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Lunedì 08 FEBBRAIO 2016
Decreto appropriatezza. Nuovo affondo di Slow Medicine: “Grande confusione tra razionamento e appropriatezza”

Sarebbe molto meglio ricomprendere tutte le norme che riguardano il razionamento dei servizi negli appositi elenchi che definiscono i LEA.Ma anche sull’appropriatezza permangono forti perplessità. Siamo convinti che, soprattutto in campo diagnostico, sia davvero difficile stabilire a priori, e con valore di legge, cosa sia utile fare o non fare nelle diverse circostanze che caratterizzano la pratica clinica

In questi giorni è entrato in vigore il contestato decreto “Appropriatezza”. Un provvedimento che durante il suo travagliato iter legislativo tanto ha fatto discutere il mondo politico, i sanitari e i cittadini e sul quale anche Slow Medicine aveva già espresso molte riserve.
 
Ancora una volta il governo, attraverso un provvedimento calato dall’alto e senza il preventivo contributo dei professionisti che sono chiamati ad applicarlo, è riuscito a scontentare tutti.
 
I presidenti di alcune Regioni, prima fra tutte la Toscana, hanno invitato i direttori generali a soprassedere all’applicazione; i sindacati denunciano l’ennesimo trasferimento di un pacchetto di prestazioni sanitarie dal pubblico al privato; i medici, in particolare quelli di medicina generale, ne contestano la farraginosità, le incongruenze e le oggettive difficoltà interpretative e applicative; i cittadini e i pazienti sono convinti di essere stati bersaglio di nuovi pericolosi tagli che minacciano la tutela della salute e i loro diritti. Davvero un bel pasticcio!
 
Per quanto riguarda i contenuti del decreto, le cose non vanno affatto meglio. In primo luogo si fa una gran confusione tra razionamento e appropriatezza. È del tutto evidente che quando si parla di condizioni di erogabilità siamo di fronte a provvedimenti che si propongono di razionare le risorse. Si tratta, infatti, di norme sulla base delle quali si decidono quali sono le prestazioni assicurate dal servizio sanitario nazionale e quali sono le categorie di persone che ne hanno titolo.
 
Per esempio, si è deciso che molte prestazioni odontoiatriche siano a carico del servizio pubblico solo fino a 14 anni; ciò non perché curare i denti dai 15 anni in poi sia inappropriato, ma semplicemente perché il governo ha deciso che i costi di quelle prestazioni ricadano direttamente sul cittadino. Non si tratta quindi di una questione di appropriatezza, e questo va detto in modo chiaro ed esplicito, anche per evitare deleterie confusioni rispetto ad un termine che in medicina ha un significato ben preciso: effettuare la prestazione giusta, in modo giusto, al momento giusto, al paziente giusto.
 
Sarebbe molto meglio, quindi, ricomprendere tutte le norme che riguardano il razionamento dei servizi negli appositi elenchi che definiscono i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), cioè le prestazioni e i servizi garantititi a tutti i cittadini da parte dello Stato e delle Regioni.
 
Anche per quanto riguarda l’appropriatezza clinica permangono forti perplessità. A parte la presenza nel decreto di alcuni bizzarri svarioni, siamo convinti che, soprattutto in campo diagnostico, sia davvero difficile stabilire a priori, e con valore di legge, cosa sia utile fare o non fare nelle diverse circostanze che caratterizzano la pratica clinica. È evidente che a questo scopo il medico si debba avvalere di linee guida, percorsi diagnostici e terapeutici e delle migliori conoscenze scientifiche, ma sulle sue decisioni influiscono molte altre variabili, quali la credibilità del professionista, le richieste, i valori, la fiducia del paziente, i margini d’incertezza dei risultati, l’evoluzione delle conoscenze, il contesto fisico e soprattutto culturale di erogazione delle cure.
 
Tutti questi elementi che contraddistinguono l’atto medico e che si basano, oltre che sulle conoscenze scientifiche, sull’instaurarsi di un’effettiva reciprocità nella relazione di cura, ben difficilmente possono trarre vantaggio da provvedimenti impositivi, di tipo burocratico, validi per tutti.
 
Pur riconoscendo che la medicina è pervasa da prestazioni inappropriate verso cui in qualche modo occorre intervenire, e che in linea di principio alcune indicazioni regolatorie e di controllo sui comportamenti prescrittivi possano essere utili a tutela del paziente, prima
ancora che per ragioni economiche, siamo convinti che a questo fine la via legislativa sia uno strumento poco efficace o addirittura tossico.
 
Slow Medicine, che fin dalla sua fondazione ha affrontato la questione dell’appropriatezza clinica, indica un percorso completamente diverso per ridurre l’eccessivo utilizzo di esami diagnostici e di trattamenti, ben delineato nei suoi diversi progetti: Fare di più non significafare meglio - Choosing Wisely Italy, che è parte di Choosing Wisely International, Scegliamocon cura, e Ospedali e Territori Slow.
 
In questi tre progetti le prestazioni a rischio d’inappropriatezza non sono imposte dall’alto, ma si basano sull’assunzione di responsabilità dei medici e degli altri professionisti sanitari nelle scelte di cura. Al centro dell’interesse permangono la relazione e il dialogo con i pazienti e i cittadini che sono informati sui benefici e i possibili danni di esami e trattamenti, per giungere ad una decisione condivisa.
 
Le 145 pratiche a rischio d’inappropriatezza finora individuate da 29 società scientifiche e associazioni professionali italianenel progetto Fare di più non significa fare meglio-Choosing Wisely Italy, non sono, quindi, da intendere come liste di esclusione bensì comepratiche da utilizzare dopo un’attenta valutazione del professionista, supportata dal dialogocon il paziente.
 
Riteniamo, infatti, che l’appropriatezza clinica si possa migliorare solo se pazienti e cittadini prendono coscienza che esami e trattamenti inappropriati non solo sono uno spreco ma possono rappresentare una minaccia per la loro salute: basti pensare ai danni da radiazioni ionizzanti, agli effetti collaterali dei farmaci, alle complicanze di procedure invasive, ai falsi positivi e alle sovradiagnosi.
 
L’appropriatezza clinica non comprende poi solo il sovra-utilizzo, cioè le pratiche erogate in eccesso, senza un favorevole rapporto tra benefici e rischi, ma anche il sotto-utilizzo, cioè lepratiche che secondo le prove scientifiche apportano benefici, ma che non vengono erogate asufficienza, come ad esempio le cure domiciliari per malati cronici, malati terminali e disabili: la riduzione del sovrautilizzo può permettere un impiego più appropriato delle risorse e unamedicina più equa.
 
Al contrario, la cosiddetta “appropriatezza prescrittiva” secondo regole stabilite da provvedimenti governativi con l’unico obiettivo dichiarato di ridurre i costi, con minaccia di sanzioni per i medici che non le rispettano e per di più difficilmente applicabili, non solo rappresenta un implicito razionamento e un attentato alla professione medica, ma danneggia la relazione medico-paziente e trasmette al cittadino il messaggio che solo grazie ad un pagamento extra potrà garantirsi quelle prestazioni.
 
Il consiglio direttivo di Slow Medicine

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