quotidianosanità.it

stampa | chiudi


Mercoledì 11 NOVEMBRE 2015
Laurea infermieristica. Il “Monopolio” di Roma: nelle quattro università capitoline si laurea il 47% di tutti gli aspiranti infermieri italiani

La Sapienza, Tor Vergata, la Cattolica e il Campus Biomedico sfornano quasi la metà degli infermieri italiani con una cinquantina di corsi di laurea in infermieristica dispersi in quasi tutti gli ospedali e su tutto il territorio regionale. Ma il problema della laurea infermieristica, e questo vale per tutto il Paese, è anche la disomogenità degli insegnamenti

Nel dibattito in corso sulle “nuove” competenze delle professioni sanitarie, infermieristiche in primis, nessuna riflessione ha coinvolto finora i  “Cursi studiorum” e gli ordinamenti didattici relativi ai diversi percorsi di laurea  triennali e magistrali. E questo nonostante che a seguito  della eliminazione del mansionario,  avvenuto con l’entrata in vigore della legge 42/1999,  la formazione universitaria eserciti un ruolo di rilievo  (in aggiunta  alla declaratoria contenuta nei profili e alle norme del codice deontologico)   nel definire le competenze specifiche della professione.
 
Questa lacuna  appare dunque di difficile comprensione, anche perché a ben guardare esistono alcuni aspetti paradossali nella formazione universitaria che meriterebbero di essere approfonditi. Cercherò di illustrarne alcuni riprendendo in parte quanto ho avuto modo di sottolineare in un recente convegno promosso sul tema dall’Ordine dei Medici di Parma.
 
La "santa" romana università
Il primo elemento di anomalia del sistema è il ruolo semi monopolista svolto dalla regione Lazio dove vengono laureati il 47% di tutti  gli infermieri che ogni anno conseguono il titolo di studio.
A Roma sono infatti   presenti (potremmo dire irragionevolmente) 4 università (La Sapienza, Tor Vergata, La Cattolica e Campus Biomedico) che hanno istituito ben 6 facoltà di medicina (3 alla Sapienza, e una ciascuna per le altre università) a cui corrispondono una cinquantina di corsi di laurea in infermieristica dispersi in quasi tutti gli ospedali e su tutto il territorio regionale.
 
Questo eccesso di offerta tuttavia, non solo non si traduce  in vantaggi  per il SSR,  ma va a limitare la stessa capacità di programmazione della regione in quanto un significativo numero di posti letto e servizi diventano  di pertinenza obbligata delle università (proporzionalmente  al numero di  studenti) e vengono così  sottratti alla pianificazione  regionale. In una sorta di legge dei vantaggi comparati  al rovescio la regione invece di  recuperare risorse della  posizione di dominanza che essa ha nel mercato della formazione ne consuma per formare professionisti che gravano sui suoi bilanci  e che una volta  formati  torneranno a lavorare nelle regioni di origine che nulla hanno speso
            
Sorge allora una domanda: sarebbe forse peregrino chiedere alle regioni che non hanno attivato un numero di corsi in grado di soddisfare le proprie esigenze formative e che si “servono” delle università attivate da altre regioni, di farsi carico in quota parte dei costi che la formazione comporta? Non sarebbe auspicabile che anche nel sistema universitario fossero introdotte delle compensazioni in caso di  mobilità passiva verso le facoltà di altri territori? Veniamo poi a un secondo paradosso
 
La dis-omogenità degli ordinamenti didattici
Ciascuna delle facoltà citate   ha un proprio manifesto degli studi che presenta diversità non solo tra le diverse università ma anche all’interno delle diverse facoltà (vedi Medicina e Farmacia e Medicina e Psicologia della Sapienza) presenti nella stessa università. Un fatto questo che  solleva ulteriori perplessità  non essendo  espressi  dei criteri di scelta tra le diverse opzioni possibili e perché all’origine di difficoltà nell’eventuale trasferimento degli studenti.
Il problema non è ovviamente solo laziale, ma è equamente distribuito su tutto il territorio nazionale ed è  molto sentito dagli stessi  direttori didattici che preferirebbero una maggiore omogeneità tra i diversi corsi universitari. Da dove nasce tale problematica? Cerchiamo di analizzarne le cause
 
All’origine della dispersione
Che una dose  di dispersione didattica tra i diversi atenei sia presente è un fatto in un certo senso inevitabile: essa origine dallo stesso  DM 270/2004 in base al quale (commi 2 e 4 dell’articolo 10) i crediti vincolati a livello nazionale (ora riferiti unicamente alle attività di base e caratterizzanti) sono scesi al 50% per i corsi di primo livello ed al 40% per i corsi di secondo livello. Fatto questo che ha dilatato sensibilmente il grado di autonomia delle sedi universitarie. Il combinato disposto del DM 270 tuttavia non è sufficiente da solo a spiegare il fenomeno nella su  interezza
           
La dispersione nasce infatti anche  dalla mancata attivazione da parte di alcune università di taluni settori scientifici disciplinari per carenza di professori nelle materie ad esse afferenti; a questo si aggiunge poi la difficoltà di reperire un numero sufficiente di docenti, considerato che il 50% minimo di questi devono essere professori universitari di 1° e di 2° o ricercatori.
 
Ed infine la dispersione è anche il frutto della autonoma capacità di determinazione che le singole università hanno nell’attivare corsi differenziati pur nel rispetto degli obblighi previsti per legge.
 
La mancanza di analisi dei dati
Un ulteriore paradosso che nessuno dei tanti che si occupano di professioni sanitarie abbia dedicato del tempo ad esplorare in dettaglio il grado di disomogeneità dei già citati ordinamenti didattici, come se questo fosse un problema senza significato. Da parte mia ho cercato di pervenire  a una prima interpretazione dei dati disponibili.
 
In realtà il tentativo di analizzare i piani didattici delle varie università si è rilevato più complesso del previsto anche a causa dei nomi fantasiosi con cui sono stati chiamati alcuni corsi: filosofia del nursing o filogenesi delle professioni; denominazioni che non rendono immediatamente percepibili i contenuti didattici e che richiedono pertanto un’analisi di dettaglio dei programmi dei singoli docenti per riuscire a comprendere quali siano gli argomenti trattati.
 
Attesa dunque l’impossibilità di valutare l’offerta formativa nel suo complesso, ho scelto come soluzione, piuttosto empirica, quello di analizzare il peso in termini di CFU, di una serie di materie che ho più o meno arbitrariamente, aggregato nelle due aree tematiche delle Humanitas  e della metodologia clinico-infermieristica EBN.
 
L’aggregazione di alcuni dati
L’idea è stata quella di vedere nei cursus studiorum di alcune università significative il grado di penetranza di un modello epistemico-didattico basato sul paradigma bio-psico-sociale rispetto ad un approccio più tradizionale di tipo bio-medico. Ho così aggregato nelle humanitas i crediti formativi relativi alle materie: bioetica e deontologia, pedagogia, psicologia, comunicazione, storia della medicina, antropologia e sociologia; e nella metodologia /EBN le materie di: epidemiologia ed igiene, statistica e informatica, metodologia clinica e metodologia clinica e EBN.
 
Il quadro che è emerso è stato il seguente:
 
Si è dunque passati dai 23 crediti della Università di Parma molto orientata verso un paradigma a valenza bio-psico-sociale ai 15 crediti di Tor Vergata in cui sembra prevalere una impostazione più tradizionale e meno sensibile alle componenti psico- sociologiche della salute.
 
Un ulteriore elemento di dispersione è rappresentato dalla decisione di alcune sedi universitarie di valorizzare nei propri ordinamenti didattici i modelli organizzativi e le sperimentazioni in corso nelle relative regioni. E’ questo il caso dell’università di Pisa dove gli insegnamenti vengono ripartiti secondo il modello di intensità di cura, un modello assistenziale nato e impiantato prevalentemente in Toscana. Nei programmi dunque vengono previste: discipline chirurgiche-infermieristiche nella media intensità di cure (CFU6); discipline medico-infermieristiche nella media intensità di cure (CFU6); terapia intensiva e rianimazione ad alta intensità di cure (CFU6); da segnalare inoltre il peso dato allo studio della legislazione sanitaria (comprensiva di diritto del lavoro, medicina legale e medicina del lavoro a cui vengono attribuiti 6 CFU.
     
Lo stesso dicasi per l’ordinamento didattico dell’Università di Padova dove trova forte rappresentazione la continuità delle cure e i percorsi clinici e la gestione del rischio clinico in chirurgia, in ospedale e nelle strutture residenziali (6CFU) con altrettanta attenzione a prevenzione e management professionale (7 CFU) E’ evidente anche in questo caso la valorizzazione dei modelli di integrazione ospedale territorio tipici del Veneto
 
Cosa succede per le lauree magistrali?
Per quanto riguarda invece le lauree magistrali in infermieristica c’è da registrare una situazione sostanzialmente sovrapponibile a quella delle triennali per la presenza di una simile, anche se meno pronunciata, variabilità dei learning outcome perseguiti dai diversi ordinamenti didattici. L’argomento peraltro è stato affrontato da alcuni studi che ora illustrerò brevemente.
 
In un lavoro del 2006 di Saiani e collaboratori sull’ordinamento didattico del corso di laurea specialistica in scienze infermieristiche e ostetriche di 17 sedi universitarie, è emerso come tra i diversi piani di studio siano presenti orientamenti comuni ma anche sensibili scostamenti. In particolare gli autori hanno potuto rilevare come gli insegnamenti siano composti da ambiti disciplinari aggregati con differenti criteri che si traducono in rilevanti disomogeneità. Da notare poi anche in questo caso come la denominazione degli insegnamenti non segua tassonomie precise ma indulga a un eccesso creatività che di fatto ostacola la possibilità di un’univoca comprensione dei reali contenuti del corso.
 
La stessa disomogeneità caratterizza l’organizzazione del tirocinio e dei laboratori che, nonostante siano parte integrante del curriculum formativo sul territorio nazionale, presentano situazioni molto variegate per quanto riguarda tipologia di attività proposte, contesti operativi e figure incaricate di tutoraggio
 
In un più recente lavoro di Rega e collaboratori, comparso sul numero 2/2015 della rivista online l’infermiere, viene preso in considerazione il profilo del laureato magistrale in scienze infermieristico-ostetrico attraverso l’analisi dei programmi didattici di ben 29 sedi universitarie 
 
Il quesito che il gruppo di lavoro ha esplorato è stato “Quale professionista forma il corso di laurea magistrale in scienze infermieristiche e ostetriche?” Gli autori hanno quindi proceduto a effettuare una mappatura dei regolamenti didattici di ogni singolo ateneo attraverso la lettura degli obiettivi formativi e hanno caratterizzato gli obiettivi formativi qualificanti in 6 domini: manageriale, clinica avanzata, formazione e ricerca, disciplinare e deontologia.
 
In questo modo sono state individuate 6 tipologie di regolamenti didattici a cui sono stati fatti corrispondere 6 differenti profili di laureato magistrale.
In tutti i profili il dominio manageriale e formativo sono stati una costante mentre la diversa presenza degli altri domini e, soprattutto, il loro mix, ha dato origine a specificità che caratterizzano profili peculiari.
 
La risposta conclusiva al quesito di ricerca è stata dunque che il corso di laurea magistrale in scienze infermieristiche e ostetriche forma un professionista con competenze manageriali.
 
Considerazioni conclusive
Mi sembra dunque che, nonostante i limiti dell’analisi da me condotta, alcune evidenze sono emerse con un certo grado di robustezza; le sintetizzo in dieci punti avanzando anche alcune proposte che ovviamente possono essere declinate solo nei titoli ma di cui ho già parlato in precedenti interventi su Quotidiano Sanità.
 
 
1) La presenza di  sei facoltà di medicina nella città di Roma è un’anomalia che dimostra il deficit di programmazione che ha storicamente caratterizzato la sanità della regione Lazio. Paradossalmente un tale eccesso di offerta non si traduce in un vantaggio per l’equilibrio economico dei conti ma in un elemento di ulteriore sofferenza 
2) La dispersione didattica è una costante sia nelle lauree triennali che in quelle magistrali e una inversione di tendenza a carattere perentorio, stante la legislazione attuale, non sembra all’ordine del giorno.
3) Sarebbe utile che nella sede preposta, ovvero sia la Conferenza permanente delle classi di laurea delle professioni sanitarie, venissero definiti dei criteri condivisi per omogeneizzare quanto più possibile i programmi didattici dei singoli atenei.
4) Nessuno dei programmi tiene nel debito conto le “Core-competence” intendendo con tale termine un approccio per preparare i professionisti della salute per la pratica, fondamentalmente orientato alle abilità, considerate come prodotto finale del laureato, e organizzato intorno a competenze derivate da un’analisi dei bisogni della società e del paziente.
5) Nelle lauree triennali il numero di insegnamenti è eccessivo e la frammentazione didattica non facilita l’istaurarsi di un rapporto proficuo tra docente e discente; basta pensare che uno studente del 1° anno, il cui primo semestre è in realtà di tre mesi e mezzo, riceve insegnamenti di breve durata e molto frammentati da un pletora di docenti che superano ampiamente le 20 unità.
6) L’insegnamento teorico è accompagnato da un tirocinio particolarmente intenso che rende difficile una reale assimilazione degli argomenti trattati.
7) Nella logica di una valutazione obiettiva della qualità della formazione ricevuta, il conseguimento del titolo di abilitazione dovrebbe essere successiva a quella della laurea; e questo per avere una migliore valutazione ex post della formazione ricevuta e quindi della “qualità” della sede universitaria.
8)     La laurea magistrale fornisce delle competenze aggiuntive che vanno esclusivamente nel verso del management e che pertanto non aggiungono nulla o poco alla formazione nello specifico ambito assistenziale.
9)     La ri-modulazione delle competenze tra professione medica e professioni sanitarie deve tenere conto dei diversi ambiti disciplinari. Nel lavoro in team la condivisione degli obiettivi non deve significare la confusione dei ruoli che devono restare distinti specie per quanto riguarda la diagnosi e terapia.
10)  Nel lavoro in team gli infermieri possono rappresentare un valore aggiunto nella medicina di iniziativa, nella gestione delle cronicità e nei controlli di follow-up sulla base di protocolli definiti in sede di equipe.
11)  La commistione dei ruoli tra funzioni gestionali e professionali non ha dato i   risultati sperati; alla luce delle crescenti difficoltà in cui versano i bilanci sanitari di gran parte delle regioni italiane, ad eccezione delle poche virtuose, si rende urgente la istituzione di un nuovo percorso di laurea in gestione delle aziende sanitarie con accesso multiplo a titolari di laurea magistrale, a cui affidare la gestione dei dipartimenti e delle altre articolazioni affidatarie di budget. Un ruolo a cui ovviamente potrebbero concorrere a pieno titoli i professionisti delle professioni sanitarie che abbiano conseguito la laurea magistrale.
 
 
Roberto Polillo

© RIPRODUZIONE RISERVATA