quotidianosanità.it

stampa | chiudi


Lunedì 02 MAGGIO 2016
Quanto è preparato il medico di famiglia ad accogliere il portato emozionale dei propri pazienti?

Vi è ragione di ritenere che il medico sia scarsamente preparato a gestire condizioni ad elevato livello emozionale e riuscire a convertire ogni situazione ad una relazione di alleanza terapeutica. La formazione dei medici deve fornire opportune soft skills che siano di adeguato supporto alla complessità della relazione terapeutica con il paziente.

Le attribuzioni di titoli al medico di medicina generale (MMG) sono diverse e vanno dal riduttivo “medico generico” al meno comprensibile “medico di base”, a quello rassicurante di “medico di fiducia” o al più aulico “medico di famiglia”.
 
Sebbene la Medicina Generale sia oggi sempre più equiparabile ad una specializzazione, il temine “medico di famiglia” rimane una definizione comuque appropriata per il professionista della salute che più di chiunque altro entra a pieno titolo in relazione con l’ambiente familiare dei propri pazienti-assistiti, al contrario dello specialista che invece rimane in linea di massima al di fuori o ai margini di tale contesto relazionale.
E’ in questa ottica che i pazienti possono “raccontarsi”, esibendo parti della loro storia o della esperienza di vita al proprio medico in una concreta relazione affettiva. Tale relazione può talvolta configurarsi come una emanazione collaterale delle relazioni familiari, per cui il medico assume il ruolo di probo viro a cui sottomettere confidenze, ansie e tensioni relazionali.
Ma quanto è preparato il medico ad accogliere il portato emozionale di tali problematiche?
 
La percezione del medico come “di famiglia” non riguarda però l’universo dei pazienti. Anzi, il medico di medicina generale sarebbe percepito meno “di famiglia” rispetto a cinquant’anni fa. Tra il tecnicismo evidence based e medicina difensiva da una parte e l’atteggiamento utilitaristico del servizio dovuto al cittadino-paziente, le modalità di relazione tra medico e paziente si sono modificate nel tempo a discapito della relazione affettiva. Di conseguenza, la considerazione del proprio medico da parte degli assistiti rientra in un mosaico di percezioni che si può provare a riassumere in questo modo, in ordine di intensità di relazione emozionale (da 1 a 5):
 
Il medico “servitore”
E’ quello che si sceglie il più vicino possibile a casa propria per adempiere a tutti gli atti medici (prescrizioni e certificati), solitamente prescritti da specialisti a cui va il maggiore credito.
 
Il medico “bravo”
La ricerca di questo professionista avviene per informazione diretta ad altri pazienti ma sempre più viene condotta in rete, digitando il nome su un motore di ricerca.
 
Il medico “curante”
Lo si sceglie per sottoporgli i propri problemi di salute, affidandoli alle sue cure, ascoltandone i consigli e sottoponendo alla sua visura tutte le prescrizioni specialistiche eventualmente eseguite.
 
Il medico “amico”
Rappresenta una emanazione della propria vita di relazione familiare ed extrafamiliare, un luogo di deposito delle proprie confidenze non strettamente legate ai problemi di salute.
 
Il medico “parafulmine”
Per certi versi una valvola di scarico a tensioni spesso insanabili della cerchia relazionale privata. L’incontro col medico è un’occasione per esprimere forti emozioni, tristezze, paure e rabbia. Talvolta anche gioia, ad evidenziare il “grazie di esistere” riferito alla persona del medico piuttosto che alla relazione terapeutica.
 
Ovviamente non si tratta di condizioni a compartimenti distaccati, ma di atteggiamenti che possono fluttuare e che possono a tratti gravare in prevalenza su uno o più degli aspetti considerati, anche in base al fluttuare delle proprie emozioni o stati del benessere psicofisico.
 
Vi è ragione di ritenere che il medico sia scarsamente preparato a gestire condizioni ad elevato livello emozionale e riuscire a convertire ogni situazione ad una relazione di alleanza terapeutica. D’altro canto ogni tentativo di distacco del medico dalla relazione affettiva può essere percepita come diniego o fuga dal ruolo che lo stesso paziente gli ha attribuito.
 
Tale condizione può divenire penalizzante per il professionista che può incorrere nel rischio di essere sottoposto a giudizio insindacabile del paziente, che ovviamente non tiene conto della reputazione sociale e della formazione tecnico scientifica del professionista. Il giudizio sarà per forza a senso unico e può esprimersi in una condanna senza appello e in un formale atto di ricusazione del medico. Ma può anche esprimersi con atteggiamenti aggressivi e svalutativi che costringe a volte il medico, ormai incapace a gestire una relazione terapeuticamente efficace, ad agire ricusando il paziente o l’intera famiglia quando gli elementi disfunzionali del contesto familiare sono tali da essere facilmente contaminati nel loro interno con atteggiamenti e giudizi negativi che creano coesioni e coalizioni nei confronti del medico, fino a percepirlo come “responsabile” del malessere familiare, per averlo in qualche modo peggiorato con il suo modo di essere, o con dimenticanze, distrazioni, errori, indiscutibilmente ritenuti gravi, se non addirittura lesivi. Di fatto la formazione dei medici deve fornire opportune soft skills che siano di adeguato supporto alla complessità della relazione terapeutica con il paziente.
 
Giacomo Mangiaracina
Presidente Agenzia nazionale per la prevenzione

© RIPRODUZIONE RISERVATA