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Giovedì 22 DICEMBRE 2016
Alzheimer e diabete: scoperto un unico biomarcatore di rischio per entrambi le condizioni

Si tratta di un enzima presente nel liquor che, se presente in elevati livelli, conferisce un aumentato rischio per le due patologie. La scoperta, in pubblicazione su Journal of Alzheimer Disease da parte di un gruppo di ricercatori dell’Università dello Iowa, starebbe dunque ad indicare un link, già osservato a livello epidemiologico, tra demenza e diabete e offrirebbe la possibilità di una diagnosi precoce.

Si chiama autotaxina (ecto-­nucleotide pirofosfatasi/fosphodiesterasi 2) ed è un enzima prodotto dal tessuto adiposo beige. Se presente in elevate concentrazioni nel liquor permette di prevedere la comparsa delle alterazioni della memoria tipiche dell’Alzheimer, ma anche del diabete di tipo 2.
 
La scoperta, in pubblicazione su Journal of Alzheimer Disease da parte di un gruppo di ricercatori dell’Università dello Iowa (Usa) starebbe dunque ad indicare un link, già osservato peraltro a livello epidemiologico, tra demenza e diabete e offrirebbe la possibilità di una diagnosi precoce, sia pure attraverso una metodica invasiva come la puntura lombare.
 
I ricercatori americani hanno valutato che un aumento di concentrazione dell’autotaxina pari ad appena un punto (ad esempio da 2 a 3) comporta un aumento del 350-500% del rischio di sviluppare una compromissione della memoria e un aumento del 300% del rischio di sviluppare diabete.
 
“Ci siamo messi alla ricerca di biomarcatori metabolici in stretta contiguità col cervello – ricorda Auriel Willette, professore associato di scienza dell’alimentazione e di nutrizione umana, presso la Iowa State University - che mostrassero una correlazione con le patologie, direttamente proporzionale all’aumento della loro concentrazione e che fossero presenti in livelli elevati lungo tutto lo spettro delle forme di Alzheimer”. L’autotaxina liquorale risponde a tutti questi requisiti e rappresenta il campione biologico più vicino al cervello, prima della biopsia.
 
Ricerche condotte in precedenza dallo stesso gruppo di studio avevano trovato una forte associazione tra resistenza insulinica da una parte e compromissione della memoria, alterazioni cognitive e aumentato rischio di Alzheimer dall’altra. L’insulino-resistenza è dunque un buon indicatore ma ha dei limiti ovviamente, il primo dei quali è che si manifesta in tutto l’organismo e questo non necessariamente correla con quanto accade a livello cerebrale. Un problema del tutto superato dall’individuazione dell’autotaxina nel liquido cefalo-rachidiano.
 
Una scoperta questa che riporta anche al vecchio adagio latino mens sana in corpore sano. Gli autori dello studio rivelano infatti anche che i soggetti con elevati livelli di autotaxina sono più spesso anche obesi, condizione questa che può aumentare il rischio di insulino-resistenza.
 
I livelli di autotaxina sono una spia della quantità di energia che il cervello utilizza nelle aree colpite dall’Alzheimer; i soggetti con le concentrazioni più elevate presentano un numero di neuroni minore e di dimensioni inferiori a livello dei lobi frontali e temporali, che sono le aree del cervello implicate nelle funzioni mnesiche ed esecutive. Queste persone presentavano in questo studio un basso punteggio ai test neuropsicologici mirati ad esplorare memoria, ragionamento e funzioni multitasking.
 
“Elevati livelli di autotaxina commenta il professor Willette sono dunque correlati a regioni cerebrali di dimensioni ridotte nell’Alzheimer e dunque ad una minor capacità di svolgere una serie di funzioni. E la stessa cosa si verifica con la glicemia; se il cervello utilizza una minor quantità di glucosio, i neuroni hanno a disposizione poco carburante e cominciano a fare errori o comunque non sono più in grado di processare rapidamente le informazioni”.
 
Lo studio appena pubblicato ha preso in esame i dati relativi a 287 soggetti, di età compresa tra i 56 e gli 89 anni,  partecipanti alla Alzheimer's Disease Neuroimaging Initiative, una ricerca mirata a determinare se la risonanza magnetica e la PET insieme ad una serie di biomarcatori possano essere d’aiuto nel misurare la progressione delle alterazioni cognitive e dell’Alzheimer, valutate somministrando una serie di test neuropsicologici volti a ‘misurare’ le funzioni cognitive.
 
Maria Rita Montebelli

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