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Sabato 06 FEBBRAIO 2016
Leucemia mieloide cronica: nuovo test rivela quando si può sospendere la terapia

Avere un esame di laboratorio che consenta di valutare con precisione quando è arrivato il momento di sospendere il trattamento perché la malattia è in remissione, non è più un sogno, almeno per quanto riguarda la leucemia mieloide cronica. Il test, messo a punto dai ricercatori dell’Imperial College di Londra, rivela tracce residue di malattia anche dove i test comunemente usati non le ‘vedono’ più. Secondo gli autori il test è già pronto per entrare nei laboratori di analisi. A costi ragionevoli.

L’introduzione in terapia degli inibitori della tirosin chinasi (TKI) ha radicalmente cambiato la prognosi dei pazienti con leucemia mieloide cronica (LMC). In molti pazienti i biomarcatori della malattia (il più importante è il BCR-ABL1), grazie a questi trattamenti, scendono a livelli non rilevabili con i comuni esami di laboratorio; questa fa definire il paziente in ‘remissione molecolare’. Non è possibile tuttavia prevedere se ci sarà una recidiva della malattia, né si dispone di criteri che consentano di capire quando è arrivato il momento di sospendere la terapia.
 
Almeno fino ad oggi. Uno studio appena pubblicato su The Journal of Molecular Diagnostics presenta un nuovo test personalizzato, ultra-sensibile, basato sul DNA che ha consentito di svelare la persistenza della malattia nell’81% dei campioni prelevati da pazienti ritenuti in remissione.
 
“Una volta validata nei trial clinici sull’interruzione della terapia con i TKI – sostiene Jane F. Apperley, Centre for Haematology, Imperial College di Londra - questa tecnica consentirà un approccio più personalizzato alle raccomandazioni di riduzione del dosaggio o addirittura di interruzione del trattamento nei singoli pazienti; questo assicurerà che la terapia venga interrotta solo nei pazienti con le più alte chance di remissione a lungo termine”.
 
Studi precedenti avevano dimostrato che il 60% dei soggetti affetti da leucemia mieloide cronica, nei quali non risultano più dosabili i trascritti di BCR-ABL1, presentano una recidiva della malattia dopo la sospensione del trattamento con TKI.
 
Nello studio appena pubblicato, i ricercatori inglesi hanno confrontato la sensibilità di questo nuovo test, una PCR digitale basata sul DNA (dPCR), con quella di altri tre metodi basati sulla PCR quantitativa utilizzati per misurare la malattia residua nella LMC (quello abitualmente utilizzato per il monitoraggio della malattia residua in questi pazienti normalmente è la RT-qPCR, reverse transcriptase-digital PCR).
 
Sono stati prelevati 36 campioni da 6 pazienti con LMC ritenuti in remissione molecolare, sulla base dei risultati ottenuti con la RT-qPCR. Ripetendo l’analisi, utilizzando la dPCR con preamplificazione, è stata individuata una persistenza di malattia nell’81% dei campioni, contro il 25% individuato dalla RT-dPCR.
“Questo ci fa concludere – spiega la Apperley – che la dPCR per il DNA BCR-ABL1 rappresenta al momento il metodo più sensibile  a disposizione per individuare la malattia residua nei soggetti con LMC e può rivelarsi molto utile nella decisione di sospendere o meno la terapia con TKI”.
 
Questo nuovo test potrebbe dunque influenzare  enormemente la gestione della LMC. In pratica, subito dopo aver fatto diagnosi di LMC, vengono individuati i punti di rottura dei cromosomi per costruire un test specifico per quel pazienti. La risposta del paziente alla terapia viene quindi monitorata utilizzando il test abituale della RT-qPCR, fino all’ottenimento della remissione molecolare. A quel punto i test di monitoraggio routinari verrebbero integrati con la dPCR, per consentire di prendere decisioni più informate in merito al trattamento e migliorare così la gestione del paziente.
 
Secondo gli autori, due sono le aree di miglioramento ottenute da questo test rispetto a quelli disponibili finora. La prima è che la dPCR è un metodo basato sul DNA, che consente di individuare le giunzioni di fusione BCR-ABL1 grazie ad un sequenziamento mirato di prossima generazione. Ciò permette di generare delle ‘sonde’ specifiche per il profilo molecolare di ogni clone leucemico, sebbene numero e sede delle giunzioni di fusione possano variare molto da un paziente all’altro. Il secondo vantaggio di questo nuovo metodo è la maggior sensibilità.
 
“La tecnica che descriviamo – conclude la Apperley – e che ci ha consentito di mappare una giunzione specifica per questa malattia in tutti i pazienti testati, è relativamente semplice, dotata di un buon rapporto costo-efficacia e idonea per un laboratorio che lavori su grandi volumi”.
 
Maria Rita Montebelli

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