quotidianosanità.it

stampa | chiudi


Venerdì 26 FEBBRAIO 2016
È il momento dei “lineaguidari

Non vi è dubbio che soprattutto grazie al provvedimento sulla responsabilità professionale e al Dm sulla appropriatezza, le linee guida sono venute alla ribalta e con esse i lineaguidari cioè tutti i soggetti e gli interessi che legittimamente ad esse si riferiscono. Ma chi sono, e soprattutto, come la pensano i lineaguidari?

Il primo principio di Catalano: meglio fare un accordo buono che uno cattivo
Un buon accordo sull’appropriatezza tra Fnomceo sindacati  e Ministero necessiterebbe che prima ci si accordasse  su una definizione condivisa di appropriatezza  da tradurre pragmaticamente in un protocollo applicativo.
 
In un articolo precedente ho riferito di ben 6 concezioni diverse di appropriatezza (Qs 5 ,maggio 2015). Quale delle sei? E se tutte e 6 fossero per qualche motivo inadeguate quale altra definizione è possibile?
 
Oggi il confronto sul Dm rischia di avvenire sulla base di una  concezione arretrata  di appropriatezza con delle vistose contraddizioni:
· nei confronti dell’autonomia professionale del medico,
· nei confronti del malato che al tavolo di confronto resta  senza rappresentanza.
 
Per  capire  una idea diversa di appropriatezza  che  metta insieme  in modo non contraddittorio  metodo, regola ,autonomia e complessità   e per capire come tradurla nella pratica  vi invito caldamente a leggervi il capitolo “medicina amministrata” contenuto nell’eBookLa questione medica .
Fidatevi non sarà una perdita di tempo.
 
In esso troverete  soprattutto un tentativo, (non so se riuscito o meno), di volare un po’ più alto del senso comune ben sintetizzato dal Dm ,alla ricerca di uno spazio concettuale più adatto a trovare un accordo soddisfacente per tutti.
 
Gli obiettivi di fondo del Dm sono condivisibili ma non il modo come si intende raggiungerli. L’accordo quindi  va trovato ma chi ci obbliga a farne per forza uno brutto?
Il brutto accordo per me è quello che mette il proceduralismo delle linee guida al servizio dell’economicismo incurante delle conseguenze sull’effettivo soddisfacimento delle necessità cliniche del malato.
Il buon accordo al contrario  è quello che trova il modo di garantire compossibilità tra clinica economia e etica.
 
Secondo principio di Catalano: è meglio un medico bravo  che un medico somaro
Nel mentre si cerca di fare un accordo  sulla  appropriatezza  con il rischio come ho già detto di fare un brutto accordo  non ci siamo  resi conto che oltreoceano proprio sul proceduralismo  quindi sulle linee guida  negli ultimi anni si è aperta una ridiscussione che è arrivata a teorizzare con Obama una nuova alleanza “dal basso” tra medici e malati  definita Choosing Wiseley   e subito fatta propria da Slow medicine per decidere ciò che convenzionalmente da noi si definisce ma “dall’alto”  “appropriato.”
 
Lo dico ancora alla Fnomceo  ma anche ai sindacati per  invitarli, scusandomi per l’ insistenza, ad aggiornare le loro sciatte definizioni  di appropriatezza e magari a prendere l’iniziativa senza essere costretti ad inseguire decreti e umiliazioni.
 
La  ridiscussione  in USA  è stata promossadall’American Board of Internal Medicine Foundation (ABIM) in collaborazione con Consumer Reports e 9 autorevoli società scientifiche americane. Cioè  sono i medici americani che su un imput politico grosso come una casa  mettendosi d’accordo con i cittadini hanno preso l’iniziativa non altri.
 
Quale input  politico? Choosing Wiseley  , concretizzata dalla ABIM  si ricollega alla riforma sanitaria di Obama che fa dipendere l’estensione delle tutele sanitarie dalla revisione dei costi della sanità. Cioè l’idea di ripensare il proceduralismo è dentro un progetto di riforma non dentro un sistema invariante a definanziamento garantito. Tutto si è  poggiato  su un accordo politico in base al quale ai  medici americani  è  stata garantita invarianza di proventi  per avere  in cambio il loro appoggio . Mentre in Italia   i medici  bevono l’appropriatezza che passa la politica del definanziamento   per poi arrabbiarsi  se in nome di quella appropriatezza e di quel definanziamento  il governo mette loro delle multe consegnandoli nelle mani dei  lineaguidari
 
I lineaguidari (Qs 15 febbraio 2016).
Non vi è dubbio che soprattutto grazie al provvedimento sulla responsabilità professionale e al Dm sulla appropriatezza, le linee guida sono venute alla ribalta e con esse i lineaguidari  cioè  tutti gli interessi che legittimamente  ad esse si riferiscono.
Ma chi sono i lineaguidari? Sono coloro che credono che per fare della buona medicina ma soprattutto per risparmiare soldi  ci vogliono le linee guida, che producono linee guida e, che se non le producono,  le insegnano e le applicano.
 
I principali lineaguidari sono le società scientifiche, Gimbe, Slow Medicine e altre fondazioni. Ciascuno di loro,  pur con delle nuance,  sono tutti fondamentalmente dei proceduralisti.
 
Slow Medicine ha condensato la sua strategia in un antinomia tra quantità e qualità (più non è meglio) difficile da comprendere perché mancando  il parametro definitore cioè la definizione di medicina alla quale ci si riferisce, è difficile dire  cosa sia peggio e dire cosa  sia meglio, per di più si rischia l’equivoco economicistico  cioè di far credere che ciò che è “meno” è “meglio”. Conoscendo l’idealità di Slow Medicine  suggerisco solo, di fare più attenzione agli slogan.
 
Gimbe invece fonda le sue argomentazioni sul tema dell’autorevolezza scientifica, del rigore metodologico, del valore della trasparenza. Gimbe, in evidente concorrenza con le società scientifiche,  sostiene che coloro che non sono  “autorevoli”  scientificamente e poco trasparenti  producono linee guida scadenti e inaffidabili. Come dare torto a questo assunto?
 
Gimbe quindi non dice cose insensate ma dice anche che essa da sola  è:
· autorevole,
· metodologicamente rigorosa,
· unica al di sopra degli interessi (a parte i suoi naturalmente).
 
Che dire? Non voglio entrare nelle logiche competitive tra lineaguidari e meno che mai nelle loro legittime ambizioni ma limitarmi ad esaminare il loro pensiero e il loro modo di pensare.
 
Il pensiero di Gimbe, ma anche di tutti gli altri lineaguidari,  per uno come me che all’università si occupa di logica e di epistemologia  della medicina, è quella di una concezione proceduralista rigorista  nella quale le evidenze scientifiche  e il metodo hanno un valore dogmatico e questo secondo la mia idea di medicina (il famoso parametro mancante) rispetto alla complessità clinica non va bene.
 
L’idea che, di Gimbe soprattutto e che in questo articolo prendiamo come una sorta di case study,  ha della regola e del metodo per me non risolve anzi esaspera  il vero problema  che il negoziato sulla appropriatezza dovrà risolvere che  è quello di trovare il modo di far coesistere:
· le “verità di ragione” del proceduralismo, quindi le famose evidenze scientifiche,
· le “verità di fatto” della clinica quindi le conoscenze accidentali, contingenti empiriche e singolari.
 
Le verità:
· delle linee guida sono  convenzionali ex ante  quindi decise non  rispetto al caso clinico reale ma  a tavolino,
· della clinica sono  fattuali ad oculum e spesso smentiscono tanto l’evidenza che la regola per non parlare del rigore metodologico.
 
L’unico modo per mediare le verità di ragione e quelle di fatto è:
· pensare un medico  in grado di usare la sua autonomia con  responsabilità misurandola con i risultati che raggiunge (autore/ propriety),
· scommettere sulle sue capacità di servirsi tanto delle verità convenzionali che di quelle empiriche agendo in contesti e contingenze,
· definire in cosa consiste una scelta giusta e conveniente rispetto alla quale ricorrere alle linee guida  come ausili ma senza riconoscere ad esse  un ruolo vincolante.
 
Tutto questo vuol dire che:
· le linee guida debbono essere rispetto all’autonomia professionale  uno strumento antidogmatico,
· si deve decidere se è il medico che dipende dalle linee guida o se sono le linee guida che dipendono dal medico.
 
Nell’atteggiamento dei lineaguidari vi è implicitamente:
· un atteggiamento fortemente scettico nei confronti delle capacità cliniche del medico,
· una svalutazione del valore dell’autonomia  anzi  l’autonomia è vista come problema.
 
Con la conseguenza di assumere il medico:
· a priori come una professione da mettere sotto tutela con un metodo ed una regola  eteronoma,
· rispetto al metodo  come un mero esecutore  quindi una trivial machine.
 
Autorevolezza o autoritarismo?
La caratteristica del pensiero di Gimbe rispetto agli altri lineaguidari è  enfatizzare  la questione di come fare le linee guida ancor prima di chi le fa èperché il suo terreno elettivo è il rigore metodologico quello che in altri saggi ho definito una forma di scientismo ovvero una medicina che in barba  alla complessità  viene ridotta a metodo e nulla più.
 
Ma  scientismo quale rigorismo metodologico altro non è che una idea autoritaria  di scienza alla quale sottomettere tanto il medico che il malato, la stessa idea che molti lineaguidari  indicano  blandamente con il termine “autorevolezza”:
· si parte con la gestione degli atti clinici, quindi del medico,
· si arriva alla gestione dei costi della cura, quindi del malato.
 
Per la logica quando Gimbe  propone di passare da “chi fa” le linee guida a “come” le linee guida sono fatte, non fa null’altro che spostare l’attenzione da una fallacia ad un’altra, cioè dall’argumentum ad homini al così detto argumentum ad verecundiam :
· il primo  per i logici è una fallacia perché  fa dipendere la verità clinica(appropriatezza) da “chi” la dice (le società scientifiche ad esempio, o il grande luminare, o il premio Nobel, o il prestigioso istituto di ricerca),
· il secondo per i logici pure è una fallacia perché  fa dipendere la verità clinica (l’appropriatezza)  da “come” quindi dagli argomenti dell’autorevolezza del metodo, o dai criteri della meta-analisi, o dal grado di scientificità, ecc.).
 
Ma rispetto alla verità complessa della clinica entrambi, per la logica, sono  verità fallaci, cioè entrambi davanti al “caso” complesso hanno una significativa probabilità  di implausibilità. Cioè la complessità in clinica almeno secondo la mia idea di medicina (il parametro mancante) è tale da smentire anche la verità del premio Nobel o del metodo più rigoroso.
 
Faccio appena notare che spesso  il vero ragionamento che fanno soprattutto i lineaguidari in competizione  con le società scientifiche    è autopromozionale: si  tenta di spostare l’attenzione dalle società scientifiche  al metodo e alla trasparenza ma per proporsi attraverso il metodo e la trasparenza quale autorità scientifica:
· se chi rispetta il metodo è il lineaguidaro migliore,
· allora il lineaguidaro rigorista  è il migliore.
 
Ma l’espressione “il lineaguidaro rigorista  è il migliore” quindi le sue linee guida sono migliori delle altre ,è a sua volta  un argomentum ad homini quindi a sua volta fallace.
 
Terzo principio di Catalano: è meglio la verità che la menzogna
Secondo i lineaguidari,  nessuno escluso, il clinico dovrebbe inchinarsi acriticamente  difronte a delle linea guida  che per come sono fatte soprattutto perché rigorosamente rispettose di un metodo  propendono per esprimere comunque significativi gradi di implausibilità. Oltretutto indifferenti al rischio di ridurre  i medici  ad  un parco di  trivial machine  e i malati ad uno stoccaggio di organi  malati come i magazzini di Ikea a comparti numerati.
 
Il discorso sul metodo, invocato in particolare da Gimbe ma non solo,  è quindi un discorso complesso e per certi versi paradossale.  Oggi dopo un dibattito epistemologico sulla scienza  che è durato per tutto il 900  il discorso sul metodo  è andato ben oltre la visione proceduralista del positivismo cara a tutti i lineaguidari  e ben oltre il verificazionismo  falsificazionista di Popper.
 
Oggi  le verità comprese quelle che noi definiamo  “appropriatezza”  pur senza disdegnare il supporto metodologico si stanno orientando verso soluzioni pragmatiste, contingentiste  e ragionevolmente  relativiste.
 
Il postulato sul quale i filosofi della scienza sono tutti d’accordo  è il seguente: la verità scientifica anche in medicina   cioè ciò  che agli occhi di un medico rispetto ad un malato è scientificamente vero, giusto ,appropriato o adeguato...  dipende da:
· come si conosce un malato,
· da chi conosce questo malato,
· dal contesto in cui si conosce.
 
Le conseguenze pratiche di questo postulato  limitandoci al “chi conosce” sono presto dette:
· un conto è curare un malato con le linee guida quindi con un medico amministrato anche se con tanto di bollino,
· un conto è curarlo con un medico ippocratico che si serve anche   “a suo giudizio”  di linee guida,
· un conto è curarlo con  un medico  “autore” che  garantisce  propriety e compossibilità.
 
A partire da questo postulato (come, chi, dove) si tratta di ricollocare il discorso dell’appropriatezza  oltre gli ambiti angusti del proceduralismo  e misurarsi con una nuova sfida epistemologica  che è quella, a fronte della complessità del “caso” di   chiamare in causa   più criteri di verità (ottimalità epistemica, ragionevolezza, buon senso, esperienza, evidenza, contingenza, risorse, metodo, ecc.).Mi rendo conto che ciò facendo saltano i sogni di Gimbe e dei lineaguidari ,ma per me il vero conflitto di interesse resta quello tra linea guida e malato cioè tra “come curare” e “necessità di cure”. Per cui non posso farci niente.
 
Ma se per curare bene  abbiamo bisogno di più criteri di verità, il problema che si pone  non sono le linee guida ma chi pensa il malato chi coordina e chi decide. Cioè chi dice l’ultima parola.
 
Quarto principio di Catalano: meglio un medico appropriato  che un medico inappropriato
L’unico che può coordinare le tante verità  che fanno la complessità del malato non  è il lineaguidaro  ma il medico che per come è adesso, lo dico tanto alla Fnomceo che al sindacato, non è attrezzato (non è propriety), perché è stato   formato  ad un solo tipo di verità quella clinica per l’appunto e per di più in un modo epistemologicamente  vecchio.
 
Già 16  anni fa con la “medicina della scelta” ho detto come la pensavo: tra togliere al medico la facoltà di scegliere perché no propriety e rimandare a scuola il medico per insegnargli a scegliere meglio io preferisco la seconda. Oggi come malato se io potessi scegliere  tra un medico amministrato e un medico ippocratico  sceglierei  un medico neo-ippocratico e in nessun  caso il medico con il bollino. Cioè sceglierei di scegliere chi è capace nel mio interesse in un contesto complesso di  scegliere al meglio e che io testardamente definisco “autore”. I Iineaguidari  ,cioè quelli tutto metodo e procedure, sono diametralmente all’opposto di questo ragionamento: sono loro che scelgono ciò che il medico  cioè le  trivial machine deve non scegliere.
 
Questo è il punto di differenza tra me e i lineaguidari  a parte avere evidentemente  idee completamente diverse di medicina scientifica.  Per i lineaguidari  l’unico vero autore è  il metodo per me no.
 
Quinto ed ultimo  principio di Catalano: è meglio scegliere anzichè essere obbligati
In conclusione e tornando  all’accordo da fare sull’appropriatezza: il terreno  teorico sul quale costruirlo  è quello della cooperazione tra il convenzionalismo delle procedure e il pragmatismo delle pratiche partendo da un presupposto che i filosofi definirebbero  “proeretico” (eretico è “colui che sceglie”):
· chi sceglie ciò che è meglio per un malato è il medico non la linea guida,
· se il medico non sa scegliere lo si rimanda a scuola,
· se sceglie male in modo ingiustificato  lo si sanziona anche duramente  se sceglie bene lo si premia.
 
Sulla base di questi presupposti  personalmente un accordo con il ministero  lo farei ma in nessun caso avallerei  una politica  proceduralista di stampo autoritario che si basa  sulla amministrazione della scelta cinica.
 
Ivan Cavicchi

© RIPRODUZIONE RISERVATA