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Lunedì 10 OTTOBRE 2016
Il ‘bene’ non fa notizia ma merita di essere raccontato



Gentile direttore,
il volontariato non fa notizia ma riempie i cuori, diffonde buone pratiche e allevia in silenzio le sofferenze di molti. Storie che meritano di essere invece raccontate. La Onlus Cotugno-Africa fu fondata una decina di anni fa su iniziativa dell’allora Direttore generale dell’azienda ospedaliera Cotugno di Napoli (monospecialistica per le malattie infettive) Vincenzo Casalino, e di alcuni medici dell’ospedale. In questi anni ha operato in Africa costruendo un ambulatorio-dispensario in Madagascar e assicurandogli nel tempo medici ed infermieri locali, attrezzature e farmaci. Recentemente la Onlus ha modificato il proprio statuto per affiancare alla consolidata attività in Africa iniziative di assistenza ai migranti, in Italia ed all’estero.

In quest’ottica l’Associazione nelle settimane scorse ha tracciato il punto sulle attività della Onlus mettendo sotto la lente le politiche d’integrazione dei migranti. Un incontro al quale hanno partecipato tra gli altri il presidente dell’Associazione Cotugno-Africa, Pietro Amoroso (già primario di infettivologia del Cotugno), Mario Santangelo, emerito di Chirurgia generale e Trapianti di Rene della Federico II e affezionato amico e sostenitore dell’Associazione, Salvatore Strozza, ordinario di Demografia presso l’Università Federico II di Napoli e presidente dell’Associazione Italiana per gli Studi sulla popolazione.
 
Proprio quest’ultimo ha svolto un’interessante relazione sull’’immigrazione e la presenza straniera in Italia ribaltando, con le evidenze dei numeri, molti luoghi comuni sul fenomeno immigratorio e proponendo un’immagine della società italiana dei prossimi anni rassicurante, a condizione che si svuoti da paure ancestrali, pregiudizi, distorsioni interpretative.  E’ intervenuto, al nostro incontro anche Pietro Bartolo, dirigente medico del poliambulatorio di Lampedusa e coordinatore per il Ministero degli Interni degli interventi sanitari sugli immigrati extracomunitari che  ha portato testimonianze semplici, dirette, genuine, del suo lavoro a Lampedusa, di questi anni in cui ha respirato l’odore della morte.
 
Abbiamo percepito immediatamente che, pur non amando l’esibizione del dolore, non poteva evitare immagini cruente o storie che scuotessero la delicata sensibilità di chi è abituato al filtro protettivo dei media, alla censura della grande bellezza. Lui per moderare i toni ha cercato di alternare nel suo racconto la morte alla vita, le gioie al dolore, di compensare le centinaia di cadaveri con qualche nascita o guarigione miracolosa. “Anche una sola persona salvata può dare la forza per fronteggiare decine di cadaveri da esaminare”, ha confidato. Tentativo generoso ma fallace di fronte a storie ed immagini atroci, come quella della ragazza che non è riuscita a partorire durante il viaggio perché non aveva lo spazio per divaricare le gambe. O come quella della strana patologia “da traversata”, quella delle ustioni severe su tutto il corpo che colpiscono quasi esclusivamente il sesso femminile, che è più diffusa del globo vescicale (da protratto impedimento della minzione), delle infezioni, della sindrome da disidratazione.
 
Patologia che ha rappresentato un mistero genetico, poiché colpisce quasi esclusivamente le donne, prima che si arrivasse a comprenderne la causa: le ustioni sono provocate dalla miscela di benzina ed acqua di mare che si genera nel continuo travasare benzina dalle taniche nel piccolo serbatoio del motore. Nessuno ha mai acceso i riflettori sui dettagli della disperazione che invece vale la pena conoscere. Con atteggiamento protettivo gli uomini si ammassano sui tubulari dei gommoni, per creare una barriera umana difensiva contro vento, onde, rischio di caduta in mare, alle donne che si dispongono al centro, sul fondo del natante: purtroppo è quello lo spazio più saturo di vapori ustionanti.  

Lentamente, però, le parole e le immagini da inferno dantesco hanno iniziato a stemperarsi, a cedere spazio a sensazioni meno grevi. C’è voluto un po’ di tempo per capire che i sentimenti si stavano rasserenando grazie alle descrizioni degli interventi di salvataggio, alle facce dei marinai e dei militari impegnati a soccorrere, al racconto di una popolazione compatta che di notte si precipita sulle scogliere per accogliere sconosciuti terrorizzati, al ricordo di una notte nella quale le donne lampedusane accorsero all’ambulatorio con vestiti e pannolini, informate dal passaparola che una donna appena sbarcata aveva partorito.

Forse, però, ciò che più ha colpito è stato l’atteggiamento pacato del medico di Lampedusa, è stata la sua serena, assoluta determinazione a continuare il suo lavoro; non ha chiesto aiuti, fondi, chiedeva solo che lo aiutassimo a capire perché le navi europee devono aspettare le carrette del mare a 30 miglia dalla costa, senza poter andare ad imbarcare i profughi sulle spiagge, senza poter attivare un efficace, concreto “corridoio umanitario”.

La relazione è stata breve e si è conclusa semplicemente, senza toni drammatici od enfatici,  ma ha lasciato l’aula sospesa in un silenzio innaturale, intriso di tensione.

E’ toccato al prof. Santangelo rianimare l’aula: “In questo momento non ho cosa dire, mi sento solo in colpa per non fare nulla di concreto per queste persone. Propongo di ringraziare con un applauso la popolazione di Lampedusa, gli operatori sanitari, i militari, i volontari, tutti coloro che con le loro opere  fronteggiano questo dramma”.

Ci sono momenti in cui il suono di qualsiasi parola è stonato, solo un abbraccio o un gesto possono esprimere un sentimento confuso, profondo, indicibile. L’ultima relazione è stata di Francesco Paolo Casavola, presidente emerito della Corte Costituzionale, su “Il diritto universale alla salute”. Era senz’altro difficile intervenire nel clima che si era creato, ma l’autorevolezza, la cultura, la sensibilità del Presidente sono riuscite a riaccendere un’attenzione che ancora fluttuava nel Mediterraneo. Casavola ha sottolineato la differenza tra integrazione ed assimilazione ed ha considerato i nuovi scenari di diritto che le differenze culturali, religiose, etniche proporranno.

Infine è stato proiettato “Fuocoammare”, il film documentario di Gianfranco Rosi, girato interamente a Lampedusa nel 2016 e  premiato nello stesso anno con l'Orso d'oro per il miglior film al Festival di Berlino. Il film è stato ispirato dal materiale clinico e fotografico raccolto dal dott. Bartolo e, attraverso la storia di Samuele, bambino di 12 anni, parla del mare, di uomini, donne e bambini che cercano di attraversarlo in cerca di libertà, di un’isola che si è ritrovata, suo malgrado, nell’ombelico fragile e sanguinante della civiltà occidentale.

Qualche considerazione conclusiva sulla Onlus Cotugno-Africa di cuib faccio parte e dell’Azienda dei Colli che incorpora oggi il presidio Cotugno protagonisti di una giornata che definirei - più che di formazione - di crescita, lontano da qualsiasi riflettore, da qualsiasi retorica, da qualsiasi obiettivo materiale e che solo oggi, a distanza di qualche settimana, sento però il bisogno di raccontare.
 
Perché credo che il comportamento di tutti coloro che vivono e lavorano a Lampedusa sia la migliore risposta a chi si ostina a voler costruire muri, a definire differenze, a difendere i privilegi di chi in un luogo è nato a scapito di chi quel luogo l’ha cercato e desiderato, talora rischiando la vita. Non so se avrà seguito la proposta di assegnare il Nobel per la pace a Lampedusa, ma ho ben compreso che i lampedusani, di nascita e adottivi, da anni stanno adoperandosi senza alcun interesse, economico o mediatico, come se alzarsi di notte e correre sugli scogli per salvare ed accogliere lo sconosciuto Altro fosse l’unico comportamento possibile, come se industriarsi per offrire un po’ di calore umano a chi ha perso tutto, avere il coraggio di guardare in faccia il dolore e la morte quotidianamente fosse un atto scontato, istintivo, naturale.

Per definire ciò che in quell’isola, nella “porta dell’Europa” sta accadendo prenderei in prestito il titolo del celebre saggio di Hannah Arendt sulla Shoah, volgendolo al positivo: la banalità del bene.
 
Dott. Giuseppe Viparelli
Psichiatra, psicoterapeuta
A. O. dei Colli di Napoli

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