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Mercoledì 24 FEBBRAIO 2016
Alzheimer. In Italia 600.000 i malati. Per loro tra assistenza e costi indiretti si spendono più di 42 mld di euro. Ricerca Censis-Aima

Il dato nell’ultima ricerca del Censis effettuata in collaborazione con l’Associazione italiana malattia di Alzheimer. Di questi costi, pari a più di 70mila euro a testa, il grosso è per i cosiddetti costi indiretti. L’assistenza sanitaria vera e propria pesa infatti solo per il 27% del totale. E a pagare il conto sono prima di tutto i familiari che assistono i malati, i cosiddetti caregiver. Una cifra pazzesca che potrebbe essere ridotta solo con l’adeguamento e il potenziamento dei servizi pubblici. LA RICERCA

Sono 600mila i malati di Alzheimer in Italia e a causa dell’invecchiamento della popolazione sono destinati ad aumentare. L’Adi (Alzheimer’s Disease International) ha stimato a livello mondiale per il 2015 oltre 9,9 milioni di nuovi casi di demenza all’anno, cioè un nuovo caso ogni 3,2 secondi.
 
Il costo medio annuo per assistere questi pazienti è stato stimato pari a 70.587 euro pro capite, comprensivo dei costi a carico del Servizio sanitario nazionale, di quelli che ricadono direttamente sulle famiglie e dei costi indiretti (gli oneri di assistenza che pesano sui caregiver, i mancati redditi da lavoro dei pazienti, ecc.).
 
Moltiplicandolo per il numero dei malati la cifra fa paura: 42,352 miliardi di euro l’anno, di cui “solo” 11,364 miliardi per le cure sanitarie e assistenziali in senso stretto. Il grosso va per le cosiddette spese indirette, che in questo caso pesano per la quasi totalità sul caregiver, ovvero il familiare e/o i familiari che si prendono cura dei malati.
 
È quanto emerge dalla terza ricerca realizzata dal Censis con l’Aima (Associazione italiana malattia di Alzheimer), con il contributo di Lilly, che ha analizzato l’evoluzione negli ultimi sedici anni della condizione dei malati e delle loro famiglie.
 
La dimensione economica dell’assistenza. Il costo medio annuo per paziente, comprensivo sia dei costi familiari che di quelli a carico del Ssn e della collettività, è di 70.587 euro, di cui il 27% circa (18.941 euro) sono costi diretti e il 73,2% costi indiretti (51.645 euro). Per quanto riguarda  i costi diretti, la quota più significativa è rappresentata dai costi legati all’assistenza informale (60,1%) che è al 100% a carico delle famiglie. Le spese sanitarie legate agli accessi all’Uva e ai ricoveri in strutture ospedaliere (totalmente a carico del Ssn) rappresentano il 5,1% del totale dei costi diretti, mentre le spese per l’accesso ai servizi socio-sanitari costituiscono il 19,1% dei costi diretti e sono articolate con quote più consistenti (70% e oltre) a carico del Ssn per l’assistenza formale, l’Adi, i centri diurni e un carico equamente ripartito tra Ssn e famiglie per i ricoveri in strutture socio-sanitarie e assistenziali come le Rsa.
 
Altre categorie di spesa, quelle per le attività ambulatoriali, come visite, analisi e attrezzature e ausili sanitari rappresentano il 7,7% del totale dei costi diretti e risultano principalmente a carico del Ssn (78,3%); le spese per i farmaci (3,9% del totale dei costi diretti) vanno distinte tra quelle relative a farmaci specifici per Alzheimer, che ricadono principalmente sul Ssn, e quelle per farmaci non specifici la cui spesa appare quasi ripartita tra famiglie e Ssn. Infine, sono stati considerati gli esborsi per le modifiche dell’abitazione, costi sostanzialmente a carico delle famiglie e che rappresentano il 3,1% dei costi diretti.
 
I costi indiretti sono per definizione a carico della collettività e rappresentano la quota più consistente, pari al 73,2%, del totale. Sono costi stimati monetizzando gli oneri di assistenza che pesano sul caregiver, che rappresentano il 97% circa del totale dei costi indiretti, a cui si aggiunge anche la piccola quota rappresentata dai mancati redditi di lavoro dei pazienti.
 
Per effettuare la valutazione dei costi è stata utilizzata la medesima metodologia delle due precedenti indagini e il confronto con i dati rilevati in precedenza ha messo in luce un progressivo incremento dei costi diretti che, considerando l’andamento in valori reali, tra il 2006 e il 2015 risultano aumentati del 13,3% (il confronto tra il 1999 e il 2015 mette in luce un incremento ben più ampio e pari al 91,0%), in particolare risulta più ampia la quota gravante sulle famiglie per l’accesso ai servizi socio-sanitari. Si assiste allo stesso tempo a un lieve aumento (0,2%) dal 2006 al 2015 dei costi indiretti, a fronte di un andamento nel periodo complessivo che mette in luce una riduzione di questa tipologia di costo (-14,0%).
 
Malati e caregiver invecchiano insieme. L’età media dei malati di Alzheimer è di 78,8 anni (era di 77,8 anni nel 2006 e di 73,6 anni nel 1999). Il 72% dei malati è costituito da pensionati (22 punti percentuali in più rispetto al 2006). E sono invecchiati anche i caregiver impegnati nella loro assistenza: hanno mediamente 59,2 anni (avevano 54,8 anni nel 2006 e 53,3 anni nel 1999). Il caregiver dedica al malato di Alzheimer mediamente 4,4 ore al giorno di assistenza diretta e 10,8 ore di sorveglianza.Il 40% dei caregiver, pur essendo in età lavorativa, non lavora e rispetto a dieci anni fa tra loro è triplicata la percentuale dei disoccupati (il 10% nel 2015, il 3,2% nel 2006). Il 59,1% dei caregiver occupati segnala invece cambiamenti nella vita lavorativa, soprattutto le assenze ripetute (37,2%). Le donne occupate indicano più frequentemente di aver richiesto il part-time (26,9%). L’impegno del caregiver determina conseguenze anche sul suo stato di salute, in particolare tra le donne: l’80,3% accusa stanchezza, il 63,2% non dorme a sufficienza, il 45,3% afferma di soffrire di depressione, il 26,1% si ammala spesso.
 
Ad assistere i malati sono soprattutto figli e badanti. Pur essendo sempre i figli dei malati a prevalere tra i caregiver, in particolare per le pazienti femmine (in questo caso i figli sono il 64,2% dei caregiver), negli ultimi anni nell’assistenza al malato sono aumentati i partner (sono passati dal 25,2% del totale del 2006 al 37% del 2015), soprattutto se il malato è maschio. Questo dato spiega anche l’aumento della quota di malati che vivono in casa propria, in particolare se soli con il coniuge (sono il 34,3% nel 2015, erano il 22,9% del 2006) o soli con la badante (aumentati dal 12,7% al 17,7%). Nell’attività di cura del malato, i caregiver possono contare meno di un tempo sul supporto di altri familiari: nel 2015 vi fa affidamento il 48,6%, mentre nel 2006 era il 53,4%. La badante rimane una figura centrale dell’assistenza al malato di Alzheimer: ad essa fa ricorso complessivamente il 38% delle famiglie. La presenza di una badante ha un impatto significativo sulla disponibilità di tempo libero del caregiver. Se complessivamente il 47,8% dei caregiver segnala un aumento del tempo libero legato alla disponibilità di servizi e farmaci per l’Alzheimer, tra chi può contare sul supporto di una badante la percentuale cresce di oltre 20 punti percentuali (68,8%) e di circa 30 punti nel caso in cui il malato usufruisca della badante e di uno o più servizi (77,1%).
 
Più consapevolezza sulla malattia, ma tempi lunghi per la diagnosi. Il 47,7% dei caregiver afferma di aver reagito subito alla comparsa dei primi sintomi della malattia del proprio assistito, interpellando il medico di medicina generale (47,2%), lo specialista pubblico (33,1%) o lo specialista privato (13,6%). Solo il 6,1% si è rivolto immediatamente a una Uva (Unità di valutazione Alzheimer). Tuttavia, la gran parte degli intervistati dichiara di aver ricevuto la diagnosi da un professionista diverso da quello consultato per primo (63,1%). A formulare la diagnosi di Alzheimer è principalmente lo specialista pubblico (65,5%), in particolare un neurologo (nel 35,6% dei casi) o un geriatra (29,9%), e solo per il 13,4% è stato uno specialista privato. Nel tempo si è ridotta la percentuale di pazienti che hanno ricevuto la diagnosi da una Uva (dal 41,1% nel 2006 al 20,6% nel 2015), mentre è aumentata la quota di diagnosticati dallo specialista pubblico (era  il 37,9% nel 2006, è il 65,5% oggi). Il tempo medio per arrivare a una diagnosi resta elevato, pur essendo diminuito da 2,5 anni nel 1999 a 1,8 anni nel 2015.
 
Il ricorso ai farmaci. Il panorama dei trattamenti farmacologici disponibili per i malati di Alzheimer ha subito nell’arco di tempo intercorso tra le tre indagini notevoli trasformazioni, con il passaggio dalla non disponibilità gratuita dei farmaci specifici appena immessi in commercio, gli inibitori dell’acetilcolinesterasi (rivastigmina, donepezil e galantamina), indicati per i malati con uno stadio non avanzato della patologia, alla loro rimborsabilità secondo quanto previsto in prima istanza dal Progetto Cronos. La somministrazione di tali farmaci, sulla base della Nota 85 dell’AIFA, era gratuita nel 2006 e nel 2009 la gratuità è stata estesa anche alla memantina, farmaco indicato per gli stadi più gravi della patologia. Nonostante la gratuità dei farmaci specifici, questa indagine ha messo in luce una lieve riduzione della percentuale di malati che fanno ricorso a tali farmaci (passando dal 52,0% del 1999 al 59,9% del 2006 fino al 56,1% del 2015). Viceversa, si presenta in aumento la porzione di malati di Alzheimer che utilizza farmaci per disturbi del comportamento (69,8%), rispetto all’indagine precedente (62,8%), e si tratta più frequentemente di farmaci volti al controllo di sintomi come l’agitazione, le allucinazioni e i deliri (35,8%) e secondariamente di farmaci per il sonno (28,3%) o per stati di depressione (22,5%) o ansia e agitazione (19,5%). Si presenta invece minima la percentuale di pazienti che fa uso di farmaci non specifici per Alzheimer (4,5%), cui si fa ricorso per migliorare la memoria o la circolazione cerebrale, farmaci che 2006 erano assunti dal 20,7% dei rispondenti.
 
Un’assistenza sempre più informale e privata. Diminuisce di 10 punti percentuali rispetto al 2006 il numero dei pazienti seguiti da una Uva o da un centro pubblico (56,6%). Quando la patologia è più grave il dato è ancora più basso (46%). Si abbassa leggermente anche la percentuale di pazienti che accedono ai farmaci specifici per l’Alzheimer: dal 59,9% al 56,1%. Ed è diminuito il ricorso a tutti i servizi per l’assistenza e la cura dei malati di Alzheimer: centri diurni (dal 24,9% al 12,5% dei malati), ricoveri in ospedale o in strutture riabilitative e assistenziali (dal 20,9% al 16,6%), assistenza domiciliare integrata e socio-assistenziale (dal 18,5% all’attuale 11,2%). Ampio è invece il ricorso all’assistenza informale privata: i malati che possono contare su una badante sono il 38%. Alla badante si fa ricorso principalmente utilizzando il denaro del malato (58,1%). Ma rispetto al passato emerge il peso inferiore delle risorse del malato (nel 2006 rappresentavano l’82,3% delle risorse destinate alle badanti), che appaiono bilanciate da un più ampio ricorso all’indennità di accompagnamento e al denaro dei figli o del coniuge.
 
“I tre studi realizzati da Censis e Aima negli ultimi sedici anni evidenziano come stia progressivamente cambiando il mondo dei malati di Alzheimer e delle loro famiglie”, ha detto Ketty Vaccaro, responsabile dell’Area Welfare e Salute del Censis. “È un mondo che invecchia e cresce l’impatto della malattia in termini di isolamento sociale. La famiglia è ancora il fulcro dell’assistenza, ma può contare su una disponibilità di servizi che nel tempo si è ulteriormente ristretta, mentre sono ancora presenti le profonde differenziazioni territoriali dell’offerta”, ha concluso Vaccaro.
 
“Oggi l’obiettivo di una cura efficace per i malati di Alzheimer sembra essere più vicino, ma è importante che, oltre al frenetico lavoro degli scienziati, anche i sistemi sanitari e la società in generale riflettano su quale sia un possibile modello di gestione della patologia e delle sue ricadute socio-sanitarie – ha detto Eric Baclet, Presidente e Ad di Lilly Itali – siamo certi che, di fronte ai dati epidemiologici e all’impatto socio-economico di questa patologia, solo attuando uno sforzo sinergico tra tutti gli attori potremo trovare una strategia di azioni sostenibili, volte a migliorare la qualità di vita dei pazienti e dei loro caregiver: dalla prevenzione alla diagnosi certa, dai trattamenti farmacologi al percorso assistenziale adeguato ai bisogni”.
 
Stefano A. Inglese

 

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