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Giovedì 06 SETTEMBRE 2018
Sindrome dell’arto fantasma: realtà aumentata e intelligenza artificiale per sconfiggere il dolore

Quando tutte le altre terapie hanno fallito, c’è ancora una possibilità per aiutare i pazienti amputati, tormentati dal dolore dell’arto fantasma. La tecnica PME, messa a punto da un’università svedese, aiuta i pazienti a scollegare le connessioni tra corteccia sensitivo-motoria relativa all’arto amputato e reti neurali deputate alla percezione del dolore. Di fronte ad uno schermo il paziente ‘allena’ la corteccia motoria destinata all’arto amputato a ‘muovere’ un arto digitale, scollegandola in questo modo dai circuiti del dolore.

Oltre ad essere un tormento per i pazienti, resta ad oggi un mistero della fisiopatologia. E’ la sindrome dell’arto fantasma, quel dolore che il cervello percepisce notte e giorno a carico di un arto che ormai non è più, in quanto amputato a seguito di una malattia (è una delle più drammatiche conseguenze del diabete) o di un trauma.
 
Ma le ricerche sull’origine di questa stranissima forma di dolore proseguono e la rivista Frontiers in Neurology pubblica questa settimana una nuova teoria, elaborata da Max Ortiz Catalan della Chalmers University of Technology (Svezia), che si fonda su un rivoluzionario trattamento di questa condizione, basato su realtà aumentata e machine learning.
La nuova teoria, detta del ‘coinvolgimento stocastico’ (stochastic entanglement) propone che dopo un’amputazione, i circuiti nervosi relativi all’arto amputato perdano il loro ruolo e diventino così suscettibili al coinvolgimento con altri network nervosi, in questo caso quelli responsabili della percezione del dolore.
 
“Immaginate di aver perso una mano – spiega Ortiz Catalan – questo evento lascia ‘disoccupato’ una parte di corteccia cerebrale, in generale del vostro sistema nervoso. Questa zona del cervello smette di processare qualunque input sensitivo e smette di produrre qualunque comando motorio per far muovere la mano. In altre parole diventa inattivo, ma non silente”.
 
I neuroni infatti non vengono mai silenziati e quando non sono impegnati a svolgere un compito particolare, possono ‘scaricare’ in maniera casuale. Questo può portare alla casuale attivazione contemporanea di un gruppo di neuroni di una certa parte del network sensitivo-motorio e del network della percezione del dolore. Quando questi neuroni si attivano contemporaneamente, possono ricreare l’esperienza del dolore in una parte del corpo che non esiste più.
 
“ Di norma, un’attivazione sincronizzata sporadica non rappresenta un grosso problema perché rientra nel rumore di fondo e non viene percepita – prosegue Ortiz Catalan – ma nei pazienti amputati questo evento può emergere quando in quel dato momento ci sono poche altre attività in corso. E questo può provocare un’esperienza sorprendente e molto pesante da un punto di vista emotivo: sentire dolore in una parte del corpo che non esiste più. Una tale incredibile sensazione può rinforzare le connessioni neurali e farla emergere prepotentemente alla coscienza”.
 
Secondo la cosiddetta legge di Hebb (‘i neuroni che si attivano insieme, rafforzano le loro connessioni’), i neuroni delle reti deputate alla percezione del dolore e quelli sensitivo-motori si coinvolgono reciprocamente e danno luogo al dolore dell’arto fantasma. Questa nuova teoria spiega anche perché non tutte le persone amputate presentano questa condizione; ‘casualità’, ‘stocasticità’ significano proprio questo: l’attivazione simultanea di queste diverse reti neurali, che porta al reciproco coinvolgimento, può non verificasi in tutti i pazienti.
 
Questa nuova teoria secondo Ortiz Catalan spiega anche l’efficacia di un nuovo metodo di trattamento per questa condizione, il cosiddetto Phantom Motor Execution (PME), da lui sviluppato in precedenza. Il trattamento consiste nel collegare degli elettrodi all’arto residuo del paziente che intercettano i segnali elettrici diretti all’arto amputato e vengono ‘tradotti’ in tempo reale da algoritmi di intelligenza artificiale (AI) in movimenti di un arto virtuale. I pazienti si vedono su un video con un arto ‘virtuale’ al posto di quello mancante e imparano a controllarlo proprio come se fosse il loro arto vero. Questo consente loro di stimolare e riattivare queste aree cerebrali dormienti.
 
“I pazienti – spiega Ortiz Catalan – possono dunque iniziare a riutilizzare queste aree cerebrali che sono andate in ‘stand by’. Tornando ad utilizzare quel circuito, li aiuta ad indebolire e poi a disconnettere le connessioni con il circuito del dolore. E’ una sorta di legge di Hebbe al contrario; più questi neuroni vengono attivati separatamente, più debole sarà la connessione tra di loro. Questo sistema può anche essere utilizzato in maniera preventiva, per proteggere dalla formazione di queste connessioni”.
 
Lo strumento utilizzato per il trattamento PME, prodotto dalla Integrum AB, una company svedese è attualmente sperimentato in un ampio trial internazionale condotto i 7 diversi Paesi e verrà valutato anche con studi di imaging cerebrale ‘in diretta’.
 
Maria Rita Montebelli
 
Credits della foto: Yen Strandqvist/Chalmers University of Technology   

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