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Giovedì 14 APRILE 2016
EASL Barcellona. Presentato studio italiano su epatite C e “superfarmaci”

Riflettori accesi su eradicazione dell’epatite C, accesso alle cure, sostenibilità dei farmaci e nuove prospettive terapeutiche per l’epatite B. Esperti da tutto il mondo ne discutono al Congresso internazionale sul fegato dell’European Association for the Study of the Liver, in corso nella città spagnola.

Eradicazione dell’epatite C, ma anche accesso alle cure, sostenibilità dei farmaci – in commercio e in arrivo – e nuove prospettive terapeutiche per l’epatite B. Sono questi gli argomenti al centro del Congresso internazionale sul fegato dell’EASL (European Association for the Study of the Liver), in corso a Barcellona fino al 17 aprile.
 
Epatite C e “superfarmaci”. Uno studio italiano
Secondo gli esperti riuniti in Catalogna, le persone affette da epatite C cronica sono tra i 130 e i 150 milioni in tutto il mondo. Si stima che siano 15 milioni quelle che vivono con il virus HCV nella regione europea dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), pari al 2% della popolazione adulta. Esistono sei varianti virali dell’HCV e a livello globale il genotipo 1 è quello più diffuso: interessa circa metà delle persone colpite dall’infezione. Ogni anno muoiono tra le 300 mila e le 500 mila persone per malattie legate all’epatite C, oltre 10 mila solo in Italia. Dalla fine del 2014 sono disponibili anche nel nostro Paese i nuovi farmaci antivirali diretti (DAAs), in grado di guarire dall’infezione in oltre il 90% dei casi e con un trattamento medio di 8-12 settimane.
 
Proprio i nuovi ‘super-farmaci’ sono al centro di due lavori condotti in modo indipendente, uno italiano e uno spagnolo, che hanno registrato un elevato numero di ricadute in pazienti che avevano vinto la battaglia contro il carcinoma epatocellulare (HCC), la forma di tumore al fegato più diffusa, e che sono stati successivamente trattati con DAAs per eliminare il virus.
 
La prima ricerca, uno studio retrospettivo di coorte condotto dal Dipartimento di scienze mediche e chirurgiche (DIMEC) dell’Università di Bologna i cui risultati sono stati presentati all’EASL, ha analizzato le cartelle cliniche di 344 pazienti con cirrosi epatica HCV correlata trattati con i nuovi antivirali per l’epatite C. La maggioranza delle persone coinvolte non aveva una storia di tumore al fegato, mentre 59 pazienti avevano avuto HCC ed erano stati sottoposti con successo a un trattamento (chirurgico, di radioablazione o di altro tipo) per liberarli dalla neoplasia. Al momento della terapia antivirale, quindi, queste persone erano disease free.
 
“Il risultato dei DAAs è stato ottimale: il virus è stato eliminato in quasi il 90% di questi pazienti cirrotici. – commenta Stefano Brillanti, tra gli autori del lavoro – Il dato che ci ha un po’ spiazzato è che nei 59 pazienti che avevano avuto una storia pregressa di tumore al fegato, ben il 29% cioè 17 persone hanno sviluppato un nuovo cancro epatico nel breve lasso di tempo di 6 mesi dalla fine del trattamento antivirale”, indipendentemente dal genotipo e dalla combinazione di DAAs utilizzata. Nonostante i cirrotici siano una categoria a rischio di sviluppare un cancro epatico, nella stragrande maggioranza dei casi senza una storia pregressa di HCC prima del trattamento antivirale l’incidenza, cioè la comparsa di nuovi tumori, è stata di circa il 3%, un risultato atteso. Al momento il gruppo bolognese non ha “spiegazioni definitive” sui risultati, che sono stati confermati in modo indipendente anche da un gruppo spagnolo. “Nei pazienti che hanno avuto HCC da cirrosi epatica legata al virus HCV e che sono stati trattati per rimuovere il tumore, è possibile che abbattere rapidamente l’infiammazione dell’organo da un lato abbia un effetto favorevole in termini di funzionalità, ma possa paradossalmente indebolire le difese immunitarie nel fegato che potevano tenere sotto controllo le piccole cellule neoplastiche che già nate – spiega Brillanti – Queste si trovano improvvisamente senza ‘secondini’ intorno che le tengono a bada ed esplodono”.

Si spiegherebbe così l’elevato numero di casi che avvengono contemporaneamente in un breve lasso di tempo. Infatti, “l’incidenza in chi ha avuto HCC ma non è stato successivamente trattato con antivirali va dal 20% al 30% a tre anni”, ricorda lo specialista. In questo senso, “il 29% dello studio non è sorprendente, il problema è capire perché i noduli si presentano tutti nello stesso momento, in tre mesi. Questo avviene anche in pazienti seguiti per molto tempo dopo l’intervento e che non presentavano alcuna evidenza di nuovi tumori” prima del trattamento con DAAs.

“Non significa che la terapia antivirale abbia qualche rapporto con il cancro, non abbiamo trovato nessun rapporto tra il tipo di trattamento fatto e lo sviluppo del tumore”, precisa l’esperto, che invita a controllare maggiormente il paziente nei 3-12 mesi successivi alla terapia antivirale, perché se ha avuto un tumore epatico in passato rischia di poterne avere un altro nel fegato.

Le conferme dello studio spagnolo
Lo studio spagnolo, pubblicato sul ‘Journal of Hepatology’ e condotto dal Barcelona Clinic Liver Cancer (BCLC) Group dell’Hospital Clinic Barcelona, ha fornito risultati molto simili, seppur su un campione più ristretto: su 58 pazienti con una storia di HCC, 16 (il 27,6%) ha avuto una ricaduta. Il follow-up medio è stato di 5,7 mesi. In entrambi i lavori, evidenziano gli stessi autori, mancano i dati su un periodo di tempo più lungo.

“È importante che gli epatologi continuino a soppesare rischi e benefici dei trattamenti antivirali per ciascun paziente, visto che questi farmaci sono ancora relativamente nuovi – commenta Massimo Colombo, professore di Gastroenterologia all’Università di Milano ed ex direttore del ‘Journal of Hepatology’ – Allo stesso tempo, non vediamo l’ora di avere più dati per studiare il meccanismo del risveglio delle metastasi e il sistema immunitario, in modo da poter personalizzare il trattamento sul paziente”. Sulla stessa lunghezza d’onda anche Laurent Castera, segretario generale di EASL, per il quale “questi risultati meritano ulteriori ricerche per dare loro un significato clinico.

 
Michela Perrone

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