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Lunedì 13 FEBBRAIO 2017
In sanità ancora poco rispetto dei turni di riposo

Il caso dell’infermiere di Ancona a rischio sanzioni riporta in evidenza la questione dell’orario di lavoro nel Ssn. Bisogna chiedersi se una organizzazione del lavoro che preveda un turno al mattino di 6.30 ore, un turno di reperibilità di 12 ore la notte e quindi un turno di servizio ordinario nel pomeriggio successivo sia legittimo o meno

La contestazione fatta ad un infermiere da parte dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Ancona su presunte inadempienze di disposizioni di servizio, denuncia la confusione esistente in una materia che interessa non solo l’organizzazione dei servizi ospedalieri ma soprattutto la loro sicurezza per gli utenti ed evidenzia come sia necessario un accordo contrattuale che recepisca con chiarezza la normativa europea vigente dal lontano 1993.
 
Il fatto contestato dall’azienda di Ancona riguarda il diritto al riposo e il rapporto con la reperibilità e il lavoro notturno. L’infermiere professionale, per quanto riportato dai media, dopo aver espletato un turno regolare di servizio al mattino di 6,30 ore, era in pronta disponibilità nel turno notturno ed è stato richiamato in sala operatoriaper una urgenza dalla mezzanotte sino alle ore 8 del giorno seguente. In definitiva ha lavorato 14.30 ore su 24. Lo stesso avrebbe dovuto, per disposizione ordinaria, prendere nuovamente servizio per il turno pomeridiano dalle ore 13.30 fino alle 20.00.
 
Bisogna chiedersi se una organizzazione del lavoro che preveda un turno al mattino di 6.30 ore, un turno di reperibilità di 12 ore la notte e quindi un turno di servizio ordinario nel pomeriggio successivo sia legittimo o meno.
 
Ricordiamo che dal 25 novembre 2015 ai sensi della Legge 161/2014 art. 14, sono abrogati il comma 13 dell'articolo 41 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e il comma 6-bis dell'articolo 17 del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 con i quali si era cercato di escludere medici ed infermieri dalle tutele sui riposi previsti dalla normativa europea. .
 
Nell’articolo 7 del D.Lgs 66/2003, che recepisce la normativa europea in materia di organizzazione del lavoro, sono introdotte due deroghe alla consecutività e continuità del riposo statuita dall’articolo 3 della Direttiva europea 2003/88/Ce. La prima è relativa ai lavori frazionati, la seconda ai lavori caratterizzati da regimi di reperibilità, introdotta dalla Legge 133/2008 (articolo 41, comma 4). Non penso che la prima deroga interessi il mondo della sanità.
 
Per quanto attiene le attività frazionate, la direttiva europea si riferisce in particolare al personale addetto alle attività di pulizia (art. 17, par. 4, lett. b, direttiva 2003/88/Ce). La previsione interna è chiara nel consentire il frazionamento del riposo solo ove il frazionamento della prestazione lavorativa sia dovuto alle caratteristiche dell’attività svolta, cioè in presenza di specifiche ragioni intrinseche o strutturali della medesima attività, che lo rendano necessario (per esempio il lavoro nel settore della ristorazione).
 
Resta dunque la possibilità del frazionamento del riposo in caso di ricorso a regimi di reperibilità e c’è da chiedersi se ciò sia coerente con i contenuti della direttiva europea.
Preliminarmente, è bene precisare che, ai fini dell’attuazione della direttiva e stante la giurisprudenza della Corte di giustizia europea (vedi in particole le sentenze “Jaeger” e “Simap”), la fase della reperibilità che deve essere considerata ai fini del calcolo del riposo è solo quella cosiddetta “attiva”, cioè la fase durante la quale il lavoratore è concretamente chiamato ad intervenire, recandosi sul luogo indicato dal datore di lavoro per prestare la propria opera, e non anche la fase di attesa presso il proprio domicilio o presso altro luogo scelto dal lavoratore stesso, cosiddetta reperibilità “passiva”, durante la quale, secondo la Corte, il lavoratore può essere considerato in riposo, poiché è in grado di scegliere il luogo dove soggiornare e le attività da svolgere durante le attese, con la sola obbligazione di raggiungere in tempi prestabiliti il luogo di lavoro in caso di chiamata.
 
Tra le attività per le quali la direttiva consente deroghe (in genere riferite alla durata, ma, in ipotesi, anche alla consecutività del riposo) l’art. 17, par. 3, lett. c, i, elenca alcune attività relative alla sanità: “attività caratterizzate dalla necessità di assicurare la continuità del servizio o della produzione, in particolare, quando si tratta: i) di servizi relativi all'accettazione, al trattamento e/o alle cure prestati da ospedali o stabilimenti analoghi, comprese le attività dei medici in formazione, da case di riposo e da carceri”.
 
La Legge 161/2014, all’articolo 14 comma 3, demanda ai contratti collettivi nazionali di lavoro del comparto sanità la disciplina delle deroghe alle disposizioni in materia di riposo giornaliero del personale del Servizio sanitario nazionale, prevedendo altresì equivalenti periodi di riposo compensativo, immediatamente successivi al periodo di lavoro da compensare.
 
Con la sentenza “Jaeger” del settembre 2003 la Corte di giustizia europea aveva stabilito alcuni indirizzi inderogabili:
· Il “periodo di riposo” è una nozione di diritto comunitario che non può essere interpretata in funzione delle prescrizioni delle varie normative degli Stati membri.
· Il diritto dei lavoratori al riconoscimento di periodi di riposo non può essere subordinato dagli Stati membri a qualsivoglia condizione, poiché esso deriva direttamente dalle disposizioni della direttiva.
 
Inoltre, la giurisprudenza comunitaria ha riconosciuto carattere eccezionale alle deroghe previste dall’art. 17 della direttiva 1993/104/Ce (ora artt. 17-19, 2003/88/Ce), stabilendo che esse “devono essere interpretate in modo che la loro portata sia limitata a quanto strettamente necessario alla tutela degli interessi che tali deroghe permettono di proteggere”.
 
Dopo la deroga il lavoratore ha in ogni caso diritto a periodi equivalenti di riposo compensativo.
Tali periodi devono sottrarre il lavoratore ad ogni obbligo nei confronti del datore, così da consentirgli di “dedicarsi liberamente e senza interruzioni ai suoi propri interessi al fine di neutralizzare gli effetti del lavoro sulla sicurezza e la salute dell’interessato”.
 
I periodi equivalenti devono essere costituiti da un numero di ore consecutive corrispondenti alla riduzione del riposo praticata e devono essere collocati immediatamente a ridosso del periodo di lavoro che intendono compensare, “al fine di evitare uno stato di fatica o di sovraccarico del lavoratore dovuti all’accumulo di periodi di lavoro consecutivi”.
 
E’ del tutto evidente che l’organizzazione del lavoro posta in essere ad Ancona rischia strutturalmente di limitare la fruizione di un riposo continuativo a cui tutti i lavoratori cittadini di Stati aderenti all’Unione europea hanno diritto.
 
L’interpretazione del Ministero del Lavoro per cui durante la reperibilità la chiamata in servizio “sospende” il riposo e non lo “interrompe” ha una sua giustificazione giuridica solo nella legislazione italiana. In definitiva secondo il Ministero del Lavoro, al termine della prestazione lavorativa resa in regime di reperibilità, non si dovrà riconoscere un altro periodo completo di riposo, bensì un numero di ore che, sommate a quelle fruite precedentemente alla chiamata, consentano il completamento delle undici ore di riposo complessivo.
 
Bisognerebbe però chiedersi se la deroga alla continuità e consecutività del riposo minimo con i regimi di reperibilità corrisponda allo spirito della direttiva europea. In una recente sentenza della Corte di giustizia europea (C189/14 del 23 dicembre 2015) viene ribadita l’importanza del riposo adeguato che deve essere regolare, lungo e continuo e non condizionato da ritmi irregolari di lavoro (punto 9 della sentenza) nonché il valore della continuità e della consecutività del riposo minimo (punti 4 e 48 della sentenza). Il riposo interrotto dalla reperibilità corrisponde a queste definizioni? La previsione appare lontana dalle premesse della direttiva europea 2003/88/Ce, che contiene concetti fondamentali e considerati irrinunciabili nelle sentenze della Corte di giustizia:
 
Articolo 2, punto 9 – Riposo adeguato: “Il fatto che i lavoratori dispongano di periodi di riposo regolari, la cui durata è espressa in unità di tempo, e sufficientemente lunghi e continui per evitare che essi, a causa della stanchezza, della fatica o di altri fattori che perturbano la organizzazione del lavoro, causino lesioni a se stessi, ad altri lavoratori o a terzi o danneggino la loro salute a breve o a lungo termine”.
 
La questione è molto spinosa e sarebbe auspicabile uno specifico pronunciamento della Corte di giustizia europea relativamente alle problematiche della reperibilità “attiva” e dei meccanismi di compensazione del mancato riposo, in particolare quando ne sia lesa la consecutività. E’ evidente che per risolvere il complesso dei problemi legati alla reperibilità, la via più breve è rappresentata dalla contrattazione collettiva. A mio parere, si potrebbero introdurre alcuni elementi di tutela. Innanzitutto, non si dovrebbe prevedere una reperibilità per il professionista dopo un servizio di 12 ore continuative (in genere di guardia).
 
Poi, prendendo a riferimento la definizione di lavoro notturno del CCNL integrativo 10 febbraio 2004, articolo 7, e quella di periodo notturno e lavoratore notturno contenuta nel D.lgs. 66/2003, nel caso il professionista superi le tre ore di servizio nel periodo 22,00-6,00 (anche 23,00 – 07,00 o 24,00 – 08,00), comprendendo anche il tempo di viaggio, si dovrebbe assegnare un turno di riposo completo. Solo in caso di chiamate brevi potrebbe essere sufficiente garantire, ove necessario, un numero di ore compensative del mancato riposo poste immediatamente dopo il periodo di reperibilità.
 
Sarebbe, quindi, opportuno non inserire nei turni di servizio diurno successivi il personale che abbia effettuato la reperibilità notturna. E’ evidente che in mancanza di un accordo soddisfacente con la parte datoriale, l’unica via rimarrebbe un pronunciamento specifico della Corte di giustizia europea sulla possibilità di frammentare il riposo durante regimi di reperibilità e sugli eventuali meccanismi di compensazione.
 
A questo punto è auspicabile che il caso di Ancona venga portato all’attenzione della Corte di giustizia europea rivolgendosi alla magistratura italiana competente.
 
La verità è che in tutti questi anni di tagli lineari, di blocco del turn over per i piani di rientro, di pensionamenti e gravidanze non sostituite, di svilimento dei contenuti professionali attraverso il taglio delle strutture operative e la precarizzazione violenta del lavoro medico e infermieristico, il SSN è stato tenuto in piedi grazie allo spirito di sacrificio e il senso di responsabilità dei suoi operatori che si sono fatti carico di condizioni di lavoro gravose e rischiose svolgendo una mole di ore aggiuntive impressionante, che mai verranno retribuite o recuperate.
 
Se diciamo che ogni operatore ha lavorato e lavora tuttora mediamente per 13 se non 14 mesi all’anno non andiamo lontano dalla verità. In tempi in cui molti esperti e decisori politici amano parlare, spesso a sproposito, di sprechi e di inappropriatezza in sanità, nessuno ha mai acceso un faro su questi enormi risparmi che le Regioni hanno ottenuto favorendo e sfruttando l’inappropriatezza e l’illegittimità organizzativa.
 
Che al danno, anche in termini di salute, dei mancati riposi e del lavoro oltre i limiti stabiliti dalle norme, si aggiunga la beffa dei procedimenti disciplinari fondati sul nulla è francamente insopportabile.
 
Carlo Palermo
Vice Segretario Nazionale Vicario Anaao Assomed

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