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Lunedì 27 LUGLIO 2015
L’interessato, deleterio, inevitabile cupio dissolvi di welfare e sanità

Non vorremo proprio assistere, magari fra un po’ di anni, a vecchietti dalle pensioni irrisorie, malmessi e incattiviti, che alla ASL si azzuffano tra loro per contendersi le poche visite disponibili o i farmaci residui. Scene che speriamo di non dovere vedere mai. Per due motivi essenziali. Per elementari ragioni di civiltà. E perché quei vecchietti saremo noi

Un paio di giorni prima dell’uscita di ieri di Gutgeld sul “taglio” da 10 miliardi al SSN ho commentato le cause e gli effetti del trend ormai imperante di riduzione del welfare.
 
A quelle dichiarazioni di Gutgeld sono seguiti anche su QS vari commenti sindacali e di parte, più o meno interessanti. Invece io provo a continuare la mia analisi oggettiva, certamente non difensiva di ruoli o posizioni rappresentative, se non quelle del cittadino informato sui temi.
 
Come già scritto, abbiamo il debito pubblico procapite più alto dei greci e i cerberi dell’EU, che poi chiedono solo il rispetto degli impegni che noi stessi abbiamo sottoscritto in passato, hanno aggiustato il tiro sul tipo di tagli: da generico “spending review” a ben indirizzato “social welfare review”, leggi soprattutto pensioni e sanità.
 
Come raschiare il barile? Dato che i dipendenti pubblici non li puoi mettere per strada e siccome sulle pensioni abbiamo poco da ridurre, visto che le future dei precari di oggi sono da fame, le attuali sono intoccabili come sancito dalla Consulta, resta la sanità. Pure se sotto finanziata, con la spesa tra le più basse in EU, ma comunque guardata di traverso per quell’inefficienza o malaffare che ne autorizzano moralmente allo schiaffo (benché il SSN italiano salvi la vita e garantisca la salute di milioni e milioni di italiani).
 
Scrivevo che ridurre l’assistenza pubblica sposta la domanda sul privato e, in un malinteso mood liberista di stampo thatcheriano, così il grande capitale beneficia di una delle principali aree residue di business in Paesi abitati sempre più da vecchi: commodities e sanità. E come dalla stessa via passino opportunisticamente nuovi modelli sociali a ridotte tutele (es.: job act) per trasferire ulteriormente ricchezza dal reddito al profitto.
 
Ragioni alle quali si aggiungono un paio di altre determinanti cruciali, sebbene non specifiche dei Piigs ma allargate anche agli Stati ricchi: spostare la spesa per il welfare, improduttiva, a settori di competitività produttiva con le economie emergenti, i Brics, Cina e India su tutti.  
 
Infatti le forbici sul welfare sono al lavoro anche nei Paesi ricchi e con i conti a posto.Uno degli ultimi numeri del British Medical Journal pubblica una ricerca dell’Università di Oxford, ripresa dal Financial Times, che evidenzia come a causa dei tagli a sanità e welfare, il numero di pasti gratuiti erogati dalle charities inglesi nell’ultimo quinquennio sia quasi quadruplicato.
 
Der Spiegel riporta comein Germania dal 2011 l’affluenza alle mense dei poveri sia raddoppiata a causa delle restrizioni al welfare, quelle per cui la Ministra del Lavoro ha previsto per il 2030 un terzo dei pensionati sotto la soglia di povertà.
 
Insomma, si taglia il welfare anche nell’Europa ricca, in UK o Germania. Là dove è nato e meglio cresciuto. La Gran Bretagna del “from the cradle to the grave”, dalla culla alla tomba, di Beveridge e dei “bisogni primari come diritti” di Thomas More, giustiziato da Enrico VIII (emblema dell’individualismo) e fatto Santo da Cattolici e Anglicani e non a caso per entrambi Patrono degli Statisti.
 
E nella Germania dello “Stato Sociale” nato dalle Gilde di Bismarck già a metà ‘800 poi modernizzatosi con gli Ordoliberali di Friburgo e la loro potente ma redistributiva “economia sociale di mercato”, fondamentale nella trasformazione in potenza economica di una nazione uscita sconfitta da entrambe le guerre mondiali (insieme al taglio del gigantesco debito finanziario post bellico).
 
La strategia è nota: nella sempre più accesa competizione globale, si dirottano risorse di welfare, ritenute “poco produttive” (servono per anziani e bambini), a settori di produzione privati per competere con e nelle economie emergenti. Proprio quelle che basano la propria forza proprio su scelte antitetiche al welfare stesso, ossia damping sociale e ambientale.
 
Del resto, oggi ridimensionare il welfare è socialmente facile: crebbe sostenuto da un consenso diffuso allaredistribuzione della ricchezza che oggi non c’è più, sostituito da un opposto“zeitgeist” individualista e consumista. Ilpovero che prima si batteva per una società più equa e chiedeva al ricco giustizia e riequilibrio economici oggi vuole solo fare i soldi come lui, a scapito dell’altro povero che gli sta a fianco, in un “quarto Stato” che da plurale si è fatto singolare. Quel corposo senso del “noi” ormai sorpassato (a sinistra) dallo snello e dinamico ”io”, che corre veloce verso il più vicino centro commerciale.
 
Alimentando quel paradosso socio economico tra ricchezza e felicità che oggi è al centro delle società avanzate: usiamo le immensamente superiori capacità produttive di cui oggi tecnologicamente disponiamo non per affrancarci da quei bisogni comuni primari ma per crearcene di nuovi, individuali e di mero consumo, in un loop continuo costretto ad alimentare se stesso per sopravvivere e prosperare.
 
Sbagliato. Attenzione al “cupio dissolvi” del welfare sanitario. Allo spostamento sulla spesa privata. In bisogni primari come la salute, l’individualismo del profitto spinto, del mercato mosso dalla mano invisibile troppo rapace di Adam Smith, non produce quel livello minimo di benessere diffuso di cui proprio lo stesso mercato ha assoluto bisogno per sopravvivere, trascinandolo in basso con l’intera società di cui è pilastro portante. “Sul Titanic sono affondati anche i passeggeri della prima classe”, ammonisce Roosevelt nell’apologo keynesiano defluito dal principio Marxista dell’auto estinzione del capitalismo per suo stesso eccesso.
 
In sintesi, detto grossolanamente, un buon welfare, per uno dei suoi principi ispiratori per tutti i suoi sostenitori da Bismarck a Churcill, da Adenauer fino a Obama, garantisce indirettamente anche un certo livello negli altri consumi a beneficio di tutta l’economia di un Paese.
 
Perché la riduzione delle prestazioni sanitarie pubbliche, data la naturale scarsa comprimibilità della loro domanda, sposta la loro soddisfazione sulla tasca privata, a scapito di ogni altro consumo passandolo in subordine, e quindi parcellizzando e rallentando quel flusso circolare del reddito alla base delle dinamiche economiche in tutte le società moderne.
 
Tant’è che tutte le sanità del mondo sono basate sul principio del mutuo soccorso, della condivisione del rischio e della redistribuzione delle risorse comuni, dalle mutue al NHS fino alla riforma di Obama. Si dice poco, ma la sanità pubblica USA (Medicare, Medicaid, Schip, ecc.), assorbe più PIL, 8,5%, del nostro SSN, 7%, più pubblica la loro della nostra.
 
Ma può non bastare neanche più eliminare altri consumi per coprire col proprio portafoglio i bisogni sanitari non più soddisfatti pubblicamente, dato l’allargamento della povertà, l’aumentata polarizzazione della ricchezza, le insicurezze crescenti e l’ascensore sociale invertito. Ne derivano due potenziali gravi conseguenze, a sommarsi tra loro.
 
Una è che ci si curerà di meno o per niente (sta già appunto accadendo), con l’abbassamento del livello generale di salute. L’altra è la crescente competizione tra “poveri” per le razionate prestazioni pubbliche residue, che nell’Italia familistica e amorale significa corsa alla raccomandazione, al favore, alla furbata o alla mazzetta, in sintesi alla trasformazione del diritto in elargita concessione. Uno scenario hobbesiano, da antropologia precivica condita in maleodorante salsa tricolore.
 
Allora non vorremo proprio assistere, magari fra un po’ di anni, a vecchietti dalle pensioni irrisorie, malmessi e incattiviti, che alla ASL si azzuffano tra loro per contendersi le poche visite disponibili o i farmaci residui. Scene che speriamo di non dovere vedere mai. Per due motivi essenziali. Per elementari ragioni di civiltà. E perché quei vecchietti saremo noi.
 
Prof. Fabrizio Gianfrate
Economia Sanitaria 

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