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Martedì 05 GENNAIO 2016
La nascita di un bambino malformato è un danno risarcibile?

In una prima sentenza la Corte aveva riconosciuto il danno provocato alla coppia dalla nascita di un bambino down a seguito di omesse informazioni da parte del medico su tutte le indagini prenatali da eseguire. In un'altra sentenza che segue di pochi giorni la prima, invece, la Corte ha avanzato diverse perplessità

La Cassazione civile a sezioni unite - sentenza 22 dicembre 2015, n. 25767 - interviene sull’annoso problema dei danni da “nascita indesiderata”. Ricordiamo che con questa espressione si intende indicare una categoria eterogenea di situazioni accomunate dal fatto che la condotta del medico ha portato alla nascita di un figlio non voluto. In particolare la nascita determinata da un fallito intervento di sterilizzazione, la nascita conseguente a un non riuscito intervento di interruzione della gravidanza e la nascita, come nel caso di specie, di un bambino affetto da malformazioni non diagnosticate (sindrome di down). 
 
Il problema verteva sulla omissione di ulteriori esami che erano necessari in seguito a valori non corretti che imponevano approfondimenti. Dato che non sono disponibili i precedenti gradi di giudizio si suppone la non regolarità dei valori del c.d. “triplo test” e l’omissione di una prescrizione di amniocentesi (o esami similari). In primo e in secondo grado il tribunale di Lucca prima e la Corte di appello di Firenze dopo rigettavano la domanda.

I genitori hanno proposto ricorso per cassazione articolato in due motivi:
a) la violazione dell’onere della prova del grave pericolo per la salute fisica e psichica della donna in capo alla donna stessa e non al medico;
b) la negazione alla figlia minore del risarcimento del danno per avere negato il diritto a un’esistenza sana e dignitosa.
 
La Corte di cassazione, III sezione civile, ravvisa nei precedenti delle stessa Corte un contrasto di giurisprudenza e di conseguenza decide di investire le sezioni unite la questione per dirimere il contrasto stesso.

Per quanto concerne la violazione dell’onere della prova sulla tematica da nascita indesiderata gli orientamenti che si erano consolidati erano due:
1) un primo orientamento che riconosceva il principio di “regolarità causale” tra l’effettuazione dei test genetici – o tendenti a individuare malattie genetiche - e la volontà di interrompere la gravidanza qualora si prospettino gravi malformazioni al feto;
2) un secondo orientamento che non riconosceva tale principio ponendo l’onere della prova a carico della donna di “allegare e dimostrare che, se informata delle malformazioni del concepito, avrebbe interrotto la gravidanza”.
Per il secondo motivo di ricorso il contrasto era relativo alla legittimità del nato a pretendere un risarcimento a carico del medico e della struttura.
 
L’intervento delle sezioni unite
Come è noto la legge sulla interruzione della gravidanza non riconosce, di per sé, il diritto di aborto. La legge distingue una interruzione prima dei novanta giorni con relativa procedura e motivazione e una interruzione dopo i novanta giorni in presenza di presupposti rigidi. Nel suo lungo excursus le sezioni unite della cassazione civile si inoltrano nella disamina della legge 194/1978 e nel suo non riconoscimento del “diritto di aborto” in quanto tale ma diritto di interrompere la gravidanza – nella fattispecie dopo i novanta giorni – “quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna” o “quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”. L’interruzione è possibile solo in presenza di queste precise condizioni, dunque. Deve inoltre essere provata – dalla donna – la volontà, in tali casi, di non portare a termine la gravidanza. Tutta la prima parte della sentenza delle sezioni unite civili si gioca proprio sul tema dell’onere della prova. 
 
Il punto dirimente, in altre parole, risiede nella richiesta degli esami genetici da parte della donna. Se questi, una volta richiesti e nel caso abbiano avuto esito positivo, siano la prova della volontà abortiva della donna o se questa debba essere esplicitamente richiesta dalla donna stessa. Ovvero se alla richiesta degli esami conseguisse – principio di regolarità causale – automaticamente la volontà abortiva in caso di positività degli esami stessi. La cassazione a sezioni unite nega l’automatismo riconoscendo però l’estrema difficoltà di provare la volontà abortiva che verte su uno stato psicologico noto solo alla donna. Ecco allora il ragionamento sposato: bisogna che la donna provi attraverso una serie di circostanze come, tra l’altro, le “pregresse manifestazioni di pensiero” la volontà abortiva in caso di gravi malformazioni del feto.
 
La sentenza della Corte di appello è stata cassata, sul punto, solo in quanto “manchevole nella parte in cui omette di prendere in considerazione la possibilità di una prova presuntiva” desumibile dai fatti. La stessa Corte ha elencato le “molteplici circostanze” che possono dare luogo alla scelta dell’interruzione e che sono tra di loro collegate: la rilevante anomalia del nascituro, l’omessa informazione da parte del medico, il grave pericolo per la salute psicofisica della donna e la scelta abortiva della donna.
 
L’accento però lo ha posto solo sulla volontà della scelta abortiva che non può essere presunta di per sé per la sola richiesta degli esami genetici trascurando la mancata informazione da parte del medico e il conseguente approfondimento degli esami che presentavano dati di allarme. Non si comprende come la donna potesse manifestare la volontà abortiva senza che fosse in possesso degli elementi di conoscenza che potevano spingerla a interrompere la gravidanza. L’unica possibilità era quella di avere manifestato, in astratto, la volontà di abortire in presenza di eventuali gravi malformazioni fetali. Dimostrazione che diventerà impossibile anche nel prossimo giudizio di merito di fronte alla Corte di appello in quanto il fatto è avvenuto nella metà degli anni novanta dello scorso secolo. Anche se fosse più recente tale dimostrazione risulterebbe difficilissima.

Avere sposato la tesi interpretativa che non riconosce il “principio di regolarità causale” e del “consolidato parametro” del “più probabile che no” ha spostato l’onere della prova a carico della donna – per altro in presenza di una carente informazione – che rende di fatto impossibile il diritto all’autodeterminazione, costituzionalmente garantito e riconosciuto – ma solo teoricamente – dalle sezioni unite in questa sentenza.
 
Il secondo punto – ancora più delicato – nega al nato malformato un diritto al risarcimento del danno per l’omessa informazione. Non viene riconosciuta al bambino – oggi, per altro, non più bambino – la legittimazione ad agire per il risarcimento del danno. In linea teorica, ci dice la Corte, il problema della legittimazione ad agire – che tradizionalmente viene riconosciuto solo al momento della nascita (il fatto dannoso si è però verificato prima della nascita con la mancata diagnosi) non è di per se insuperabile giuridicamente.

Quello che è invece non superabile è proprio il concetto di danno, in quanto l’alternativa alla nascita sarebbe stata la non nascita e quindi la distruzione della vita stessa. La Suprema Corte chiude quindi – al momento – l’ampio dibattito sul diritto a non nascere neanche sotto la prospettiva del riconoscimento analogico del diritto di autodeterminazione in capo alla madre per la mancata informazione, in quanto il diritto della madre è controbilanciato dalla tutela della sua salute fisica e psichica e non dalla mancata nascita. La Corte cita anche normative di altri paesi che non riconoscono il diritto al risarcimento se questo non è dovuto a colpa medica. Nel caso di specie, argomenta la Corte, questo non è avvenuto in quanto la malformazione genetica è indipendente dalla condotta del medico (la mancata informazione però si). Fa capolino, inoltre, come quasi sempre in questi casi, lo spettro abusatissimo dell’eugenetica intesa in senso ampio e l’utilizzazione dell’altrettanta espressione delle vite “indegne di essere vissute”.
 
Conclusioni
Le conclusioni a cui perviene la Corte di cassazione civile a sezioni unite non sono condivisibili nel primo caso e, appaiono, e non coraggiose nel secondo caso. Chi scrive è sempre stato convinto, e lo è tuttora, del fatto che la legge 194/78 sia una buona legge e che abbia permesso, sia pure con le sue evidenti contraddizioni, di raggiungere gli scopi per cui era nata. A distanza di molti anni le maggiori criticità che si sono palesate sono due: il ricorso strumentale e generalizzato all’obiezione di coscienza e, oggi, la costruzione normativa compromissoria del diritto di aborto solo in relazione allo stato di salute della donna.

Questa vicenda insegna che una legge nata per l’autodeterminazione rischi di scivolare nel mancato riconoscimento dell’autodeterminazione stessa. Questa sentenza, nella prima parte, con il tecnicismo dell’onere della prova e del mancato riconoscimento del principio di regolarità causale rende estremamente problematico il diritto all’autodeterminazione. Negare cioè il principio secondo cui, la donna che si sottopone a test genetici, abbia l’intenzione di interrompere la gravidanza una volta riscontrati risultati positivi e ponendo a suo carico la manifestazione della volontà abortiva, anche in assenza di informazione, mina alla radice il principio dell’autodeterminazione e, financo, del buon senso comune. Giovanni Paolo II lo aveva ben compreso quando nell’enciclica Evangelium Vitae ebbe modo di le diagnosi prenatali che diventavano l’occasione per “proporre e procurare l’aborto” e ritenendole moralmente lecite solo se “fatte per individuare eventuali cure necessarie al bambino” (come noto inesistenti nel caso degli esami fatti per la sindrome di down). Non è corretto, cioè, negare l’Id quod plerumque accidit (secondo quanto si fa normalmente) quando questo è del tutto evidente.
 
Eppure solo qualche giorno prima dell’intervento delle Sezioni Unite, la III sezione della Cassazione civile aveva ben distinto tra violazione del diritto di autodeterminazione e violazione del diritto alla salute per l’onere della prova e la responsabilità del medico discende direttamente non dal danno ma dall’omissione dell’informazione che lede il principio dell’autodeterminazione.

Per la legittimazione del bambino di chiedere i danni motu proprio il problema diventa invece la costruzione stessa della legge 194/1978. Sulla sfondo, rimane, l’errore medico che ha causato il tutto e che per un motivo – la prova – o l’altro – la non legittimazione del nato a chiedere un risarcimento – risulta a questo punto, pericolosamente giuridicamente irrilevante.

Luca Benci
Giurista 

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