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Mercoledì 28 SETTEMBRE 2016
L’Intramoenia non è la causa delle liste d’attesa. E regioni come il Veneto o l’Emilia Romagna lo dimostrano

La relazione negativa tra libera professione e tempi d’attesa esiste solo in una visione truffaldina dell’attività professionale medica. E se queste due linee si incontrano è solo per colpa del sistema di organizzazione ed erogazione delle prestazioni o di carenze del sistema di controllo

Il regista statunitense Michael Moore nel presentare a Roma alcuni anni fa il suo documentario sulla sanità degli Stati Uniti ha dichiarato, con il solito tono tra il provocatorio e il beffardo, “Voi italiani per curarvi avete le liste d’attesa. Noi, negli USA, abbiamo eliminato il problema delle file eliminando dal diritto alle cure 50 milioni di poveri che non possono pagarsi il dottore. Un consiglio? Eliminate i poveri dalle liste d’attesa e non aspetterete!”.
 
Le liste di attesa rappresentano una caratteristica strutturale di tutti i sistemi sanitari pubblici, universalistici e solidali ove i pazienti non sono chiamati a pagare le prestazioni di tasca propria e il tempo di accesso ai servizi, e non la disponibilità a pagare, ha il ruolo di trovare un equilibrio tra domanda e offerta.
 
Eppure il problema delle liste d’attesa, e della loro presunta correlazione con la libera professione intramoenia (LPI) dei medici pubblici, emerge periodicamente come un fiume carsico, sempre, però, in un’accezione che identifica in questa ultima il fattore principale determinante la durata delle attese. Da ciò la richiesta di limitare, o vietare del tutto, tale attività ai medici dipendenti avanzata, per più o meno nobili motivi, da diversi pulpiti con lo scopo di captare la gratitudine della gente.
 
Pochi si fermano a ragionare in modo serio e informato sul problema per una analisi puntuale delle cause, come abbiamo fatto ampiamente in un precedente articolo pubblicato su QS cui rimandiamoContinuare a pensare che quello della libera professione sia il meccanismo principale che impedisce ai cittadini l'accesso equo ai servizi sanitari è comunque fuorviante e mira solo a scaricare le responsabilità che Governo e Regioni si portano addosso.
 
Dove lo mettiamo il rilevante taglio delle risorse destinate al finanziamento del SSN dal 2011 al 2015? I circa 32 miliardi di tagli calcolati dalle Regioni e sostanzialmente confermati dalla Corte dei Conti, non incidono sui diritti dei cittadini? I pensionamenti del personale (- 7000 medici dal 2009 al 2014 – Conto annuale dello Stato 2015) e le gravidanze senza sostituzione non degradano l'organizzazione dei servizi e non prolungano le liste d'attesa?
 
La non corrispondenza tra bisogni dei cittadini e flussi finanziari centrali si traduce nelle singole aziende sanitarie in fatti molto concreti: oltre al blocco del turn over, abbiamo le limitazioni degli acquisti di beni e servizi (farmaci, protesi, device, kit diagnostici, kit chirurgici....), il mancato rinnovo delle tecnologie mediche, i ridotti investimenti in formazione del personale. Nessuno ha mai sentito parlare di taglio delle sedute operatorie per mantenere in equilibrio i bilanci aziendali riducendo le spese? Quanto pesa tutto ciò sui tempi d'attesa? Meno del diritto a effettuare la libera professione? E perché mai nessun Catone ne parla?
 
Il D.Lgs 120/2007 promosso dalla Ministra Livia Turco poneva l’obiettivo di un progressivo allineamento dei tempi di erogazione delle prestazioni nell'ambito dell'attività istituzionale ai tempi medi di quelle rese in regime di LPI, al fine di assicurare che il ricorso a quest'ultima fosse conseguenza di libera scelta del cittadino e non di carenza nell'organizzazione dei servizi.
 
Negli ultimi anni solo Emilia Romagna e Veneto, hanno messo in campo iniziative per concretamente raggiungere questo obiettivo. Le Regioni piuttosto si sono distinte per la scelta di riversare sulla sanità (Conferenza Stato-Regioni, 11 febbraio 2016) gran parte del contributo richiesto dal Governo per l’equilibrio della finanza pubblica nel periodo 2017/2019: 3,5 miliardi di € nel 2017, 5 miliardi nel 2018, altrettanti nel 2019, assolvendosi così dall’obbligo di presentare proposte su altri capitoli di spesa del loro bilancio (complessivamente circa 45 miliardi di € di spesa corrente non sanitaria).
 
Siamo sicuri che queste scelte non incideranno anche nei prossimi anni sulla qualità delle cure, sull’erogazione dei servizi e quindi sulle attese? Eppure già da molti anni il tratto fondamentale della sanità regionalizzata è quello delle ineguaglianze, sia considerando gli esiti delle cure, sia l’offerta dei servizi. Una donna che vive in Campania ha circa tre anni in meno di speranza di vita rispetto a quella che vive in Trentino o in Veneto (Istat, 2015).
 
L’aspettativa di vita in buona salute oltre i 65 anni è più bassa nelle regioni meridionali rispetto a quelle del centro-nord. La mortalità a 30 giorni per ictus cerebri in Molise o in Campania arriva a essere superiore del 50% rispetto a quella registrata in Toscana o Emilia Romagna ed anche l’accesso a procedure salva vita, come l’angioplastica coronarica in corso di infarto miocardico acuto, vede i cittadini del meridione largamente svantaggiati rispetto a quelli residenti nel resto d’Italia (OECD, 2015), anche per il fenomeno della desertificazione ospedaliera che caratterizza i piani di rientro a cui sono sottoposte le Regioni in cui risiedono.
 
La ridotta capacità di offerta delle aziende sanitarie, pesantemente e negativamente influenzata dal sistematico “definanziamento” del SSN, ha determinato una crescita importante della spesa privata. Si tratta di un mercato che nelle sue varie componenti ha un valore di circa 35 miliardi di € (Censis, 2016), di cui solo uno è dovuto alla LPI.
 
Circa 9 milioni di cittadini ogni anno effettuano una prestazione specialistica nel settore privato. Se si indaga il motivo per cui si fugge dall’offerta pubblica, al primo posto, e di gran lunga, troviamo i costi stellari dei ticket sanitari imposti dalle Regioni, un vero e prorio fattore di shift della spesa verso il privato, e solo dopo i tempi di attesa (Eurostat, 2014). Chi vuol impedire ai medici del SSN l’esercizio della libera professione vuole in realtà regalare questa attività alle strutture private, allocando consistenti risorse al di fuori del SSN e contribuendo ad un suo ulteriore impoverimento.
 
L’attività libero professionale è disciplinata da norme rigorose, legislative e regolamentari, che correttamente applicate costituiscono una matrice organizzativa nella quale le distorsioni e le speculazioni difficilmente sono possibili. Il medico pubblico dipendente effettua la libera professione in strutture individuate dalla o con l’azienda sanitaria, in tempi contingentati e documentati, con tariffe concordate e calmierate, una parte delle quali va alla azienda, con imposizione fiscale certa, con regole definite contrattualmente che presuppongono uno stretto rapporto tra volumi prestazionali libero professionali e quelli istituzionali, perfino per la singola prestazione. Senza contare che una parte dei proventi di questo lavoro svolto al di fuori dell’orario di servizio viene destinato dalla legge a finanziare un piano di riduzione delle liste di attesa.
 
La relazione negativa tra LPI e tempi d’attesa esiste solo in una visione truffaldina dell’attività professionale medica, e se queste due linee, per così dire, si incontrano, è per colpa del sistema di organizzazione ed erogazione delle prestazioni o di carenze del sistema di controllo.
 
Non contestiamo che la percezione dei cittadini che attendono anni per accedere ad una prestazione sanitaria in diverse realtà del nostro Paese possa essere quella di un diritto negato, ma occorre rimuovere i fattori determinanti le attese e non spingere per l’abolizione della LPI. Rimaniamo convinti che i determinanti maggiori dei tempi d’attesa vadano ricercati nei ritardi del sistema di organizzazione ed erogazione delle prestazioni in regime istituzionale e nei cambiamenti demografici, epidemiologici e sociologici dei nostri tempi.
 
Chiedere l’abolizione della LPI per la presenza di comportamenti truffaldini è come chiedere la chiusura di tutte le gioiellerie per il riscontro di una quota più o meno importante di evasione fiscale in questo settore commerciale.
 
Infine, si potrebbe utilizzare quanto Stato e Regioni incassano ogni anno dalla LPI, circa 600 milioni di €, per finanziare un ampio e duraturo programma di riduzione delle attese attraverso un incremento dell’utilizzo orario degli ambulatori specialistici, delle attrezzature tecnologiche e delle sale operatorie. Lo strumento contrattuale è quello della libera professione in favore dell’azienda. La defiscalizzazione della remunerazione dei professionisti, come già fatto per il settore privato, incentiverebbe questa forma di produttività aggiuntiva e potrebbe indurre anche una riduzione della tariffa a carico delle aziende ed un recupero della fuga di pazienti e risorse economiche verso il privato.
 
Carlo Palermo
Vice Segretario Nazionale Vicario Anaao Assomed

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