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Mercoledì 28 DICEMBRE 2016
I medici, gli infermieri e quella ‘moda’ di alzare i muri



Gentile direttore,
leggendo la lettera inviatale dalla presidente regionale Snami Emilia Romagna mi sembra giusto porle alcune considerazioni di massima. Credo che sia vero quanto la Presidente afferma: “I medici non hanno paura degli infermieri”. E’ vero, senz’altro, nel senso che la paura, evidentemente presente, parrebbe essere rivolta più che nei confronti degli infermieri verso una specie di batterio multi resistente che sembra avere infettato la tranquillità e la salute della classe medica.
 
Una paura nel sentirsi non adeguati a governare e a vivere un cambiamento che, invece di vederli protagonisti - come tutti li vorremmo vedere - in un ruolo di leadership verso di esso e di elevazione armonica di competenze per tutte le professioni sanitarie (non escludendo proprio quella medica), li pone in una situazione arroccata, immobile, nell’inutile e a tratti grottesco tentativo di mantenere uno status quo che ormai è definitivamente e fortunatamente superato dagli eventi e dalla storia.
 
L’Europa ed il mondo intero sono andati, e da anni, in una direzione ben diversa da quella che indica la Presidente che, probabilmente, è stata troppo impegnata a guardare nel suo salotto scordandosi di dare un’occhiata fuori dalla finestra per poter vedere il vento di cambiamento che arrivava verso il suo giardino di casa. Ecco che allora si ritornano ad evocare i limiti ed i perimetri delle professioni e ad alzare muri - che tanto di moda vanno in questo periodo - invocando la diversa scolarità tra professionisti.
 
Cerchiamo allora di esplodere quanto si afferma: La laurea in medicina e chirurgia ha una durata doppia rispetto al primo livello, triennale, infermieristico. Entrambi i titoli abilitano all’esercizio delle rispettive professioni, dopo un esame specifico, ma nessuno dei due da nozioni esaustive di management in ambito sanitario. Per il medico si apre poi la porta della specializzazione, che è praticamente sempre di carattere clinico - come è giusto e normale che sia - e di eventuali master di secondo livello anche a carattere gestionale che comunque pochissimi, tra i direttori di struttura, conseguono. Per gli infermieri, accanto ai master clinici o di coordinamento, annuali, si apre la porta della laurea magistrale - prettamente gestionale - che porta la scolarità a cinque anni più quelli dei master che possono essere, e spesso sono, più di uno.
 
Ecco allora che alla fine di un ciclo di studi si possono avere infermieri, e ve ne sono molti, che abbiano conseguito, accanto al titolo di primo livello, la laurea magistrale e uno o più master gestionali e clinici. Si hanno, quindi, infermieri che possono aver conseguito titoli post base che contano fino a tre anni di studi prettamente gestionali (Laurea Magistrale + Master di I livello in coordinamento, ad esempio.). Rimetto a lei, Direttore, e a quella dei suoi lettori, la valutazione su chi in ultima analisi abbia più strumenti, anche teorici, per gestire una organizzazione.
 
Questo porta a voler spiazzare il medico dall’area gestionale? Assolutamente no. Non si può però neppure sostenere con eccessiva leggerezza quanto afferma la Presidente Snami, la quale riporta tutto ad un problema di annualità scolari sorvolando però su quelli che sono i contenuti di tali corsi di studi. In poche parole, Direttore, l’essere un ottimo chirurgo non porta, per una sorta di investitura Divina, ad essere anche un bravo manager. Non è un problema di “arrembaggi”, come si vorrebbe far credere, ma di crescita di competenze e di professionalità che devono essere riconosciute. Se vogliamo fare un servizio ai cittadini, che anche la Presidente giustamente richiama, dobbiamo crescere tutti e insieme senza strumentalizzazioni corporativistiche.
 
La modalità unilaterale e non condivisa, neppure al proprio interno visti i recenti fatti del 118 romagnolo, appare essere, al momento, quella intrapresa da certe aree mediche. Non resta che sperare che fazioni più illuminate e progressiste prendano finalmente la leadership, in primis culturale, di un’area medica che a tratti appare confusa e timorosa.
 
La Presidente richiama il metodo scientifico. Credo che quanto si cerca di fare sia proprio questo. Ma, le chiedo, si è mai visto in un laboratorio fare esperimenti con qualcuno che ti spegne sempre e comunque il fuoco sotto gli alambicchi? Sul fatto poi che il nostro sistema sanitario sia tra i migliori al mondo non vi è alcun dubbio. Lo è, non lo si scordi però, anche e soprattutto per la professionalità e l’abnegazione di più di quattrocentomila infermieri che operano in organizzazioni sotto dimensionate numericamente, mal retribuiti, e quasi sempre deprofessionalizzati.
 
Qualche dubbio invece assale chi le scrive alla affermazione che il nostro modello sanitario spenderebbe pochissimo in rapporto ai risultati che ottiene. Bisogna vedere di che modelli si parla. Ce ne sono alcuni virtuosi, senz’altro, come alcuni che andrebbero cancellati oggi stesso, insieme a chi li gestisce.
 
Anche qui la generalizzazione è davvero fuori luogo. Non resta a questo punto che respingere la domanda al mittente: Chi ha interesse a mantenere lo status quo così pervicacemente ed in maniera così unilaterale e non condivisa? e soprattutto, per proteggere l’interesse di chi? Siamo proprio certi che sia quello del paziente?
 
Roberto Romano
Consigliere IPASVI Firenze

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