quotidianosanità.it

stampa | chiudi


Sabato 15 APRILE 2017
Intramoenia, appropriatezza e liste d’attesa. Cortocircuito o occasione per fare un po’ di chiarezza?



Gentile Direttore,
ognuno può pensarla come crede sull’attività libero professionale intramuraria, anche all’interno del mondo dei medici le opinioni sono variegate, e il dibattito intellettuale fortunatamente non manca, spesso è costruttivo e deve generare riflessioni e progressi più che ritorni al passato o fughe in avanti. Come sempre, però, sui  temi caldi dell’assistenza sanitaria prevalgono, al posto della sostanza, le semplificazioni più appiattite di realtà complesse e le vulgate più comprensibili dal grande pubblico, che finiscono sempre col produrre ingiustificate levate di scudi oppure altrettanto ingiustificate edificazioni di ghigliottine.
 
Ma bisogna guardare alla realtà e ai dati di fatto prima di fare affermazioni ardite.
 
Sull’incidenza minimale nazionale del fenomeno rispetto all’assistenza pubblica ha già detto tutto il collega Palermo dell’ANAAO e quindi non torno sull’argomento specifico.             
 
Sulla gestione opportunistica delle liste di attesa nella realtà del Paese, che attirerebbe pazienti e cittadini verso la libera professione,  e non dubito che qua e là il fenomeno sia realisticamente da considerare,  dovrebbe essere prima dimostrato caso per caso e poi perseguito con severità dalla legge, giacché è un reato.
 
L'accesso dei NAS o della Finanza a sanzionare tali eventuali comportamenti indegni dell'onore della professione medica non potrebbe che avere l'applauso di qualsiasi sindacato e di qualsiasi professionista serio ed eticamente orientato alla difesa della professione.
 
Si preferisce invece, secondo la moda corrente, ingenerare dei sospetti indiscriminati e gettare fango su un’intera categoria.
 
Non si comprende però perché il ricorso alla libera professione, determinato in questi casi non da una libera scelta come prescrive la norma, ma da un ricatto, cioè da una percezione realistica delle attese come difficoltà di accesso al servizio pubblico, finanziato con le tasse da ciascuno, dovrebbe produrre un flusso rivolto solo a chi ha un rapporto esclusivo con il SSN ed esercita la libera professione intramuraria con profitti normalmente del tutto residuali. 
 
E non anche verso chi, uscito dal sistema volontariamente pur restandone dipendente, con quel che ne consegue in termini di prestigio determinato dalla appartenenza anche a strutture pubbliche di eccellenza, esercita legittimamente la libera professione extramuraria, con meritato successo, in case di cura e istituti privati.
 
Né vale a granché argomentare che i “migliori” uscirebbero da sistema, è ormai cognizione comune che la cultura dei “migliori” sia solo un retaggio culturale del passato, utile sostanzialmente al mercato della professione piuttosto che alla qualità delle cure.
 
È infatti ormai assodato che sono le migliori organizzazioni a garantire la migliore qualità delle cure, la migliore preparazione e la specializzazione di qualità dei professionisti e i migliori esiti misurabili, piuttosto che le prestazioni mirabolanti dei “solisti”.
 
Peraltro, da quando la legge nuovamente lo consente, molti di quelli che sono ritenuti i “migliori”, preposti spesso alla direzione di reparti, e quindi alla organizzazione della erogazione dei servizi e alla gestione delle liste di attesa, sono già "andati via", hanno già scelto di mettersi sul mercato libero, ritenendo inadeguato alla loro posizione lo stipendio pubblico e insufficiente l’integrazione dell’attività intramuraria, lasciando il rapporto esclusivo e abbandonando l’idea di “sistema” che sostiene la costruzione di percorsi protetti (PDTA) che davvero proteggano il cammino dei pazienti attraverso le cure. E il fervore con il quale talvolta lottano strenuamente per rimanere al "comando" fino al raggiungimento dei 70 anni non sembra foriero di grandi volontà di abbandonare il Sistema.
 
È il percorso clinico protetto e organizzato che in qualche modo è il concorrente principale della cultura luminaristica, alla quale il costume italiano è ancora legato e che è quella che determina i maggiori profitti finanziari a singoli e holding sanitario-finanziarie.
 
Ben 12 mozioni in parlamento bipartisan (Tripartisan? Quadripartisan?), mettendo in relazione le liste di attesa con la libera professione intramuraria producono una criminalizzazione di un’intera categoria che ha scelto il servizio pubblico, dipingendola come un’accolita di malviventi dediti alla truffa legalizzata. Bel successo, complimenti.
 
Solo qualche tempo fa un efficace provvedimento che davvero colpiva al cuore la formazione di liste di attesa per esami diagnostici, il cosiddetto “decreto appropriatezza”, che molti ricorderanno perché metteva un  freno al vero problema della diagnostica, ovvero la pletora di esami del tutto inutili, veniva affondato da eguali e contrarie bordate populiste (qui ci vuole davvero) che attraversavano l’intero arco dell’opinionismo più militante e caciarone.
 
All'elaborazione  di quel decreto avevano collaborato Società Scientifiche, per la Radiologia la Società Italiana di Radiologia Medica, e l’Accademia, ma sul fuoco che lo ha messo al rogo soffiavano tutti, gridando ai "tagli", anche perché avrebbe messo in pericolo miliardi di profitti.
 
L’attuale provvedimento alla ribalta è quello del Lazio. Spiega bene il segretario regionale FIMMG Pierluigi Bartoletti, nel suo intervento sul giornale, che la chiave di volta del progetto sta nella creazione dei percorsi (PDTA) lungo i quali si posizionano le prestazioni.         
Questo dovrebbe, si evince, nelle intenzioni dell’estensore del progetto, cancellare o perlomeno modificare la visione della medicina come esamificio, cioè come una serie di prestazioni da erogare invece che un percorso di cura da garantire.
 
Quindi, in verità, nonostante quello che contraddittoriamente è descritto e richiesto negli allegati in termini di incrementi dei numeri di prestazioni, non ci dovrebbe essere bisogno di più esami o più visite "ordinate" indiscriminatamente, di aperture notturne e di altri provvedimenti tesi ad incrementare una massa di prestazioni già esuberante le necessità cliniche reali, per non parlare dell'incremento di irradiazione alla popolazione, ma di razionalizzarne al massimo l’erogazione, limitandola al solo necessario, in particolare solo a quanto programmato nell'alveo di un percorso governato dalla filiera clinica e dalle evidenze scientifiche.
 
Non si trova però nel provvedimento la parola “appropriatezza”, è stabilito un piano d’incremento del “cosa” e del "quanto" senza intervenire, apparentemente, sul “come” e sul “perché”, se non, lodevolmente, come ricorda Bartoletti, nella maggiore  proattività dei medici di famiglia, ma senza una reale integrazione con gli specialisti erogatori ma solo con gli specialisti prescrittori. 
 
Viene da chiedersi se questi milioni stanziati, invece che per un intervento “one shot”, destinato in parte anche a finire fuori dal Sistema, non potrebbero essere usati invece per finanziare ulteriormente la politica, già in atto in quella regione, di revisione e ricostruzione delle asfittiche dotazioni organiche delle strutture ospedaliere  e del territorio.
 
Questo potrebbe, oltre che incrementare, quanto serve e non indiscriminatamente, il numero di prestazioni, incrementare stabilmente la possibilità dei professionisti di interagire fra loro e con i pazienti, per decidere insieme il meglio per le cure e aumentare la qualità tecnico-professionale multidisciplinare dell'assistenza, invece di costringerli a testa bassa a produrre prestazioni in gran parte non necessarie, stanchi e stressati da turni massacranti e da sedute piene fino all'inverosimile, come dei novelli Charlie Chaplin di "Tempi Moderni", come accade ora.
 
È in atto presso il Ministero un importante processo di determinazione degli standard del fabbisogno per le dotazioni organiche delle strutture pubbliche, elemento che, se elaborato con saggezza e condotto in porto, è destinato a rimanere storico e a produrre un radicale cambiamento nella cultura dell'assistenza pubblica.
 
La sfida attuale è ripristinare la competitività del Sistema Sanitario Nazionale rispetto alle forti spinte verso la cosiddetta integrativa, il cui effetto finale non può essere che la disgregazione della rete di protezione necessaria per garantire la difesa della Salute.
 
Stefano Canitano
Vicesegretario nazionale FASSID area SNR

© RIPRODUZIONE RISERVATA