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Giovedì 21 DICEMBRE 2017
Ma come fa un medico cattolico a porre obiezione di coscienza contro il malato che soffre e quindi contro il consenso informato?

Vorrei ricordare la lettera apostolica con la quale Papa Francesco ha concluso il Giubileo straordinario della misericordia che racconta quando Gesù davanti all’adultera, la peccatrice, non si è sognato di fare obiezione di coscienza «rimasero soltanto loro due: la misera e la misericordia». E davanti ad un malato sofferente quindi davanti ad un innocente disperato perché mai i medici cattolici non dovrebbero essere misericordiosi?

L’espressione bio-testamento, usata da taluni per indicare la legge appena approvata dal titolo inequivocabile “norme in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento”,è una espressione equivoca e fuorviante. Essa si presta ad essere fraintesa per eutanasia e a dare luogo a incongrue reazioni come l’obiezione di coscienza.
 
La legge, come ho già spiegato (QS 14 febbraio 2017), ha ben altri scopi, l’aspettavamo da tempo, ne avevamo un gran bisogno e pur con le sue aporie la salutiamo con soddisfazione per:
· mettere fine a situazioni  a dir poco tragiche  di inutile disumanità,
· per dare corso ad  una nuova idea di cura.
 
Presupposti e postulati
La legge come si evince dal titolo è in realtà l’insieme di due leggi:
· la prima sul consenso informato,
· la seconda sulle disposizioni anticipate di trattamento.
 
La prima coincide con l’art 1 (11 commi) e funziona:
· quale postulato generale valido per tutti i trattamenti sanitari   quindi quale condizione senza la quale nessun trattamento può essere deciso,
· come presupposto strumentale  necessario perché possa avere luogo la seconda vale a dire le disposizioni anticipate di trattamento.
 
Quindi il consenso informato è interamente rivolto alla medicina e a tutti trattamenti disponibili il che vuol dire che esso è dentro un certo contenitore legislativo (quello sulle dat) ma è come se fosse autonomo e quindi scorporabile perché concepito quale postulato valido in senso generale.
 
Attuazione e applicazione
Ho già spiegato nel precedente articolo sul consenso informato (QS 7 dicembre 2017) le ragioni per cui esso è rimasto sostanzialmente sulla carta.
Temo che il problema per certi versi si riproponga anche con la legge ora approvata. Ma per farvi capire la mia preoccupazione ho bisogno di introdurre una distinzione:
· l’attuazione di  una legge è una questione  quasi di invenzione di una  realtà adeguata al fine di  attuare la norma,
· l’applicazione di una legge è la  messa in opera  della sua attuazione quindi ha a che fare con l’impegno, con i mezzi che servono, con le volontà, con le condizioni di contesto.
 
Una norma, come quella in particolare sul consenso informato (non parlo di dat) non può auto-esplicarsi cioè essere attuata in quanto tale come per magia per cui essa ha bisogno di creare i cambiamenti culturali organizzativi necessari senza i quali essa non si esplicherà rischiando la disconferma.
 
Attenzione: spesso si confonde la disconferma con la disapplicazione:
· con la prima intendo qualcosa di molto simile ad una negazione che ha l’effetto di annullare un progetto,
· con la seconda intendo l’incompiutezza di un progetto che tuttavia sopravvive in qualche modo ma non è formalmente disconfermato.
 
Una legge non è attuata, o è attuata in parte, o attuata male non in ragione delle sue disapplicazioni ma in prima misura in ragione delle sue disconferme le quali in genere sono tutte riconducibili a mancati cambiamenti o innovazioni quindi alle invarianze soprattutto culturali ma non solo con le quali la legge finisce con lo scontrarsi.
 
Il consenso informato sino ad ora è rimasto sulla carta perché ha avuto tanto problemi di disconferme che di disapplicazione.
 
Problemi di armonizzazione normativa
Il fatto che la legge ci proponga il consenso informato non solo in relazione alla dat ma in relazione a tutti i trattamenti medico-sanitari pone subito dei problemi nei confronti delle leggi pre-esistenti nel senso che sorge una questione che si potrebbe definire di armonizzazione delle norme.
 
Due esempi:
· la legge sui vaccini obbligatori,
· la legge sulla responsabilità professionale del medico.
 
La prima ha sottoposto a obbligatorietà, quindi eccependo all’obbligo del consenso informato, anche quei vaccini che producono solo un beneficio individuale (esempio l’antitetanica) ma senza produrre per questo nessuno automatico beneficio collettivo. Per questi vaccini ora che abbiamo la legge sul consenso informato sarebbe coerente revocare l’obbligatorietà ingiustificata e sottoporli al consenso informato come qualsiasi altro trattamento medico-sanitario.
 
Oggi dopo questa nuova legge, non ha più senso riconoscere la libertà del cittadino di interrompere i trattamenti che lo tengono comunque in vita e non riconoscergli la libertà di decidere volontariamente la profilassi di certe malattie non contagiose.
 
La seconda ha scelto il risk management come terreno sul quale prevenire gli eventi avversi facendo il ragionamento “meno eventi avversi meno contenzioso legale”. Scegliendo così la logica della resilienza.
 
In realtà, ammessa la fallibilità della medicina e l’impossibilità di mettere in piedi un sistema sulla sicurezza del malato a costo zero come recita la legge 24, sappiamo che il contenzioso legale nasce, prima di ogni altra cosa, non dagli eventi avversi ma da grossi difetti relazionali e in particolare da una gestione sbagliata del consenso informato. La legge appena approvata dice esplicitamente, tra le altre cose, che il medico deve informare il cittadino sui rischi che comportano i trattamenti, ma se è così mi sembra ragionevole correggere la legge 24 per passare dalla fallimentare logica della resilienza a quella più proficua della corresponsabilizzazione cioè vincolare le prassi mediche all’uso imperativo del consenso informato.
 
Trattamenti e limiti
Con la muova legge sorge un altro problema inedito: oggi tutti i trattamenti sanitari sono fortemente condizionati da logiche economicistiche e proceduraliste (esempio il famoso decreto sull’appropriatezza ma ancor prima l’art 15 della legge 229 sull’obbligo sanzionabile alla appropriatezza) per cui, oggi i trattamenti sono o molto limitati o molto condizionati da questioni extra cliniche. Ma dalla legge 24 in poi a proposito di linee guida i trattamenti sono anche condizionati da un principio di precauzione circa la responsabilità professionale.
 
Non ha alcun senso escludere dal consenso informato i limiti prescrittivi imposti ai medici a parte perché non è giusto scaricare su di loro il dissenso sociale che i limiti suscitano nei cittadini, ma soprattutto perché la nuova legge introduce due principi:
· nessun trattamento sanitario può essere  privo del consenso informato,
· il cittadino ha diritto ad  avere una informazione  completa.
 
Il senso di questi principi è che:
· il consenso informato diventa parte costitutiva del trattamento,
· se la procedura è parte integrante del trattamento, informazione completa, allora bisogna  informare il cittadino sulle procedure o sui limiti che il trattamento specificano e caratterizzano.
 
Vorrei richiamare la vostra attenzione sulla parola usata dalla legge “nessun”. Essa vale:
· come pronome (che sostituisce il nome, indicando, senza nominarlo, ogni trattamento disponibile,
· come aggettivo indefinito e che quindi si riferisce ai trattamenti in genere.
 
Nessunnel modo perentorio usato dalla legge sta a significare:
· in senso negativo “non uno” o “neppure uno”  dei trattamenti può essere escluso dal consenso informato,
· in senso positivo ciascun trattamento è vincolato al consenso informato.
 
Informazione completa
Ancora vorrei sottolineare il significato della parola usata dalla legge “completo” (aggettivo con funzione attributiva e qualificativa) e che vale come informazione fornita di tutti gli elementi necessari e opportuni a garantire una perfetta descrizione del trattamento.
 
Infatti la legge dice che l’informazione sul trattamento deve comprendere oltre i rischi relativi (che abbiamo già menzionato), le possibili alternative ai trattamenti, e le conseguenze di un eventuale rifiuto.
 
Supponiamo che un medico di medicina generale informi il suo malato dei limiti impostagli dalla sua regione su certe prescrizioni o su certi esami diagnostici e supponiamo che il malato rifiuti questi trattamenti condizionati perché convinto che siano inadeguati. Cioè supponiamo di trovarci di fronte ad un malato che rifiuta il paradosso da me definito “dell’appropriatezza inadeguata”, quali sono le alternativi disponibili? Il buon senso suggerirebbe i trattamenti non solo appropriati ma anche adeguati. Quali?
 
La legge sul consenso informato dice che il cittadino non può esigere trattamenti contrari a norme di legge, alla deontologia professionale, e alle buone pratiche cliniche. I limiti imposti ai trattamenti in nome dell’appropriatezza fanno parte delle “norme di legge”? I limiti imposti in nome dell’appropriatezza sono tollerabili dalle norme deontologiche? I limiti giustificati da ragioni di risparmio sono tollerabili dalle buone pratiche cliniche?
 
Se è vero che nessun consenso informato può essere tale se non fornisce una informazione completa e se è vero che una informazione completa per essere tale deve informare il malato sui limiti ai quali sono sottoposti i trattamenti, allora è anche vero che il limite è parte integrante del trattamento.
In sanità i casi che richiedono le disposizioni anticipate di trattamento sono molto meno dei casi comuni sottoposti a trattamenti condizionati o da procedure o da limiti. Il problema vero del consenso informato non sono i primi ma i secondi.
 
Problemi di denominazione
In una legge l’uso delle parole è decisivo a decidere la sua attuazione e quindi la sua applicazione.
 
Relativamente al consenso informato si tratta di trovare i nomi giusti per indicare gli attori di una certa idea di consenso informato, questo rientra in quello che normalmente si chiama “processo di denominazione”.
 
I nomi in una legge come il consenso informato sono importanti perché stabiliscono una relazione di denominazione tra il consenso informato inteso come mezzo e i soggetti che se ne serviranno per esprimersi attraverso di esso.
 
Questo non è banalmente una questione lessicale ma un percorso concettuale. Il nome scelto infatti diventa un designatore in grado di denotare un concetto di cambiamento definito consenso informato.
 
I nomi scelti dalla legge per indicare i soggetti del consenso informato sono di tre tipi:
· persona in genere riferita a facoltà generali (art. 1,art. 4, ecc.),
· minore (persona minore, inabilitata, interdetta) (art. 3),
· paziente (art. 5).
 
Analizzare la frequenza delle parole usate in un testo di legge (crittoanalisi) ci aiuta a comprendere molte cose: l’intenzione di chi usa certe parole e non altre, i significati sottointesi ma non esplicitati, le abitudini lessicali, i limiti culturali di chi le usa, ma soprattutto ci aiuta a capire se il vocabolario del legislatore è adeguato alla società che cambia cioè se esistono tra le parole della legge e i fenomeni sociali ai quali esse si riferiscono delle contraddizioni.
 
Individuare simili contraddizioni serve a comprendere se la legge avrà problemi di attuazione semplicemente perché in genere le contraddizioni non aiutano in nessun modo ad attuare una legge.
 
La frequenza dei nomi usati vede:
· nell’art. 1 quindi quello specifico sul consenso informato prevalere nettamente il nome “paziente” sul nome “persona” (11 su 5) il primo però sempre riferito a situazioni cliniche e il secondo a questioni più generali,
· nell’art. 3 ovviamente solo il concetto di minore,
· nell’art. 5 cioè il cuore della legge quello sulla  pianificazione condivisa delle cura  solo il nome “paziente”.
 
Mi riservo in altra occasione di approfondire i vari rapporti di designazione di questi nomi in relazione ai loro riferimenti, qui mi limito a rilevare che la relazione di denominazione tra paziente e consenso informato soprattutto nelle sue declinazioni cliniche (art. 5) è una plateale contraddizione culturale.
 
Il paziente non c’è più
Se oggi abbiamo questa legge è perché il paziente non c’è più. Continuare a proporre il paziente quale designatore significa svuotare il senso profondo del consenso informato accettando implicitamente di ridurlo di fatto a procedura di autorizzazione per le dat.
 
Un paziente al massimo può sottoscrivere un modulo. Peccato che la legge insista a chiamare paziente chi ti porta continuamente in tribunale, chi ti ha sfiduciato, e perfino chi esasperato dalle disfunzione dei servizi ti mette le mani addosso.
 
Se nella realtà prevale il concetto di paziente c’è il rischio di fare le dat alla solita maniera con la quale fino ad oggi abbiamo gestito il consenso informato quindi ancora una volta riducendo l’etica a legalità, la costruzione del senso a istruzione sul significato, la partecipazione a sola informazione, il malato a malattia ecc. Perdendo così una grande occasione di rinnovamento culturale.
 
Oggi il paziente è un malato
Quale nome avremmo dovuto usare? Per decidere avremmo:
· dovuto fare un semplice ragionamento ontologico alla ricerca di un solo ed unico nome adeguato alla nostra società e al concetto di consenso informato
· superare l’orrore del “minore” (quando la finiremo in medicina di considerare i bambini dei minori sarà sempre troppo tardi),
· superare la genericità del nome di “persona”.
 
Dal punto di vista ontologico il malato è:
· più di una persona,
· una persona, più una malattia.
 
Quindi il massimo di complessità. Una persona è meno di un malato perché non ha la malattia. In un malato c’è la persona ma nella sola persona non c’è il malato.
 
Nella legge personalmente avrei:
· denominato in premessa  il malato quale unico soggetto del consenso informato, precisando che il  malato è, da un punto di vista ontologico, una persona con una malattia,
· avrei dichiarato  il concetto di  paziente  superato perché anacronistico,
· riformato culturalmente  attraverso la parola “malato” l’idea di consenso informato emancipandolo dal suo tradizionale significato legale e strumentale.
 
Cambiando il designatore (paziente/malato) avrei per lo meno dichiarato la volontà da parte del legislatore di mettere mano ad una grande operazione culturale. E invece no. Il legislatore non ci ha pensato. Lui voleva le dat.
 
Questo era il suo obiettivo il resto appare secondario e strumentale. Quando non lo è.
 
Misericordia et misera
Voi direte che i miei ragionamenti sul nome da dare al soggetto del consenso informato sono speculazioni e aria fritta ma vi sbagliate. Volete una prova?
Ho letto dei medici cattolici che si preparano a fare obiezione di coscienza.
 
Questo sì che è vero paternalismo per il quale bisogna per forza essere pazienti cioè solo corpi malati quindi solo malattia. Ma davanti ad una ontologia della sofferenza che non è più fatta solo da natura (il paziente) ma è fatta anche dalla persona (il malato) come fa un medico cattolico a fare obiezione di coscienza? Cioè come si fa ad obiettare contro il malato che soffre e quindi contro il consenso informato? Cioè come fa un medico cattolico a non avere misericordia per un malato che soffre e che non ha nessuna speranza non solo di guarire ma di non soffrire?
 
Vorrei ricordare la lettera apostolica con la quale Papa Francesco ha concluso il Gubileo straordinario della misericordia che racconta quando Gesù davanti all’adultera, la peccatrice, non si è sognato di fare obiezione di coscienza «rimasero soltanto loro due: la misera e la misericordia».
 
E davanti ad un malato sofferente quindi davanti ad un innocente disperato perché mai i medici cattolici non dovrebbero essere misericordiosi?
 
Per loro meglio il “paziente” perché se c’è solo un oggetto malato, che, come la sua malattia, appartiene alla natura, allora per un medico cattolico diventa un dovere cristiano non essere misericordioso e difendere il valore della vita biologica come un valore inviolabile perché di proprietà divina. Talmente inviolabile da dichiarare davvero fuori del tempo che natura e morale sono la stessa cosa.
 
Ma se il malato ontologicamente non è solo natura come farà il medico cattolico a dichiarare che la morale e la natura sono la stessa cosa?
Insomma usare la parola paziente in una legge sul consenso informato è davvero un grande errore.
 
Si dirà che paziente quale denominazione legale è una denominazioni consacrate da usi e da consuetudini e io rispondo che è proprio questo il problema perché essa anziché aprire a cambiamenti culturali continuerà a designare usi e consuetudini giustificando per certuni spietate obiezioni alla misericordia.
 
Il tempo della cura
Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura” (art. 1, comma 8).
 
E una sintesi dell’art. 20 del codice deontologico dei medici 2014, ma la sintesi, va ricordato, si riferisce alla relazione di cura (art. 20) rispetto alla quale la comunicazione è solo una parte. Dire che il “tempo della comunicazione” è tempo di cura vale come dire che il” tempo della relazione è tempo di cura”.
 
Ma questa è una sciocchezza perché significa ammettere l’esistenza di due tempi: quello della cura e quella della relazione. In realtà la relazione è cura e la cura è relazione quindi i suoi tempi sono quelli di un unico processo indivisibile. Non esiste il tempo della comunicazione esiste una idea di cura nella quale dice la legge la comunicazione è parte integrante del trattamento.
 
Ma aporie a parte quando si parla di “tempo della cura” si parla di tre cose molto prosaiche:
· gli orari di lavoro,
· gli organigrammi,
· le organizzazioni del lavoro.
 
La legge sul consenso informato/dat si chiude con l’art. 7 “clausola di invarianza finanziaria”: “le amministrazioni pubbliche interessate provvedono all’attuazione delle disposizioni della presente legge nell’ambito delle risorse umane strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e comunque senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”.
 
Questo articolo fa cadere le braccia per la sua ottusità politica nel senso di ignorare che le prassi mediche dipendono da cose sovrastrutturali come le conoscenze e da cose strutturali come le organizzazioni e le risorse Ora con il consenso informato si vogliono cambiare le prassi ma a sovrastrutture culturali e a strutture organizzative invarianti.
 
Questo sarà fatale al buon esito dell’applicazione della legge
 
Conclusioni
Queste prime riflessioni non sono né conclusive e né esaustive e valgono per cominciare a prendere coscienza dei problemi che si aprono con questa legge.
 
Il rischio più grande che vedo è sempre il solito: considerare la legge un punto di arrivo che magicamente cambia tutto, per qualcuno perfino i paradigmi, anziché un punto di partenza dal quale avviare un processo riformatore senza il quale essa come legge resterebbe fatalmente per gran parte inespressa.
 
Le norme per quanto importanti non vanno mai sopravalutate rispetto alla complessità della loro attuazione e della loro applicazione.
 
Andando sul pratico: io penso che casi clinici drammatici (Englaro, DJ Fabo ed altri) grazie a questa legge non si avranno più e questo per me basta e avanza per salutarla come una legge di civiltà, ma nello stesso tempo penso che il cammino del consenso informato sia ancora lungo e in salita perché nella stessa legge  vi sono  problemi attuativi soprattutto culturali e organizzativi  che se non affrontati  potrebbero creare tanto fenomeni di disconferma che di inapplicazione.
 
Ivan Cavicchi

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