quotidianosanità.it

stampa | chiudi


Sabato 25 FEBBRAIO 2017
Salvare gli psicologi penitenziari



Gentile Direttore,
mi rivolgo alla sua testata per sollecitare l’attenzione di decisori politici e operatori dell’informazione sulla precaria e discriminata condizione di un’importante parte della comunità professionale, che opera in un complesso ambito lavorativo: gli psicologi penitenziari, professionisti esperti dotati di una preziosa competenza specialistica e di massima rilevanza sociale. Con l’attività che svolgono contribuiscono fattivamente al benessere della cittadinanza nelle sue espressioni più problematiche e deboli e, al contempo, alla solidità delle Istituzioni stesse, nel rispetto dei principi costituzionali.
 
Sono, però, in pochi a sapere che questa categoria è attualmente disciplinata da una legislazione che ne differenzia lo status giuridico in modo del tutto irragionevole e arbitrario. Se infatti una parte di essa, impegnata in servizio di trattamento ai detenuti tossicodipendenti è transitata con il ruolo sanitario al S.S.N. e sottoposta alle direttive del ministero della Salute, l’altra parte significativa degli psicologi penitenziari (stesse funzioni e medesime qualifiche, agite nel servizio di Osservazione e Trattamento rivolto al resto della popolazione detenuta) è invece rimasta, deprivata del riconoscimento del ruolo sanitario, al Ministero della Giustizia, come operatore dell’area educativa.

Questi professionisti, inoltre, già colpiti originariamente da una disciplina contrattuale discriminatoria (frutto di una convenzione atipica risalente al 1978, annualmente rinnovata) e da successivi interventi normativi di discutibile applicazione (si veda ad esempio il D.P.C.M. dell’1.04.2008, a giudizio non solo di chi scrive incompatibile con la vigente normativa europea), con l’approvazione della circolare D.A.P. n. 3465/6095, emessa nel 2013, hanno ricevuto un ultimo schiaffo: una vera e propria “bomba a orologeria”, pronta a esplodere nelle loro mani.

La misura in questione, infatti, messa in atto per evitare azioni giudiziarie proposte dagli psicologi dinanzi al Giudice del Lavoro, ha stabilito in quattro anni la durata massima dell’incarico di questi operatori senza prevedere alcuna forma – nemmeno la più elementare – di compensazione.

Cosa implica tutto questo? E’ piuttosto evidente. Nell’anno 2017, molti professionisti operativi nelle carceri, a “coronamento” di un percorso professionale flagellato da una cronica precarietà e da un rapporto di negata subordinazione, si vedranno imposta la cessazione definitiva e inappellabile del proprio incarico. Tale scelta, in spregio alla dignità e alla legittimità della professione, non colpirà solo la progettualità lavorativa delle nuove generazioni di professionisti desiderosi di esercitare in tale ambito ma, evidentemente, produrrà inefficienze e disservizi, privando le persone detenute della indispensabile continuità terapeutico-assistenziale.
 
In quanto rappresentante della comunità professionale e dei tanti colleghi che operano in un contesto peculiare e difficile come quello penitenziario, sento l’obbligo di sollecitare l’assunzione di provvedimenti che restituiscano agli interessati, una volta per tutte, onorabilità, certezze occupazionali e riconoscimento economico. Innanzitutto, attraverso il blocco / superamento della circolare sopra menzionata. In secondo luogo, con la revisione del regime di precariato lavorativo, al fine di permettere anche agli psicologi penitenziari di giungere alla soglia dei 70 anni, nel pieno rispetto dei loro titoli e della maturata esperienza.
 
Credo che tale attenzione sia assolutamente dovuta a figure dotate di grande professionalità ed essenziali alla piena realizzazione di quegli obiettivi di recupero e riabilitazione che caratterizzano il nostro sistema penitenziario.
 
Nicola Piccinini
Presidente dell’Ordine degli Psicologi del Lazio 

© RIPRODUZIONE RISERVATA