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Mercoledì 02 NOVEMBRE 2016
Dagli Opg alle Rems. Ma i medici non possono fare i poliziotti

La chiusura degli Opg è ormai quasi ultimata. Ma restano irrisolte molte questioni delicate con il passaggio degli ex internati alle Rems. Tra queste è centrale la problematica di come soddisfare e bilanciare la mission sanitaria di cura intensiva in regime socio-assistenziale di matrice comunitaria con le prescrizioni implicite nel carattere detentivo della misura di sicurezza. E in questo ambito qual è il ruolo del medico?

La riforma per il superamento degli Opg ha ormai raggiunto l’obiettivo principale per cui è stata avviata. Si contano ormai pochi internati ancora ricoverati in Opg, e le Rems sono ormai attive su quasi tutto il territorio nazionale.
 
Questo risultato, tuttavia, non è sufficiente a garantire solidità e stabilità, nel tempo, alla riforma. L’impianto legislativo delle L. 81/214 e L. 9/12 è carente su molteplici problemi fondamentali. Gli operatori sanitari coinvolti in questo processo sono esposti a notevoli rischi professionali e i pazienti in carico al sistema possono essere esposti a deficienze organizzative.
 
La Conferenza Unificata effettua proposte su temi legati a questo processo di chiusura e gestione dei pazienti psichiatrici autori di reato, proposte che, tuttavia, hanno valore di accordo e non di legge. Di conseguenza il Dirigente Sanitario della Rems si trova con una lunga serie di problematiche riguardo la legittimità, o meno, dell’applicazione del contenuto degli accordi in ordine alle più disparate questioni: notifiche di atti giudiziari, trasferimenti o traduzioni ai fini di giustizia, richieste di permessi o licenze.
 
Irrisolta è la centrale problematica di come soddisfare e bilanciare la mission sanitaria di cura intensiva in regime socio-assistenziale di matrice comunitaria con le prescrizioni implicite nel carattere detentivo della misura di sicurezza. Di fatto passando ad una gestione interamente sanitaria dell’internato in Rems, vi è stata una delega tout court delle funzioni del Direttore dell’Opg al Direttore della Rems. Ciò è, tuttavia, inattuabile perché concettualmente incompatibile.
 
Il Dirigente Medico, nell’esercizio delle proprie funzioni non può assorbire i poteri di Ufficiale di Polizia Giudiziaria. D’altro canto non si può neanche scotomizzare la natura detentiva della misura di sicurezza applicata tramite il ricovero in Rems. La detenzione pone in primo luogo il principio di protezione della collettività dal rischio di recidiva di violenza, rimandando inevitabilmente al regolamento penitenziario per inquadrare i diritti/doveri dell’ospite e le modalità di intervento erogati all’interno e all’esterno della struttura. Il DPR 230 del 2000 è però rivolto al personale di Polizia Giudiziaria all’interno del Istituto dell’Amministrazione Penitenziaria e, sebbene sia un riferimento da considerare, non è applicabile per intero nelle Rems.
 
In questo ambiguo contesto, si colloca la questione deontologica della relazione periodica sull’andamento del percorso di cura del soggetto sottoposto a misura di sicurezza nella Rems all’Autorità Giudiziaria. Il problema etico è anche di una complessità maggiore rispetto alle problematiche giudiziarie e avrebbe necessitato di una riflessione che non è stata attuata. Infatti, se da un lato la relazione scritta sulle condizioni mentali e comportamentali dell’assistito in Rems in favore dell’Autorità Giudiziaria rappresenta una giusta causa di rivelazione del segreto professionale, poiché previsto “nell’ordinamento e dall’adempimento di un obbligo di legge” (art. 10 Codice di Deontologia Medica 2014), d’altro canto il confine che delimita l’espressione di un parere clinico rispetto ad un parere medico legale è spesso molto sottile e sfumato, considerando che l’obiettivo della certificazione è quello di fornire al Magistrato quanti più parametri utili ai fini del parere di pericolosità sociale.
 
Per un verso sarebbe utile, e soprattutto economico per le risorse pubbliche, che il Dirigente Medico o il Direttore della Rems esprimessero un parere medico legale in ordine alla pericolosità attuale del proprio assistito, ma d’altro canto ciò non può e non deve essere ammesso in base all’art. 62 dello stesso Codice Deontologico che di fatto esclude questa possibilità (1).
 
Peraltro, attribuire al personale sanitario delle Rems l’onere di esprimere un parere medico legale rilevante ai fini dell’attribuzione di una misura penale, più o meno coercitiva della libertà, inficerebbe in maniera significativa la relazione terapeutica e aumenterebbe in maniera incontrollabile il rischio di esposizione del personale sanitario alle pressioni derivanti dall’assistito o dal proprio entourage per ottenere benefici sulla libertà personale.
 
In tal senso è utile distinguere la posizione del Perito, che ha l’obbligo di non omettere nulla e di riferire tutto quanto di sua conoscenza all’Autorità Giudiziaria che gli ha conferito l’incarico, e per sostenere le proprie conclusioni può anche trascrivere nel proprio elaborato il contenuto verbale recepito dal periziando durante l’esame psichiatrico diretto, senza determinare alcuna complicanza nel rapporto con l’esaminato.
 
Al contrario, se il Dirigente della Rems relazionasse il contenuto dei colloqui clinici o di psicoterapia di un assistito nelle comunicazioni periodiche, egli andrebbe da un lato a compromettere il rapporto fiduciario tra medico e paziente, che è un presupposto fondamentale per l’accettazione delle cure di quest’ultimo, e per altri versi esporrebbe ancor più il personale sanitario alla violenza o all’aggressività, e quindi alle ritorsioni dell’internato, qualora quest’ultimo riconoscesse, in senso sfavorevole a lui, il nesso tra il parere del proprio curante e la decisione del Magistrato. A nostro parere andrebbe perciò rifiutata qualunque ipotesi normativa o legislativa che attribuisca al personale medico delle Rems il compito di svolgere funzioni medico legali riconducibili alla misura penale in corso.
 
È da ritenersi, invece, eticamente appropriata l’espressione di un parere clinico che si fondi esclusivamente sui dati misurabili e sulla descrizione del comportamento attraverso le opportune scale valutative, in modo tale da poter fornire all’Autorità Giudicante o Sorvegliante quanti più elementi utili per inquadrare l’evoluzione favorevole, o meno, del percorso di cura e di quelle dimensioni cliniche causalmente connesse con il rischio di violenza o aggressività, e quindi di recidiva.
 
Pieritalo Pompili, Psichiatra Asl Rm 5
Giuseppe Nicolò, Psichiatra Direttore Dsm Asl Rm 5
Stefano Ferracuti, Prof. Associato Psicologia clinica “Sapienza” Università di Roma
 
(1): “l’attività medico legale, qualunque sia la posizione di garanzia nella quale viene esercitata, deve evitare situazioni di conflitto d’interesse ed è subordinata all’effettivo possesso delle specifiche competenze richieste dal caso […] il medico, nel rispetto dell’Ordinamento, non può svolgere attività medico-legali quale consulente d’Ufficio o di controparte nei casi in cui sia intervenuto personalmente per ragioni di assistenza, di cura o di qualsiasi altro titolo […]”.
 

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