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19 LUGLIO 2015
Tutti i non sense dell’atto medico



Gentile Direttore,
ho letto con molto interesse l’articolo a firma Pierantonio Muzzetto alla quale vorrei tentare di articolare una risposta senza incorrere nel rischio di giocarcela troppo in “salsa emiliana”. Personalmente faccio un po’ fatica a rilevare il “cambio di paradigma che riguarda le pertinenze universitarie e le competenze post-laurea” perché, nato come infermiere da una formazione di base, approfondita con una post-base in Università, per me questo paradigma rappresenta semplicemente la strada con cui i professionisti (di tutti i profili e da circa 15 anni) determinano la loro collocazione nel panorama sanitario del nostro Paese e, da migranti economici, sempre di più nel mondo che ci circonda.
 
Quando ho letto la parola “paradigma” mi sarei aspettato che il Collega Muzzetto si riferisse a quello sempre più di attualità per gli assistiti, ovvero quello della cronicità. Tutti quanti, a partire dai rappresentanti politici a livello nazionale e regionale, sono portati a lavorare per continuare a garantire alla popolazione, nella limitatezza delle risorse disponibili, il sistema universalistico di prestazioni che oggi conosciamo. Gli assistiti diventano sempre più anziani, spesso sono affetti da patologie cronico-degenerative meritevoli di una diagnosi accurata (e possibilmente precoce) e, soprattutto, di una gestione accurata del percorso che ne segue per favorire il miglior livello di compenso funzionale possibile. Questo percorso potrà beneficiare fortemente di un rafforzamento dell’assistenza sanitaria sul territorio, nelle strutture intermedie, nelle residenze assistenziali e al domicilio ovvero in tutto quel “mondo” che sta dietro all’ospedale per acuti e a quello che il comma 566 della Legge di stabilità definisce “atto complesso e specialistico”.
 
Certamente la discussione che oggi si incentra su comma 566 Vs atto medico è tutt’altro che da banalizzare. È singolare, però, che l’argomento sia diventato così d’attualità dopo 15 anni dall’approvazione della legge 42/1999. Questa, infatti, definisce che il limite al campo proprio di attività e di responsabilità delle professioni sanitarie sia determinato dalle competenze previste per le professioni mediche e per le altre professioni del ruolo sanitario.
 
Per chi, come me, è stato cresciuto a “pane e legge 42” l’articolato appare chiarissimo. In dodici anni di attività professionale, infatti, nessun medico (o fisioterapista, o tecnico di radiologia) mi ha mai denunciato per avere abusato dell’altrui professione invadendone la sfera di responsabilità, anche se molte volte mi sono trovato a discutere attorno ad essa. Il confine di autonomia e responsabilità, infatti, è mutevole e dipende dagli attori in campo, dalle competenze rappresentate e dai modelli organizzativi in cui operiamo. Il confine delle competenze tra professionisti è più o meno in uno spazio definito che potremmo impegnarci a determinare per Legge, ma il confine vero che sperimentiamo ogni giorno sui luoghi di lavoro è un po’ come il confine del mare, dell’infinito oceano mare che Baricco ci ricorda finire in un’istante e in una curva effimera rappresentata dal disegno di un’onda sulla spiaggia.
 
Il dott. Muzzetto ci ricorda che “ancora una volta nelle dinamiche legislative il grande assente è stato ed è ancora proprio il medico”. Si discute nelle sedi parlamentari di un accordo Stato-Regioni relativo a competenze specialistiche dei professionisti sanitari più o meno dal 2011, nel 2013 entrano (o vengono riconfermati) in Parlamento 25 medici come Senatori e 29 come Deputati e nessuno di questi si è accorto di nulla? Tutti hanno ritenuto di non coinvolgere nella discussione la propria famiglia professionale a partire dall’allora Presidente della FNOMCEO Sen. Bianco? Davvero molto strano.
 
E ancora: “in una moderna medicina, è fondamentale sapere chi sia il punto di riferimento per il paziente e chi abbia la gestione della sintesi clinica nel percorso di cura: ossia diagnosi, terapia, prognosi, prevenzione, riabilitazione e coordinamento, pur in un sistema di relazioni”.
 
Proviamo a fare degli esempi, giusto per capirci.
 
Ambulatorio di wound care. Siamo davvero sicuri che sia necessario un atto medico per determinare la diagnosi (lesione da compressione al sacro a tutto spessore che si estende fino al grasso sottocutaneo), la terapia (pomata proteolitica 2 applicazioni/die con garza) e la prognosi (10 giorni, fino a completo sbrigliamento del tessuto fibrinoso)? Un infermiere specialista in wound care non potrebbe gestire in autonomia il caso? Certamente questo professionista si dovrebbe fermare davanti ad un assistito con segni di malnutrizione per attivare immediatamente l’adeguata valutazione dello specialista medico.
 
Azienda Sanitaria della Regione Veneto. Siamo davvero sicuri che sia necessario un atto medico per condurre un progetto di prevenzione attraverso uno screening cardiovascolare ai dipendenti neocinquantenni aumentandone le conoscenze e la percezione del rischio per farne testimonial, come operatori sanitari, di una vita sana? Tecnici della prevenzione e assistenti sanitarie non potrebbero gestire in autonomia questo percorso? Certamente questi si fermerebbero se nello screening venissero coinvolti lavoratori che manifestassero problemi attuali (e non solo potenziali) di natura cardiovascolare per attivare immediatamente la valutazione dello specialista medico.
 
Terapia Intensiva adulto. Siamo davvero sicuri che sia necessario un atto medico per attivare la mobilizzazione precoce, dalla quella passiva fino all’alzata dal letto, nelle persone ricoverate? Il fisioterapista, magari specialista, sulla base di valutazioni oggettive e in collaborazione con l’intensivista non potrebbe attivarsi autonomamente senza passare attraverso la preventiva consulenza fisiatrica col solo intento di prevenire i danni da immobilità protratta come già avviene in mezzo mondo?
 
Centrale Operativa 118. Siamo davvero sicuro che sia necessario un atto medico per attivare il coordinamento dei soccorsi in caso di maxiemergenza? No, inutile continuare il ritornello. In questo caso sono sicuro che bastino gli infermieri dotati della tecnologia e dei protocollo che si sono costruiti in 20 anni di ottima attività in tutt’Italia.
 
Queste sono le basi concrete a cui gli infermieri vogliono riportare i termini della questione. Per questo motivo anche recentemente FP CGIL - CISL FP - UIL FPL e Collegi e Associazioni delle professioni sanitarie hanno detto no a passi indietro sull’implementazione delle competenze perché “dopo anni di intenso confronto con Governo e Regioni, con la sua consacrazione a rango normativo ritenuta necessaria proprio dall’Esecutivo e sancita dal comma n. 566 dell’art. 1 della legge di stabilità, l’implementazione delle competenze delle professioni sanitarie deve passare alla sua fase attuativa”.
 
Forse non c’è bisogno di un “moderno modello di medicina” ma di un “attuale modello di assistenza” che interpreti i bisogni della nostra società e, attorno al quale, ruotino, collaborando, il modo medico, quello infermieristico e tutti gli altri mondi professionali.
 
Gli infermieri, dal canto loro, hanno già proposto un modello di competenze cliniche "perfezionate", "esperte" e "specialistiche” e due assi su cui disegnare la professionalità: quello della clinica, che rappresenta la linea del governo dei processi assistenziali e quello  della gestione, che rappresenta il governo dei processi organizzativi e delle risorse.
 
Anche questo modello è passato al Consiglio Nazionale, con qualche distinguo utile, utilissimo per tenere alto il livello della discussione nella famiglia professionale infermieristica. L’unanimità, non sempre, è la migliore medicina per crescere.
 
Matteo Manici
Infermiere, Presidente Collegio IPASVI Parma
(futuro “Ordine degli Infermieri” quando il Parlamento si deciderà di legiferare a riguardo)

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