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Lunedì 20 GIUGNO 2016
I medici come “autori”. Sono d’accordo ma come arrivarci?

È la stella polare del pensiero di Cavicchi che condivido appieno. Ma qual è, oltre le basi culturali, il programma? Nei suoi articoli ne leggo le precondizioni ma dovremmo specificare qualcosa di più. Ci provo senza ordine di priorità, accatasto frammenti di pensiero

Troppo onore! Ivan Cavicchi dedica ben due articoli alla interpretazione del pantipensiero, mi chiama archiatra ed io sono un modesto medico della mutua, infine tre illustrissimi colleghi mi contestano in base alle affermazioni di Cavicchi che coincidono (almeno dicono) colle loro opinioni, peraltro non molto chiare.
 
Caro Direttore, mi spiace se ti chiedo troppo spazio ma spero di riuscire a spiegarmi. Procediamo secondo la retorica classica. La tesi che sostengo è che le mie opinioni sono assai lontane da quelle dei colleghi Rossi, Pizza e Trucco e  assai vicine a quelle di Cavicchi. Il garbuglio nasce da un mio biglietto a Ivan nel quale dicevo, in modo fin troppo apodittico, che il suo mi sembrava un "ragionamento utopico" e che forse "idealizzava i medici".
 
Cavicchi rileva la differenza tra "utopico", un sogno irrealizzabile, e "decidibile", un ideale che si persegue scegliendo consapevolmente una strada. Ora io sono un sognatore; ma i miei sogni non sono "figli di un cervello ozioso", nascono anzi in una mente tendente al decisionismo. Cominciai da giovane, con un gruppo di amici colpiti come da una frustata dal medico della mutua di Alberto Sordi. Nei favolosi anni sessanta sognavamo la sanità per tutti, contro i vecchi barbogi della medicina, quelli che  pensavano, come oggi molti, che prima fosse meglio, scambiando autonomia con anarchia e libertà con licenza.
 
Qualcosa contribuimmo a fare: il servizio sanitario, il diritto di famiglia, l'IVG, la legge Basaglia, la medicina generale e la formazione complementare e via e via. Tante cose che potevano riuscire meglio ma ancora resistono e lo si deve ai medici che hanno dato una bella sterzata alla medicina. Ma gli oppositori di allora son quelli di ora e agitano gli stessi timori. Come la mettiamo? Avevamo idee precise noi giovani, prefigurando un medico, quello del servizio, che forgiava il proprio destino professionale nell'interesse del cittadino.  
 
Altro che "bricolage delle scorciatoie", caro Ivan, io sono stato un buon medico insieme a tutta la mia generazione, non perché quando incontro un vecchio paziente mi fa una gran festa, ma perché i nostri sogni li abbiamo realizzati "nelle condizioni date". Non scomodiamo Epimenide di Creta: ho affermato soltanto che non conosciamo i giovani e quello che hanno in mente, e nessuno li conosce, e ignoriamo quali utopie fantasticano e se come gli androidi di Dick sognano pecore elettriche. 
 
Dopo tante illusioni e delusioni mi interessa limitare i danni alla medicina in questa caoticissima epoca di travolgente trasformazione
. Non mi basta leggere i miei amati libri, sentire i miei comici preferiti, la musica che amo, criticare i politici, una pizza e a letto. Ci sono già medici a cassa integrazione per il fallimento di imprenditori avventurosi (e per la bontà del nostro sistema sanitario che lascia poco spazio al privato).
 
Come riallocarli nel groviglio inestricabile delle norme che noi stessi abbiamo inventato a tutela di chi c'é? Come realizzare davvero la medicina di iniziativa, l'assistenza ai cronici, il lavoro con gli infermieri e via e via in mezzo a cotanto casino? Eppure non resisto alla voglia di cimentarmi. I medici da quaranta anni mi votano per i miei sogni che  sono il mio programma politico. Quei medici che si sentono "autori". L'utopia dà la direzione di marcia (penso che abbiamo la stessa) ma il governo delle cose si fa con i piccoli passi che risolvono i problemi di cui  non riesco a non farmi carico.
 
Pizza e Rossi hanno denunciato alla magistratura il cosiddetto "decreto appropriatezza". Non ci avrei mai pensato. Piuttosto ho costruito con la Regione Toscana una delibera (di destra? di sinistra?) che dà incarico ai medici di individuare percorsi assistenziali clinicamente corretti e sostenibili. Li stiamo predisponendo con i medici generali, gli specialisti, gli universitari e (sic!) con gli infermieri. Abbiamo concordato con l'Assessore che ciò che i medici giudicano inutile esce dai LEA. A me sembra che questo sia un esempio di  "governo clinico". Dirai: perché fuori dai LEA e non lasciare la scelta ai medici? Ma chi lo spiega ai magistrati? E le recenti condanne delle ASL a pagare la terapia Di Bella? E i cittadini non devono avere certezza su ciò che gli spetta?
 
Mai parlato di medicina amministrata, bruttissimo termine
. Ho sempre pensato che dell'appropriatezza  fa parte la sostenibilità. La quale è obbligo del medico sia che il paziente paghi out of pocket sia che gli oneri siano fiscalizzati. Scegliere saggiamente è un atto politico del medico che si fa carico di spiegare all'assistito che spesso less is better. Ma il povero medico dovrà fronteggiare magistrati disposti a condannare la perdita di chance e la gente che vuole tutto ciò che ha letto sul web. Il fatto è che il Servizio sanitario offre molto più che altri sistemi europei. Nella sanità siamo bravi e ci comportiamo come persone ricche. Ma chi vuol mantenere la propria ricchezza la amministra con giudizio. Il medico che ha introiettato il concetto di sostenibilità gestisce saggiamente le risorse comuni. Ma non può farlo da solo, occorre una sponda culturale e politica.
 
Tu come immagini i medici, rivoluzionari o conservatori, apocalittici o integrati, in un paese di santi, di poeti, di navigatori, di trasmigratori? Credo che siano come gli avvocati, gli elettricisti, i giocatori della Fiorentina, i magistrati, gli artigiani, i preti cattolici, i senatori, gli idraulici, come tutti noi italiani. Eppure, è vero, il sistema sanitario l'hanno tirato avanti loro. Abbiamo fatto scendere il condotto dal calesse e purtroppo oggi compila moduli,  scrive ricette virtuali, verifica il ticket; questo mi angoscia davvero e il danno alla relazione, all'empatia comincia a essere drammatico. Che fare?
 
Non ripeto la ricetta Cavicchi perché la condivido. La sanità e la medicina sono superfetazioni del complesso economico sociale che regge il mondo in uno strano balletto con le antropologie dominanti. I medici, se vogliono riassumere ruolo e prestigio, debbono inserirsi nel dibattito sulle basi economiche e politiche della società. E gli argomenti non mancano, dal prezzo dei farmaci ai rischi ambientali, dal fine vita ai test genetici, dal rapporto tra scienza e diritto ai limiti dell'assistenza in un diritto finanziariamente condizionato come quello alla tutela della salute. Ma una volta che il medico abbia ripreso la sua "competenza decisionale e la usi al meglio sul piano epidemiologico, clinico, economico e sociale", come scrivi, faremo a meno dell'amministrazione?
 
Sostieni che i medici si valutano non sulle prestazioni ma sui risultati a favore dell'individuo e della collettività. Outcomes clinici, epidemiologici e economici. Altrimenti nessuno ci crede. Sono assolutamente d'accordo: è un grande processo culturale per il quale i medici sono già "quasi" pronti. Tu dici: "il medico riforma se stesso e quindi la sua prassi sviluppando in modo riformatorio la sua autonomia". Proprio quel che tentò la mia generazione. Ed ora? In questo momento storico esistono le condizioni politiche e organizzative per contrastare la struttura politico finanziaria che domina la società da parte dei soli medici? Forse dobbiamo con grande sapienza coniugare ideale e governo delle cose. Cerchiamo quindi di non avvantaggiare chi non vuol riformare nulla. Cambiare la targa non basta. Il clima è pessimo e mentre "passa a' nuttata" occorre maturare le idee annaffiandole di realismo.
 
Cavicchi fa l'esempio della nave nella burrasca. A me viene in mente un condominio. Tutti puliscono al meglio la propria stanza fino a farne uno specchio, ma chi pulisce le scale e gestisce la caldaia? Il tutto è maggiore della somma delle parti, l'ha già detto Aristotele. Certo che il mondo è "decidibile"! Però entro i limiti dati dal mondo stesso. Allora il nostro idealtipo, se vuol fare le riforme, e io sono tra quelli, non ha voglia di ammodernare anzi ha in uggia la moda: vorrebbe un mondo migliore, però lo deve governare. Io sono inguaribilmente toscano, innamorato delle disturne. Ora però invoco proposte di governo e, come Adriano imperatore, prudenza e pazienza.
 
Seguito a domandarmi in cosa non siamo d'accordo. Approvo le tue idee "riformiste" che sottendono una rivoluzione. Però, nel frattempo, bisogna affrontare una situazione difficilissima. La stella polare è il medico "autore", lo chiamerei ippocratico. Qual è, oltre le basi culturali, il programma? Nei tuoi scritti ne leggo le precondizioni ma dovremmo specificare qualcosa di più. Ci provo senza ordine di priorità, accatasto frammenti di pensiero.
 
Cominciamo con la rivolta contro il taylorismo. I contratti di lavoro si fondino sui risultati. Poi poniamoci il problema della rivalidazione della laurea e della valutazione dei risultati e, non ultimo, della trasformazione delle ex facoltà mediche in scuole di medicina. Bisogna riprendere la stesura del Codice Deontologico entrando nei problemi strutturali della società (nascita, morte, limiti delle cure) e dire la nostra sul prezzo dei farmaci e dei dispositivi e su scienza e diritto.
 
E perché non definire i percorsi assistenziali insieme agli altri professionisti? E stabilire insieme i cut off culturali e le conseguenti responsabilità? Prima elenchiamo i problemi, poi prospettiamo le soluzioni e valutiamone la fattibilità, infine raccogliamo il consenso. Questo, non altro, è politica.
 
Antonio Panti 
Presidente Omceo Firenze

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