle risorse e di centralità dei bisogni assistenziali dei pazienti da chi continua ad operare con modelli organizzativi dispersivi, diseconomici e non modellati sui bisogni assistenziali dei cittadini ospiti del Sistema Sanitario Nazionale, ma esclusivamente sulle esigenze di chi continua a ritenere la gestione del posto letto e non del malato elemento centrale della propria attività, confidando ancora sulla possibilità che tale governo attiri clienti nella attività intramuraria, nei casi trasparenti, o in quella che si continua a svolgere in nero, nonostante i divieti di legge, negli ambiti più impensabili comprese le stesse strutture del Servizio Sanitario Nazionale.

Moltissimo tempo fa, Ivan Cavicchi e un gruppo di giovani sindacalisti della CGIL, avviarono una riflessione sulla ipotesi che si potesse arrivare a definire la retribuzione in “funzione della salute” immaginando un salario mutevole in relazione ai mutevoli ambiti di lavoro e alle caratteristiche del lavoro stesso. Allora non se ne fece nulla, ma perché oggi non immaginare retribuzioni diverse in relazione alle pratiche adottate negli ambiti di lavoro, dall’utilizzo dei sistemi informatici, al grado di raggiungimento degli obiettivi di esito che appaiono, anche grazie all’impianto delle disposizioni della legge di stabilità 2015 relative al mancato conseguimento da parte dei direttori generali degli obiettivi di salute, un problema di esclusiva competenza delle Direzioni Generali e non dei professionisti. È un atteggiamento da vigliacchi quello di scaricare sulle Direzioni Generali gli effetti di politiche di arruolamento del personale medico realizzate quasi sempre attraverso l’intervento di un politica indifferente alla qualità professionale.

Non sarebbe opportuno, alla luce dei richiamati obiettivi, fornire strumenti per impedire che, ad esempio, ginecologi con percentuali di parti cesarei che superano il 60% possano continuare ad imperversare nelle ostetricie e ginecologie del paese e soprattutto del sud? Quali strumenti gestionali sono stati resi disponibili per allontanare coloro che recano nocumento ai loro pazienti e alle amministrazioni di appartenenza sempre più chiamate a sostenere richieste risarcitorie da parte di cittadini danneggiati dal sistema sanitario? Non sarebbe auspicabile che il rinnovo contrattuale affronti il tema della copertura assicurativa in modo diverso rispetto il passato, tenendo da conto degli obblighi di adozione dei protocolli diagnostico – terapeutici e di prassi che devono sempre più garantire la riduzione del danno e dei conflitti con i cittadini? L’adozione di strumenti quale l’obbligo di indicare nella prescrizione della terapia il sospetto diagnostico, già osteggiato dalle lobbies di alcune categorie mediche, o quello di videoregistrare tutti gli interventi operatori, come già accade in numerosi paesi europei, possono trovare un riscontro nella retribuzione contrattualmente definita?

E ancora, è possibile che in un sistema sanitario che vede accrescersi sempre più l’età media degli operatori non venga prevista la possibilità di ingresso dei giovani esclusivamente nella medicina ospedaliera riservando l’accesso alle convenzioni a coloro che hanno svolto un periodo più o meno lungo negli ospedali e addirittura sono costretti, ad oltre 60 anni, a svolgere turni di guardia, in alcuni casi massacranti, mentre baldi giovani neolaureati accedono alla medicina di base o alla pediatria di base senza una esperienza qualificata in assenza della quale, in numerosi casi saranno trasformati in meri prescrittori di farmaci? In questo senso Federsanità ANCI è disponibile a partecipare ad un tavolo di lavoro con il Ministero della Salute avente come oggetto il contratto degli operatori del SSN con la convinzione che il contratto può e deve essere, non necessariamente una occasione di nuovi costi, ma uno strumento di razionalizzazione coerente con le scelte di programmazione già realizzate che rischiano di infrangersi sugli scogli dei retaggi del passato presenti nei contratti attualmente in vigore.

Michele Vullo
Coordinamento Politiche Personale e Professioni Sanitarie Federsanità ANCI  

© RIPRODUZIONE RISERVATA