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Mercoledì 25 MAGGIO 2016
Tumore mammella: scoperta la ‘chiave’ molecolare che consente alle cellule tumorali di dare metastasi ossee

Sarebbe la E-selectina, una molecola presente in alcuni vasi del midollo osseo, a permettere alle cellule di cancro della mammella di entrare nelle ossa e metastatizzare. Una scoperta decisiva per pianificare strategie contro le metastasi ossee. Al momento in corso trial clinici nell’uomo , mentre sono ancora nella fase di sperimentazione animale gli studi sul plerixafor, un farmaco in grado di ‘stanare’ le cellule tumorali dalle ossa e riversarle in circolo, dove possono essere attaccate dal sistema immunitario e dalla chemioterapia

La guerra contro il tumore è fatta di tante piccole battaglie, ognuna da studiare con attenzione a tavolino. Nel caso del cancro della mammella ad esempio una di queste battaglie è rappresentata dalla prevenzione delle metastasi ossee, un evento che si può produrre anche nelle primissime fasi del tumore e che può dare segno di sé anche a distanza di molti anni.
 
Dopo anni di esperimenti su modelli animali, un gruppo di ricercatori del Duke Cancer Institute è arrivato alla conclusione che le cellule di cancro della mammella invadono il midollo osseo utilizzando una specie di ‘chiave molecolare’ che consente loro di penetrare all’interno delle ossa, dove divengono inattaccabili sia dalla chemio che dalla radioterapia. I risultati di questa loro ricerca sono pubblicati su Science Translational Medicine.
 
“Gli studi clinici – ricorda Dorothy A. Sipkins, professore associato presso la Divisione di neoplasie ematologiche e terapie cellulari alla Duke – hanno dimostrato che un tumore della mammella diagnosticato precocemente e adeguatamente trattato può non dar più segno di sé anche per 10-15 anni, per poi recidivare. E molto spesso le ossa rappresentano la sede delle metastasi.”
 
Secondo i ricercatori americani le cellule tumorali penetrano nella parte spongiosa delle ossa legandosi con delle molecole di superficie ai vasi del midollo osseo che contengono la E-selectina. Una volta arrivate all’interno delle ossa, le cellule tumorali possono restare quiescenti per anni per poi ‘risvegliarsi’ e dar luogo alle metastasi.
 
Le biopsie midollari nelle pazienti con carcinoma della mammella possono mostrare anche nelle primissime fasi del tumore la presenza di micrometastasi. “Adesso sappiamo come fanno le cellule tumorali ad arrivare lì – spiega la Sipkins – e abbiamo individuato anche un importante meccanismo che consente loro di rimanere ancorate al midollo osseo. Questo potrebbe portare a nuove strategie di intervento a livello molecolare da mettere in campo prima che le cellule dormienti causino una recidiva”.
 
Una possibile strategia consiste nel trovare il modo di inibire la E-selectina; questo potrebbe infatti limitare la capacità delle cellule tumorali di arrivare alle ossa e dare metastasi. Un inibitore della E-selectina, il GMI-1271, è attualmente al vaglio di studi clinici sull’uomo. Questo stesso farmaco nel topo ha dimostrato di essere in grado di prevenire l’ingresso delle cellule tumorali nel midollo osseo.
 
Ma questa è solo una parte del problema. A volte le micrometastasi ossee si producono prima ancora che il tumore primitivo venga diagnosticato. E allora cosa fare quando le ossa sono state già invase dalle cellule tumorali? I ricercatori americani hanno avuto l’idea di trattare dei topi portatori di micrometastasi ossee con il plerixafor, un farmaco utilizzato nei donatori di midollo osseo per ‘stanare’ le cellule staminali dal midollo osseo e farle riversare in circolo, dove possono essere facilmente prelevate.  Questo stesso farmaco si è dimostrato in grado anche di spingere fuori dal midollo osseo le cellule tumorali dormienti, fatto questo che secondo i ricercatori americani, consentirebbe al sistema immunitario, ma anche alla chemioterapia e ad altre forme di trattamento di colpirle ed eliminarle.
 
“Riuscendo a capire come fanno le cellule di cancro della mammella a migrare per il corpo e comprendere e il loro ciclo vitale, potrebbe consentirci di capire come fare per renderle più vulnerabili e trattabili. La nostra speranza – conclude la Sipkins – è di riuscire a comprendere più a fondo questi aspetti negli esperimenti animali, prima di procedere verso gli studi nell’uomo”.
 
Maria Rita Montebelli

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