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Giovedì 03 MAGGIO 2018
“Un nuovo modello per far fronte all’emergenza cronicità”. Intervista a Salvatore Corrao (Arnas Civico Palermo)

Al via oggi a Palermo il Convegno nazionale sulla Complessità Clinica e Assistenziale che si concentrerà sulla sfida della cronicità. Ne abbiamo parlato con Salvatore Corrao, professore associato all’Università di Palermo, direttore del Dipartimento “Strutturale di Medicina” dell’Arnas Civico di Palermo e presidente eletto della sezione siciliana dell’AMD

Si apre oggi a Palermo il Convegno nazionale sulla Complessità Clinica e Assistenziale (“Dies Panormitanae Atque Magnae Graeciae”). L’evento, giunto alla terza edizione, si concentra sulle malattie croniche, sia nell’ottica della gestione clinica sia dal punto di vista del loro impatto sulla sostenibilità del servizio sanitario.

Ne parliamo con Salvatore Corrao, professore associato all’Università di Palermo, direttore del Dipartimento ‘Strutturale di Medicina’ dell’Arnas Civico di Palermo e presidente eletto della sezione siciliana dell’AMD (Associazione Medici Diabetologi).

Corrao, insieme a Francesco Perticone, presidente nazionale SIMI (Società Italiana di Medicina Interna) e ordinario dell’Università ‘Magna Grecia’ di Catanzaro, è presidente del convegno.
 
Perché un convegno sulla complessità?
Il convegno nasce dall’esigenza di cominciare a parlare della complessità clinica e assistenziale. E in particolare della complessità legata alla cronicità.
Lo si sta cominciando a fare anche anche nel nostro Paese, ma ancora in modo un po’ balbettante. Le istituzioni nazionali negli ultimi anni hanno mostrato di non essere insensibili al tema. Abbiamo per esempio un Piano nazionale cronicità. Ma, come avviene spesso in Italia, rischia di rimanere una dichiarazione di intenti dal momento che poco o nulla dice sui sui modelli organizzativi.
In Sicilia, poi, l’ultimo documento regionale sulla cronicità risale al 2015.
Eppure nella nostra regione patologie come scompenso cardiaco, diabete e BPCO da sole generano il 20% di tutti i ricoveri complessivi. Intanto, grazie ai progressi terapeutici, anche le persone affetta da altre patologie rientrano nella schiera dei malati cronici: è il caso dell’Hiv o di molte neoplasie.
A ciò si aggiunge l’aumento dell’aspettativa di vita che fa sì che oggi in Italia le persone con più di 65 anni rappresentino oltre il 20 per cento della popolazione.
L’obiettivo del convegno, dunque, è riunire esperti per confrontarci su questa tematica che sarà la più importate sfida per la sanità nei prossimi anni e che è destinata a compromettere la sostenibilità del sistema sanitario.
 
Qual è la soluzione?
Di fronte a questo profondo cambiamento, la sostenibilità passa necessariamente attraverso nuovi modelli organizzativi.
Non è un caso se molta parte del convegno è dedicata alla Medicina interna, che riteniamo sia la specialità che a pieno titolo si deve occupare di complessità clinica e organizzativa.
Da tempo, parlando di medicina, siamo abituati a riferirci alla multidisciplinarietà, intesa come necessità della collaborazione tra le varie branche mediche. A me piace parlare invece di multidimensionalità, un termine mutuato dalla Geriatria, una disciplina che ha l’abitudine a mettere al centro la persona e le sue molteplici dimensioni.
La Medicina interna ha questo scopo: guardare alla persona garantendo anche la riconciliazione terapeutica tra i diversi specialisti.
Nella mia professione vedo molti pazienti che vengono da me con un sacco di documenti; hanno fatto innumerevoli visite. Ma continuano a non trovare soluzione ai loro problemi.
Questa medicina non va più bene.
È necessaria una figura che tenga le fila, stabilisca il miglior percorso per il paziente coordinando e conciliando le diverse attività degli specialisti.
Ed è questo uno dei ruoli che può svolgere l’internista.
 
Questo ruolo non lo pone in conflitto con il medico di medicina generale?
No. Si tratta di figure complementari, due figure con un approccio generalista che non sono in alcun modo in conflitto. C’è il medico di medicina generale che è detentore del coordinamento dei percorsi all’interno del territorio e quello di medicina interna che coordina i percorsi dentro l’ospedale.
Proprio in ospedale, grazie a una figura come il medico internista, è possibile creare zona di interfaccia con il territorio.
Oggi questa zona è di fatto rappresentata dal Pronto Soccorso e ciò spiega perché queste strutture che dovrebbero essere deputate alla gestione delle vere emergenze sono invece perennemente intasate.
L’asse tra medico di medicina generale e internista potrebbe risolvere una volta per tutte questa stortura.
 
Si tratta di un modello realizzabile?
A Palermo, nella mia Unità lo abbiamo realizzato da 6 anni.
Abbiamo dato vita a una outpatient clinic, una struttura ambulatoriale complessa con un’ampia autonomia gestita da internisti, in cui ci si prende in carico il paziente nel suo complesso, valutando anche aspetti in genere considerati di competenza specialistica.
Sulla base delle necessità cliniche il paziente può essere indirizzato allo specialista, che in quel modo si occupa di interventi che richiedono alta specialità, o al territorio dove spetterà al medico di medicina farsene carico.
Questo modello - che ha reso la nostra unità, la più attiva dell’ospedale in termini di numero di prestazioni erogate - ci consente di dare la migliore assistenza possibile a pazienti complessi, che hanno sempre una valutazione multidimensionale (che tiene conto per esempio delle interazioni tra farmaci o della gerarchizzazione dei diversi interventi).
E anche gli specialisti sono felici poiché hanno modo di occuparsi delle attività che più competono loro.
Questo modello, però, richiede all’intervista di diventare un clinico d’eccellenza. Che non può più trincerarsi dietro le consulenze. Deve riappropriarsi del ruolo antico della Medicina interna che è quello di coordinamento clinico di pazienti complessi.
 
Se il modello funziona perché non estenderlo ad altre strutture?
È quello che ci piacerebbe fare. Abbiamo un progetto che prevede di implementare questo modello in altre dieci unità operative siciliane.
È previsto un incontro in assessorato per discuterne. Se la politica sarà responsiva e il modello si dimostrerà replicabile allora potremo pensare di estenderlo anche su scala nazionale. 
 
A.M.

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