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Giovedì 19 MAGGIO 2011
Biotecnologie per la salute. Promosse dal 95% degli italiani

Lo rileva un'indagine Eurisko sul livello di conoscenza e percezione delle biotecnologie applicate alla salute. Se ne è discusso stamattina a Farmindustria in un meeting dove si è fatto anche il punto sul settore: sono 247 le aziende bioteconologiche per la salute operanti in Italia e per loro c'è un futuro roseo, con una crescita annua stimabile tra il 5 e il 10%.

Se le conosci le apprezzi. Potrebbe essere questo lo slogan da adottare per sintetizzare l’approccio degli italiani alle biotecnologie applicate alla salute. Il perché si intuisce subito osservando i dati di una ricerca, presentata oggi dalla Farmindustria e realizzata da Eurisko, che ha sondato la percezione e il livello di conoscenza che di queste tecnologie hanno i cittadini del nostro Paese.
Ebbene, se solo il 39% degli italiani (il 43% se ci si limita ai più giovani) sa di cosa si tratta, a fronte di un 61% che ne ignora il significato, una volta che i ricercatori hanno provveduto a informare correttamente gli intervistati sul significato e lo scopo del termine, si raccoglie un risultato sorprendente in termini di valutazione sulla loro positività o nocività per la salute.
Il 95% degli intervistati risponde infatti di credere “molto” (58%) o abbastanza (37%) al fatto che le biotecnologie possano rappresentare una grande opportunità per lo sviluppo della ricerca farmaceutica.
Un dato che ha ovviamente soddisfatto i vertici farmindustriali, dal presidente Sergio Dompé, a Massimo Boriero, presidente del Gruppo biotecnologie di Farmindustria, da anni impegnati nel lancio del made in Italy in questo settore con risultati tanto significativi quanto in effetti poco noti ai non addetti: 247 aziende bioteconologiche farmaceutiche che hanno dinanzi a loro un futuro di crescita annua stimabile tra il 5 e il 10% nei prossimi anni.

Insomma un’isola, neanche piccola, di grande dinamismo in un quadro generale di sofferenza del comparto e soprattutto di apparente smobilitazione di fronte alle grandi sfide della ricerca medico-scientifica.
Tra i casi citati, quello di Pfizer, leader mondiale nella cardiologia, che da poco ha annunciato la chiusura di tutte le sue catene di ricerca nel campo della malattie cardiovascolari registrando l’assoluta non remunerabilità dello sviluppo di nuove molecole vista la presenza ormai radicata di moltissimi generici di pari efficacia.
Ma lo stesso sta accadendo in altri settori, come quello degli antibiotici, nel quale la temutissima antibiotico-resistenza rischia di lasciarci orfani di nuove molecole antibatteriche, sempre a causa del pessimo rapporto costo-benefico per chi volese arrischiarsi a mettere sul piatto gli investimenti colossali oggi necessari per inventare nuovi rimedi più avanzati e combattivi.
Verrebbe quasi da dire che, se non ci fossero le biotecnologie, forse il futuro non vedrebbe più nuovi farmaci come eravamo abituati a registrare  a cadenza più o meno ravvicinata in tutto il periodo dal dopoguerra fino ai primi anni ’80.
Eppure, ha osservato proprio Sergio Dompé, in questi ultimi 30 anni, anche senza nuove molecole particolari, la vita media si è allungata di altri 6/7 anni, e questo è dovuto al fatto che, oltre al cambiamento degli stili di vita, abbiamo potuto contare su un progressivo affinamento di terapie e processi di cura frutto proprio dell’applicazione della biotecnologia in moltissimi campi. Vaccini, senz’altro, ma non solo. Anemia, fibrosi cistica, deficit della crescita, emofilia, leucemia, rigetto nei trapianti, tumore e poi malattie rare, per le quali i biotecnologici rappresentano l’unica reale speranza.
E i numeri parlano chiaro. Oggi sono più di 350 milioni nel mondo le persone trattate con farmaci biotecnologici, pari al 40% del complesso dei prodotti in commercio e al 50% di quelli in sviluppo.
 
Unica nota controversa quella dei biosimilari, vale a dire di quei farmaci biotecnologici realizzabili da chiunque dopo la scadenza del brevetto del biotecnologico originale.
A differenza del farmaco equivalente di sintesi chimica, che può essere funzionale ed efficace anche con percentuali di variabilità nella bioequivalenza fino al 20%, per i biotecnologici l’equivalenza è molto più complessa. E questo perché occorre tener conto di una molteplicità di fattori, dal complesso delle procedure di isolamento e fabbricazione, dal livello di purificazione, al ceppo di partenza e alla stessa dislocazione territoriale dell’azienda, che rendono molto difficile la riproduzione di farmaci equivalenti come per i tradizionali generici “chimici”.
Porte chiuse ai biosimilari, quindi? No, spiega sempre Dompé, ma certamente si dovranno adottare da parte delle autorità competenti molti più livelli di verifica per essere certi di avere a disposizione un prodotto efficace e sicuro.

 

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