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Venerdì 29 DICEMBRE 2017
Malati e operatori: come si vive il fine vita nelle strutture



Gentile direttore,
scrivo a Lei perché la considero un direttore sensibile all’umano ed alle sue esperienze. Inoltre, il suo giornale lo leggono in molti e soprattutto lo legge chi può far cambiare le cose. Le scrivo da persona che ha vissuto il giorno di Natale l’esperienza della morte di un giovane e caro amico, a causa di un linfoma mantellare.
 
Era ricoverato nel reparto di ematologia dell’ospedale di Arezzo. In quel reparto vi sono 8 posti letto e, mi riferiscono, vi lavorano 2 infermieri nel turno di mattina, uno nel turno di pomeriggio e uno nel turno notturno, un medico reperibile nei giorni festivi, e nessun oss di supporto. Questo Indipendentemente da una valutazione della complessità assistenziale e della intensità di cura richiesta dal quel tipo di malati degenti nei diversi giorni della settimana. In ogni reparto di ematologia del mondo la morte è un fenomeno ”vitale”, non raro, non imprevedibile. Inoltre, la nozione di morte, di per sé, richiede la chiarezza della nozione di vita e dei suoi parametri, sempre, di più nei luoghi in cui si cura. Senza quella chiarezza non è possibile affrontare la morte di nessuno.
 
L’espressione “malato al centro” usata spesso dai politici, e non solo, è davvero una espressione ingannevole, fuorviante ed eticamente e praticamente non più sopportabile. Non è bene porre il malato al centro, non è un vantaggio mai per il malato, perché vuol significare che non si ritiene necessario che vi sia una relazione fra lui e ciò che lui non è; nella relazione nessuno è al centro, non serve, ma soprattutto è male se si considera l’intenzione di chi usa quella espressione: farci sapere, farci credere quanto sia importante il cittadino-malato morente e poi ignorarlo senza alcun ripensamento.
 
Mi sono trovata ad osservare direttamente quanto il malato morente non sia al centro di nessun pensiero politico-gestionale sanitario e neanche nella periferia di esso.
 
I politici, coloro che programmano, gestiscono, e impongono i modi di essere e di fare dei professionisti della salute sembrano infatti essere all’oscuro di cosa voglia dire vivere e morire.
 
Un malato morente ha bisogno di tante attenzioni, troppe per essere garantite da una sola infermiera seppur capace, umana e organizzata bene, ma che ha anche altri 7 malati da considerare. I medici palliativisti, se presenti, perchè previsti, sono tutti in grado di sollevare i parenti dal senso di responsabilità e impotenza che li assale quando il proprio amato soffre per un dolore e un angoscia evitabili. Se il medico palliativista è presente il dolore e l’angoscia nel morente sono assenti.
 
Dover chiamare, invece, al telefono il medico reperibile, il giorno di Natale, per un malato che muore, non è immediato, appropriato e neanche adeguato a quel tipo di malato perché si sa che la morte è un processo graduale diverso da morente a morente. Essere costretti a chiamare il medico di guardia che si trova in pronto soccorso e che è a sua volta costretto a scegliere fra priorità non confrontabili, un malato che muore ed un malato con ictus al pronto soccorso, non è da un Paese civile. Morire senza essere stato moralmente visitato da un medico che ha dovuto scegliere di curare “la vita” rispetto ad “una vita” ormai finita non è accettabile.
 
Se l’infermiera è sola, il malato morente alto, di costituzione robusta e ovviamente non collaborante è impossibile che quel malato venga posizionato, rinfrescato, cambiato, aiutato a vivere il passaggio richiesto. L’infermiera in quel caso chiede aiuto ai parenti, robusti ed emotivamente capaci. E si diventa tutt’uno, morente, parenti ed infermiera. L’unica cosa bella in questo abbandono formalizzato.

Mia intenzione è richiamare al ripensamento coloro che decidono chi deve essere presente nei reparti dove la morte è di casa e quanti debbono essere. Chi decide che i medici palliativisti in ospedale non debbano esserci e chi decide il numero di posti letto negli Hospice di una comunità. Sono persone autorevoli, di fama e di onore, ma certamente non sveglie e grate alla vita.
 
Con questa mia lettera vorrei richiamarli alla loro vita che sembra non vissuta. Non vivendo la loro vita, questi, impediscono di viverla come si dovrebbe anche a chi è malato e per questo deve morire.
 
Da parte mia sto cercando da tempo ormai di svegliarmi prendendo gli eventi che vivo non con l’indifferenza di un palo della luce, scoprendomi cosi più vicina a chi ha piantato quel palo che non essere il palo. Per questo scrivo.
 
Ringrazio le infermiere, Caterina e Nicoletta, ed anche l’Infermiera del turno notturno delle malattie infettive, della quale non ricordo il nome, non tanto per la competenza che sapevo appartenesse loro, ma soprattutto per non averci mai dimostrato che ciò che vivevamo non era accettabile.
 
Marcella Gostinelli
Infermiera 

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