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Giovedì 08 SETTEMBRE 2011
Medici di famiglia. Bolognesi (Pd): “Convenzione superata. Remunerazione pesata per funzione assistenziale”

Destinare una quota dei medici di famiglia ad assistere esclusivamente una fascia di popolazione, ad esempio quella non autosufficiente. E poi remunerarli per funzioni assistenziali da pesare differentemente e non più per quota capitaria indistinta, come avviene oggi. È la proposta lanciata da Marida Bolognesi, del Forum-Welfare Sanità del PD e tra le promotrici della Festa Democratica  della Salute in corso ad Empoli, che abbiamo intervistato all'indomani di un dibattito dedicato proprio al riordino della medicina territoriale.

Dottoressa Bolognesi, quali sono gli spunti più interessanti emersi nel corso dell’incontro organizzato ieri alla Festa Democratica sulla Salute?
Quello dell’integrazione ospedale-territorio è un tema centrale per un sistema sanitario. All’incontro di ieri ha partecipato anche Giuseppe Fioroni, responsabile Welfare del PD, ed Enrico Rossi, presidente della Toscana, una delle Regioni capofila quando si tratta di sperimentare nuove organizzazioni di assistenza.
Per affrontare il tema a 360° abbiamo inoltre invitato Gavino Maciocco, del Dipartimento di Salute pubblica dell’Università di Firenze, ed Ezio Degli Esposti, professore di Farmacologia all’Università di Ferrara, che ha sollevato una questione molto importante, quella che ha definito “la terra di nessuno” e che consiste nell’assenza di informazioni cliniche su un cittadino fino a quanto questo non si rivolge al Ssn per un problema acuto.
Mi spiego: accade che un medico di famiglia veda per la prima volta il suo assistito quando ha 40 anni, in occasione dell’insorgere di un problema di salute. Ma in certi casi si tratta di pazienti che fin da bambini presentavano una predisposizione a quel disturbo. Avere tutte le informazioni su un assistito fin dalla prima infanzia, quindi, potrebbe rivelarsi una strategia vincente per prevenire molte malattie o curarle tempestivamente. Il problema è che oggi quella fase di vita tra la fine dell’età pediatrica e l’età adulta resta dal punto di vista assistenziale “la terra di nessuno”..
Una questione che è ieri stata affrontata anche con un rappresentante dei medici di famiglia (Vittorio Boscherini, Fimmg Toscana) e degli infermieri (Danilo Massai, Consiglio nazionale Ispavi), che sono le figure strategiche del territorio.

Strategiche, giusto. Ma gli infermieri hanno davvero un ruolo forte nell’assistenza territoriale oggi?
Dovrebbe essere già forte. La realtà è che se alcune Regioni hanno avviato delle sperimentazioni positive, in molte parti di Italia non è stato invece compiuto questo importante investimento sul personale infermieristico. Un investimento partito con l’istituzione del corso di Laurea e sviluppato poi sotto il profilo organizzativo e manageriale.

Il tema dell’integrazione tra ospedale-territorio è una questione centrale per un sistema sanitario. Tuttavia se ne parla da 30 anni ma con pochi risultati.
Purtroppo è vero. Ma è un progetto che non può e non deve essere abbandonato. Perché i bisogni stanno cambiando, spostandosi sempre di più verso le cronicità e le multipatologie, così come la spesa sanitaria è diventata ormai potenzialmente infinita per via dell’innovazione tecnologica e farmacologica che permette di ottenere grandi risultati di salute ma a costi necessariamente alti. Riorganizzare l’assistenza è essenziale per rispondere in modo appropriato alla domanda di salute e contenere i costi. Integrazione ospedale-territorio e integrazione socio-sanitaria. La soluzione può essere solo questa.

Realizzarlo è sicuramente una questione economica e organizzativa. Ma anche culturale. I medici, gli infermieri, gli altri professionisti sono pronti a lavorare insieme?
Uno dei problemi che ha impedito lo sviluppo di un’assistenza integrata è sicuramente quello culturale. Non solo per la difficoltà delle professioni di abbandonare abitudini radicate, ma anche per la presenza di forti corporativismi. Tuttavia credo che l’avvio di progetti sperimentali, quindi la creazione di spazi comuni e di occasioni di contatto, possa aiutare i professionisti a compiere questo salto culturale.
Inoltre ho posto ai medici di famiglia anche la questione se la convenzione possa essere ancora oggi uno strumento valido.

E crede che lo sia?
Non direi, se la convenzione di oggi è quella che non garantisce la copertura assistenziale 24 ore su 24. Sulla questione ho anche avanzato la proposta di una modifica della convenzione per introdurre la remunerazione per funzioni assistenziali. Mi spiego. Il Ssn oggi paga al medico di famiglia la stessa cifra per una persona non autosufficiente, che ha bisogno di molte prestazioni a domicilio, e per un ragazzo sano, che non ha bisogno di alcuna prestazione. Questo sistema di spesa a budget basato sulla quota capitaria secca mi sembra illogico, perché non tiene conto dei bisogni diversi dei cittadini e dell’impegno diverso che viene richiesto al medico per assistere un anziano o un giovane.
La mia idea è specializzare una parte dei medici di famiglia affinché si facciano carico, ad esempio, della fascia di popolazione più anziana. Magari con un numero di pazienti inferiore, ma garantendo loro l’assistenza di cui hanno bisogno e garantendo al medico il tempo per andare, per esempio, due/tre volte a settimana a domicilio del paziente per inserire una flebo. Una convenzione che preveda, quindi, un rimborso a funzione assistenziale.

Quale funzione spetterebbe invece agli ospedali?
L’alta specialità, ma non solo. Non possono più esistere 10 reparti di cardiologia all’interno di un territorio ristretto. Ed è anche sbagliato pensare che lo specialista curi solo la fase acuta e abbandoni il paziente al momento delle dimissioni. Lo specialista e il medico di famiglia devono lavorare in costante contatto e condividere le informazioni sul paziente attraverso il sistema informatico.
Credo inoltre che sia inevitabile una costante riduzione del numero dei piccoli ospedali e dei servizi all’interno di questi, per realizzare invece centri di alta intensità di cura.
Chiaramente chiudere o ridurre i servizi di un ospedale significa però garantire risposte assistenziali alternative sul territorio.

Questo significa che politica deve aumentare la sua credibilità tra la popolazione, altrimenti continueremo ad assistere alle proteste dei cittadini che, con la chiusura degli ospedali, temono di rimanere senza assistenza. Cosa crede che debba fare una partito per realizzare una politica davvero incisiva su questa integrazione?
Una forza politica che ambisce a governare il Paese deve avere coraggio. Oggi serve più coraggio nei confronti dell’innovazione e delle sfide. Ma il ruolo di un grande partito è anche quello di far capire ai cittadini che possono ricevere un’assistenza migliore attraverso queste riforme. Possono avere un ospedale ad alta specialità a 20 chilometri di distanza e una buona continuità assistenziale sul territorio, invece di una scarsa assistenza ospedaliera a pochi metri e scarsa assistenza territoriale. Ma la fiducia dei cittadini si conquista con i fatti. Occorre presentare progetti reali. Essere in grado di costruire una rete assistenziale veramente efficace e veramente efficiente.

L.C.
 

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