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Venerdì 20 OTTOBRE 2017
Bimbi meno intelligenti dopo l’asilo nido. Il problema è la mancanza di un rapporto 1 a 1 con un adulto. Ma in compenso diminuisce il rischio di diventare obesi da adolescenti. Che fare?

Lo studio presentato oggi al simposio dei pediatri della Simpe. Secondo i ricercatori, per limitare le possibili ripercussioni negative di un servizio necessario alle famiglie con genitori che lavorano occorrerebbe, in particolare, aumentare il numero di educatrici ed educatori nei nidi: nella primissima infanzia, al di sotto dei due anni, per una stimolazione cognitiva adeguata serve infatti un frequente rapporto “uno a uno” con un adulto.

I bimbi che da zero a due anni hanno già frequentato il nido per necessità materne-paterne, all’età di 8-13 anni hanno un quoziente intellettivo più basso di quelli cresciuti da nonni, genitori e baby sitter. Ma anche un rischio minore di sovrappeso e obesità.

A dimostrarlo è uno studio discusso in occasione del IV Forum della Società Italiana Medici Pediatri (SIMPe) e dell’Osservatorio Nazionale sulla salute dell’infanzia e dell’adolescenza (Paidòss), in corso a Bologna. 

Ma il nido precoce  non ha più effetti negativi sull’intelligenza, secondo lo studio nei bimbi che provengono da famiglie svantaggiate, per i quali è invece un’opportunità solo positiva.

Secondo i ricercatori, per limitare le possibili ripercussioni negative di un servizio necessario alle famiglie con genitori che lavorano occorrerebbe, in particolare, aumentare il numero di educatrici ed educatori nei nidi: nella primissima infanzia, al di sotto dei due anni, per una stimolazione cognitiva adeguata serve infatti un frequente rapporto “uno a uno” con un adulto.

L’indagine mostra che nei piccoli accuditi informalmente da un adulto il quoziente intellettivo misurato alcuni anni dopo, fra gli 8 e i 13 anni, è di 5 punti più elevato rispetto a quello dei coetanei che hanno frequentato il nido; diminuisce però in compenso il rischio di ritrovarsi con qualche chilo di troppo durante la preadolescenza.

Lo studio, condotto da Margherita Fort, Andrea Ichino e Giulio Zanella del dipartimento di Scienze Economiche dell’università di Bologna, ha coinvolto circa 500 famiglie che fra il 2001 e il 2005 avevano fatto richiesta di iscrivere il proprio figlio a uno degli asili nido pubblici del Comune di Bologna. I ricercatori hanno raccolto i dati di circa 7000 bimbi ma si sono poi concentrati su quelli che in graduatoria erano immediatamente sopra o sotto la linea di demarcazione indicata dal numero di posti disponibili.

Le differenze statisticamente significative sono due: i piccoli che avevano frequentato il nido fra zero e due anni avevano un minor rischio di obesità, ma anche un QI di 5 punti inferiore a chi era stato accudito da un adulto, che fosse un nonno o una babysitter o gli stessi genitori. Un calo non preoccupante, visto che i piccoli bolognesi sono risultati molto intelligenti: il QI medio è risultato pari a 116, contro un valore di 100 della media nazionale, per cui anche i “meno intelligenti” erano comunque bimbi assai brillanti.

“Le graduatorie vengono stilate tenendo conto di fattori socioeconomici quali la presenza di disabilità, l’assenza di un genitore, lo status lavorativo della madre e del padre e, a parità di questi fattori, il reddito e la ricchezza familiare. Ciò significa che valutare gli ultimi bambini che sono riusciti ad avere un posto nell’asilo e i primi fra gli esclusi implica fare un’analisi di famiglie omogenee per livello sociale – spiega Zanella – Queste famiglie sono state contattate quando i figli avevano dagli 8 ai 13 anni e i bimbi sono stati sottoposti a test per misurare il quoziente intellettivo, a test di personalità e per la valutazione di disturbi comportamentali, oltre alla misurazione dell’indice di massa corporea”. 

“L’effetto sull’obesità – spiega ancora il ricercatore – è legato all’elevata qualità dei servizi nutrizionali scolastici a Bologna, che evidentemente pongono le basi per un’educazione alimentare adeguata che perdura negli anni successivi. Il calo di QI è spiegabile considerando che il nostro campione ha incluso famiglie benestanti, con entrambi i genitori lavoratori e un reddito medio complessivo di 80.000 euro l’anno: i figli di questi genitori sono molto stimolati nell’ambiente domestico e non sono paragonabili ai piccoli primi in graduatoria, che arrivano da contesti sociali svantaggiati. Quando l’ambiente familiare è stimolante, per lo sviluppo cognitivo del bimbo assume molta più importanza l’interazione uno a uno con l’adulto: l’asilo è un luogo di socializzazione quando i bambini sono più grandicelli, a meno di uno o due anni di vita le interazioni sociali con i coetanei presenti al nido sono pressoché nulle e conta invece assai di più la presenza di un adulto che fornisca stimoli”. 

Al tempo al quale le graduatorie utilizzate nello studio si riferiscono (tra il 2001 e il 2005), il rapporto fra adulti e bambini in un nido era di un adulto per quattro piccoli al di sotto di un anno di età e uno ogni sei bimbi dopo l’anno di età: viene perciò ridotta l’intensità dei rapporti uno a uno con l’adulto, benefico nei piccolissimi per migliorarne le capacità cognitive. 

“In bimbi di famiglie in cui gli stimoli sono già molti ‘togliere’ l’attenzione esclusiva del rapporto uno a uno con un adulto di riferimento comporta una riduzione del QI, ma in bimbi che provengono da contesti svantaggiati dove gli stimoli non ci sono l’ingresso al nido ha solo effetti favorevoli perché il piccolo vi trova tutte le sollecitazioni che altrimenti non avrebbe: esiste in altri termini un gradiente socioeconomico per gli effetti cognitivi dell’asilo nido, diversi in base al contesto familiare – conclude Giuseppe Mele, presidente Simpe –. Questi dati, quindi, non dimostrano che l’asilo nido ‘fa male’, ma impongono semmai una riflessione sulla loro organizzazione: perché anche i bimbi di famiglie benestanti possano giovarsene sarebbe opportuno aumentare il numero di educatori e preferire semmai le formule micro-nido, così da portare il più possibile il rapporto fra educatori e bimbi verso uno a uno. Con vantaggi di cui ovviamente beneficerebbero anche i piccoli di contesti socioeconomici più svantaggiati”.

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