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Martedì 08 SETTEMBRE 2015
Cassazione conferma condanna per omicidio colposo per infermiera: aveva alimentato malato di ictus senza autorizzazione del medico

Il caso riguarda un’infermiera del reparto di medicina d’urgenza del Cannizzaro a Catania. Contravvenendo a specifiche indicazioni mediche aveva alimentato ordinariamente un paziente colpito da ictus cerebrale cagionandone il decesso per insufficienza respiratoria e cardiocircolatoria. LA SENTENZA

Nel reparto di medicina d’urgenza dell’ospedale Cannizzaro di Catania, a un paziente ricoverato in seguito a un ictus cerebrale, un’infermiera “contravvenendo a specifiche disposizioni mediche che ne precludevano l’alimentazione ordinaria procedeva a somministrare a un paziente un omogeneizzato di pollo diluito con brodo di semolino cagionandone il decesso per insufficienza respiratoria e cardiocircolatoria acute da aspirazione di materiale alimentare semisolido”.
 
La contestazione, nei primi due gradi di giudizio, era relativa ad avere “proceduto autonomamente alla valutazione sull’opportunità di procedere ai test dell’acqua e allo svezzamento senza attendere l’autorizzazione dei medici”.
 
L’altro profilo di colpa individuato era relativo alla carenza di urgenza nel procedere nell’alimentazione per via orale senza che si prospettassero “esigenze di urgenza tali da impedire alla stessa (infermiera) di attendere quanto meno il giro delle visite della mattina successiva per consultare il medico”.
 
Infine è stata contestato il mancato rispetto delle linee guida che “prescrivono l'utilizzo l'uso di un cucchiaino e l'invito al paziente a tossire delicatamente dopo ogni deglutizione ed a deglutire più volte, anche per piccoli boli, per svuotare completamente la faringe”.
 
L’autopsia ha evidenziato la presenza di tracce alimentari negli alveoli polmonari con la conclusione, nelle due sentenze di merito, di accertarne la causalità di morte dovuta proprio all’aspirazione di “materiale alimentare all'interno delle vie aeree e nei polmoni del paziente”.
 
La difesa dell’infermiera ha evidenziato alcuni elementi contraddittorinel fatto che ovviamente non sono stati esaminati dalla Corte per la natura stessa del ricorso di cassazione che non può entrare nel merito ma si limita agli elementi di diritto.
 
Sono comunque interessanti di essere riportati in questa sede. Si assume il fatto che non vi era uno specifico divieto da parte dei medici essendo annotato in cartella clinica solo la dicitura “digiuno no insulina”, da intendersi come il divieto di somministrazione di insulina e non anche un perdurante divieto, nel passaggio dei giorni, di ritorno all’alimentazione naturale.
 
Tra l’altro, lamenta sempre la difesa, era stato preparato un piatto di brodo sigillato e predisposto per il paziente che poteva, in un qualche modo, dare adito all’infermiera stessa dell’implicita autorizzazione a tornare all’alimentazione per via orale. L’altro elemento è relativo alle risultanze autoptiche che hanno evidenziato tracce di un ”vasetto di omogeneizzato” che non erano coincidenti con le “tre-quattro cucchiaiate di brodo somministrate dall’imputata al paziente” e che le tracce di residuo di fibre di carne all’interno della trachea e degli alveoli polmonari fossero null’altro che il risultato del “massaggio cardiaco praticato sul paziente mediante la pressione sullo sterno, che aveva provocato un reflusso del materiale già esistente all’interno dello stomaco”. Quest’ultima annotazione risulta suggestiva.
 
Tali fatti, lo ripetiamo, appartengono al merito e quindi insuscettibili di essere riesaminati dalla Cassazione.
 
Nelle motivazioni di diritto la Corte ha sottolineato la corretta ascrivibilità della responsabilità del fatto all’infermiera in seguito alla “impropria somministrazione del cibo” evidenziandone il carattere “imprudente” per i tre motivi sopra ricordati: l’assenza dell’indicazione medica, l’assenza dei test sulla deglutizione e l’inosservanza delle linee guida.
 
Visti gli eventi la conferma della condanna risultava scontata. Rileviamo, visti i tempi e le polemiche sulle “competenze” che ci sono state negli ultimi mesi, che non viene rilevata l’illegittimità dell’agire infermieristico in assenza dell’autorizzazione medica con la conseguenza di addivenire all’accusa di esercizio abusivo della professione, ma solo la pura situazione colposa per negligenza e imprudenza.
 
Come al solito, per prassi costante, le discussioni legate alla legittimità sono sostanzialmente ignorate dalla giurisprudenza di legittimità (ma anche da quella di merito) mentre appassionano decisamente il mondo professionale sanitario.
 
La sentenza si conclude con una didascalica evidenziazione dell’inapplicabilità, al caso di specie, della legge Balduzzi. Come è noto l’articolo 3 della legge Balduzzi stabilisce una parziale abolitio criminis della responsabilità professionale laddove l’agire professionale stesso sia subordinato all’osservanza di linee guida e buone pratiche.
 
Inapplicabile in questo caso per un duplice motivo: l’inosservanza delle linee guida – anche se, in questo caso, potrebbero essere più correttamente inquadrate come “buone pratiche” visto che stiamo sostanzialmente parlando della sicurezza del paziente – e la limitazione dell’esenzione della responsabilità ai soli casi di imperizia e non di negligenza e imprudenza come in questo caso.
 
E’ “concettualmente da escludere”, chiosa la Suprema Corte, che l’esenzione dalla responsabilità possa estendersi a tali profili di colpa con la conseguenza che il “sanitario (qui l’infermiere) imprudente e negligente non potrebbe invocare una pretesa adesione alle linee guida per eludere la propria responsabilità”.
 
Viene quindi ribadito, in linea con i precedenti orientamenti, che l’esimente prevista dalla legge Balduzzi riguarda solo i casi di imperizia.
 
Luca Benci
Giurista

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