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Sabato 22 SETTEMBRE 2018
Crisi del Ssn e populismi. Rispolveriamo un po’ di materialismo storico

Si avvicina la legge di Bilancio. Gli spazi per la sanità non sembrano essere molti, ancora una volta. Ma non si vive di sola lotta agli sprechi, e tutti i possibili miglioramenti dei processi organizzativi non potranno mai pienamente sopperire ad una condizione di prolungato sottofinanziamento. Nelle conclusioni dell'indagine conoscitiva del Ssn si diceva che il problema non è economico, ma "politico e culturale". È forse arrivato il momento di mettere in discussione l'attuale modello di produzione economico basato su determinati rapporti sociali?

Torna l’autunno, e come ogni anno porta con sé i lunghi dibattiti sulla legge di Bilancio. Lotte agli sprechi, nuove risorse per il Fsn, contratto, misure per la professione. I temi caldi continuano ad essere gli stessi, così come le condizioni di lavoro “insostenibili" denunciate ormai da anni dalle professioni.
 
Questa volta, però, l’incombenza ricadrà sul Governo del cambiamento, chiamato a dare seguito a quelle speranze alimentate da una campagna elettorale permanente. Ricordiamo poi la promessa della ministra della Salute Giulia Grillo, che in una delle sue prime uscite mise in chiaro da subito: “A differenza dei Governi passati non sarò commissariata dal Mef”.
 
Sarà davvero così? E’ ancora presto per dirlo. Di certo le promesse di M5S e Lega sono molte e dispendiose: dal reddito di cittadinanza alla flat tax, fino alla revisione della legge Fornero. E gli spazi di manovra residui si stringono per le altre esigenze, compresa la sanità.
 
Perché all’aumento di 1 miliardo del Fondo sanitario per il 2019 già programmato dal Def redatto dal Governo precedente, si dovranno aggiungere le misure per il personale: dal contratto allo sblocco del turnover, fino al lavoro sui tetti di spesa per il personale. Così come le annunciate azioni su ticket ed edilizia sanitaria. Tutte misure che richiedono un impegno economico non di poco conto.
 
Al di là degli annunci propagandistici, anche il governo del cambiamento sarà evidentemente costretto al braccio di ferro con il Mef. E l’impressione, anche stavolta, è che si punti a tenere a galla un Ssn che, anno dopo anno, aumenta i suoi acciacchi e malanni, oltre al gap rispetto agli altri Paesi dell’Europa occidentale in termini di risorse investite.
 
Perché non si vive di sola lotta agli sprechi, ed anche tutti i migliori intenti messi in campo per migliorare i processi organizzativi non potranno mai pienamente sopperire ad una condizione di prolungato sottofinanziamento.
 
Riflettendo su tutto questo, mi sono tornate in mente le conclusioni dell’indagine conoscitiva sulla sostenibilità del Ssn portata avanti nella scorsa legislatura. “Il sistema è tanto sostenibile quanto noi vogliamo che lo sia”. E, si spiegava: “Non si tratta di un problema economico, perché la sostenibilità del diritto alla salute è prima di tutto un problema culturale e politico”.
 
Ecco, questo è il punto. Perché il cambiamento non è un problema che si risolve con un semplice enunciato o, peggio ancora, con il ricorso ad autodefinizioni calate ideologicamente dall’alto. Ogni classe dirigente, ogni intellighenzia nuova, ha sempre sottolineato in maniera retorica la propria novità. La volontà di apparire come novità e forza di cambiamento è l’elemento dominante di tutte le retoriche del contemporaneo.
 
Ma il cambiamento è un processo culturale che, necessariamente, deve mettere in discussione una serie di modelli datisi. Tra questi non si può prescindere dal modello di produzione economico basato su determinati rapporti sociali.
 
La mancata piena esigibilità del diritto alla salute (tra gli altri), così come i processi storici che hanno portato in sanità l’introduzione di aziendalizzazione, modello di lavoro fordista, ed i più recenti dibattiti su sanità integrativa e terzo pilastro, sono necessariamente la conseguenza del modello economico - e dunque del modello culturale dominante - cui fanno riferimento.
 
Così come lo è la proposta di revisione dell’attuale modello fiscale in favore di una flat tax. Il finanziamento del Ssn è oggi basato sulla capacità fiscale regionale, e corretto da alcune misure perequative. Al finanziamento del Ssn concorrono l'Irap, l'addizionale regionale all'Irpef e la compartecipazione all'Iva. Con la flat tax  si rischia un calo di 58 miliardi rispetto a quello Irpef attuale. Numeri che non potrebbero essere compensanti dalla sola emersione dell'imponibile finora nascosto da evasione o elusione. Diventerebbe necessaria una forte razionalizzazione delle "tax expenditures", o il Ssn pubblico e universalistico potrebbe diventare economicamente insostenibile. Argomento spinoso e non privo di potenziali rischi per la sanità al punto che non viene escluso un ciclo di approfondimenti ad hoc nelle commissioni sanità parlamentari.
 
Di fronte a tutto questo, è forse il caso di rispolverare una parola antica per avviare un’analisi che provi a risalire alla genesi dell’attuale situazione: materialismo storico.
 
Le sfere giuridiche, politiche, culturali, religiose costituiscono degli aspetti sovrastrutturali che hanno alla base, come fondamento storico, uno stesso modo di produzione economico basato su determinati rapporti sociali. L’uomo è il prodotto storico della struttura economica e sociale di cui è parte, che non può che condizionare il suo modo di pensare.
 
Questo cosa significa? Anche il modello di sanità, seppure non in un rapporto rigidamente deterministico, è influenzato dall’insieme delle forze produttive e dei rapporti di produzione che si hanno in questo determinato contesto economico-sociale. Ossia quella struttura che si è andata evolvendo verso un modello "turbocapitalista".
 
Il fine ultimo di un’economica capitalista sta nella ricerca del profitto in ogni nicchia, nell’estrazione di valore dalla società. Il capitale finanziario corre là dove c’è profitto, divenendo egemone rispetto ad ogni altro fenomeno produttivo, fino a diventare esso stesso direttamente produttivo. Produttivo nel senso che produce profitto. Il capitale finanziario investe dunque completamente la società, compresi i modelli di welfare che essa organizza.
 
Tra spending review ed abbattimento del costo del lavoro, i mancati aumenti del Fondo sanitario, il blocco del tornover, la stagnazione dei contratti, i tetti ai livelli di spesa per il personale sono state tutte misure adottate in funzione al raggiungimento di obiettivi economici che prescindono, ed anzi, primeggiano su quelli di salute. Questo processo, a livello ‘micro’, si è avuto anche con i commissariamenti regionali, laddove il raggiungimento degli obiettivi di bilancio ha coinciso quasi sempre con un peggioramento qualitativo dei servizi erogati ai cittadini.
 
E arriviamo così al paradosso di una politica che, sorvolando sulle cause della crisi del Servizio sanitario nazionale, indotte quantomeno parzialmente dalle motivazioni che spiegavamo in precedenza, si propone di superare un universalismo irrealizzato ed esistente solo sulla carta in favore di un ‘universalismo selettivo’ che apra sempre di più al privato e alla tutela del singolo o di determinate categorie di lavoratori con modelli di welfare aziendale.
 
Il problema che oggi ci si deve porre è quanto l’attuale sistema sia compatibile con i diritti sanciti dalla nostra Carta costituzionale, compreso quello alla salute. Il resto, come si può osservare ogni anno, sono discorsi riguardanti piccole operazioni di maquillage che riescano a mettere toppe su alcune falle, ignorandone necessariamente altre.
 
Le mediazioni sociali, così come le leggi economiche, non sono processi astorici calati dall’alto ma prodotti della soggettività umana che si realizza nella storia. Cosa manca quindi? Una prospettiva altra, non solo economica ma di ricomposizione sociale di un mondo del lavoro - compreso quello della sanità - radicalmente cambiato negli ultimi 30 anni. Salto tecnologico, trasformazione dei fattori produttivi, nuovi modelli organizzativi hanno sconvolto la composizione sociale. I movimenti politici non hanno più avuto la capacità di capire, organizzare e rappresentare queste nuove esigenze e questa nuova composizione lavorativa.
 
Tutto ciò, per diversi aspetti, ha ingenerato nei lavoratori, compresi quelli della sanità, alcuni processi psicologici (con evidenti risvolti sociali). Si continua a parlare della paura e della rabbia. A mio modo di vedere, erroneamente, non si è mai posto l’accento anche su un altro concetto, quello di “impotenza”.
 
Tornando alle condizioni di lavoro denunciate dagli operatori sanitari, soffermiamoci ora sul crescente fenomeno delle aggressioni. Sicuramente la tensione e lo stress con cui si accompagna una visita al Pronto Soccorso può raggiungere livelli che oltrepassano la soglia dell’esasperazione, fino a sfociare in vera e propria aggressione fisica, nel momento in cui si prospettano attese anche di oltre 24 ore. L’operatore sanitario diventa così doppiamente vessato da quello stesso sistema organizzativo che prima gli offre condizioni di lavoro impossibili e successivamente lo espone, come capro espiatorio, alle intemperanze del cittadino esasperato.
 
C’è poi un fattore ‘nuovo’ da prendere in considerazione. Diceva in questi giorni l’Anaao, che siamo in presenza di “una crescita di una domanda di salute che non ammette attese o incertezze che non possano essere risolte da Google”. E qui non possiamo che richiamare l’attenzione su altri due elementi: il tempo e la complessità.
 
Il ritmo richiesto dal modello di società, e quindi conseguente alla “struttura” richiamata nel corso della precedente riflessione, è sempre più frenetico. Siamo ‘bombardati’ da notizie e informazioni, il limite tra lavoro e sfera privata è stato ormai reso un lontano orizzonte dall’evoluzione di quelle tecnologie sempre più pervasive che ci rendono operativi e reperibili h24, 7 giorni su 7. Non esiste e non viene più ammesso il tempo per l’elaborazione. E, al contempo, siamo in presenza di un totale rifiuto della complessità.
 
Il libero accesso ad un flusso delle informazioni tendente all’infinito, se da un lato apre a nuove opportunità di conoscenza e, necessariamente, modifica i rapporti sociali come quello tra medico e paziente, porta con sé anche una serie di problematiche tutt’altro che risolte.
 
La medicina, per sua definizione, non è una scienza esatta. Una diagnosi, non può avere i tempi e la certezza di un’informazione trovata in pochi istanti su un motore di ricerca e può avere esiti ben meno prevedibili. Sapere e conoscenza, formazione ed informazione, spesso si confondono e portano ad uno scontro di piani che, nonostante le percezioni dei singoli soggetti, restano tra loro diversi.
 
E torniamo così ad uno dei sopracitati tratti distintivi della contemporaneità: l’impotenza. Vi è una diffusa e radicata certezza dell’impossibilità di cambiare uno status quo giudicato sotto vari aspetti insoddisfacente, se non invivibile. Sembra non importare più come, né sono richieste risposte articolate a queste complessità che ci permettano di orientarci nella ricerca di una visione di società piuttosto che di un’altra. La percezione diffusa è quella di una volontà di cambiamento in sé, come se quest’ultimo possa aprioristicamente rappresentare di per sé un aspetto di miglioramento.
 
Il Governo, non a caso autodefinitosi del "cambiamento", risponde almeno nominalmente a questa esigenza. Andando più indietro nel tempo, probabilmente il primo a percepire questa esigenza fu l’ex presidente Usa, Barack Obama. Tutti ricorderanno il suo primo slogan, quel “Yes, we can”.
 
Quel “we can” racchiudeva in sé tutto questo. Quel motto, nel tempo, si è rivelato insieme sia un profetico stimolo a quell’esigenza di cambiamento, a quella frustrazione percepita ma mai lucidamente emersa dalla coscienza collettiva, che la cifra del fallimento di quella prospettata volontà di cambiamento mai riuscita pienamente a passare dalla potenza all’atto. Basti pensare all’Obamacare e al risultato esiguo riuscito a portare a casa rispetto alle speranze iniziali. Non è stata chiusa Guantanamo, gli Stati Uniti non sono riusciti a ritirarsi dall’Afghanistan e così via.
 
Tornando all’Italia, e soffermandoci sul mondo della sanità, chiediamoci da quanto vengono lamentate situazioni di lavoro insostenibile dagli operatori del settore e condizioni di accesso ai servizi sempre più difficili da parte dei cittadini? Quanti governi di diverso colore politico si sono succeduti in questi e quanto questi sono riusciti realmente ad incidere su queste sofferenze? Da questo ‘abbaiare alla luna’ nasce quel senso di impotenza e frustrazione che si è diffuso nei diversi strati sociali di una società già fortemente in sofferenza per quella crisi economica mondiale che, ad 11 anni dal suo inizio, non ha ancora esaurito i suoi effetti negativi.
 
La grande recessione che prese avvio negli Stati Uniti nel 2007 in seguito alla crisi del mercato immobiliare, insieme a quella mancata capacità di gestire la globalizzazione, ha portato a quel nuovo fenomeno politico che si sta imponendo con forza in diverse zone del mondo da più di un anno a questa parte: il ritiro verso nazionalismi e populismi che soffiano sì su rabbia e paura, ma muovono in maniera decisiva le loro fila alimentando questo senso di impotenza verso quelle autorità, “caste” o “elite” percepite tutte come forze conservatrici. Anche da questo scaturisce quel clima di violenza, verbale e non, e quella palpabile energia di 'vendetta' che ci ha condotti a quello che oggi possiamo definire l’odio della ragione.
 
Quest’ultimo è diventato l’elemento forte nella scena contemporanea. Non c’è più spazio per la ragione, per l’elaborazione, per la complessità. Perché tutto questo? Probabilmente anche perché la “ragione”, o meglio le istituzioni pretendevano di incarnarla, hanno totalmente fallito il loro compito in questi anni. E la ragione si è così tradotta unicamente nella ragione della finanza che ci ha portato, nell’esperienza che abbiamo vissuto in questi ultimi 10 anni, all’impoverimento, a nuove insicurezze, alla mancanza di prospettiva di un futuro migliore per i figli.
 
Siamo già entrati in un mondo di cancellazione della ragionevolezza che la modernità ci aveva consegnato. In un’epoca in cui la sola aspettativa di futuro è legata all’affermazione di un’identità. Da qui, come dicevamo, muovono le fila i populismi.
 
Va detto che quello verso movimenti populistici non era uno sbocco necessario. Non vi è un nesso causale tra le condizioni sopraindicate ed il loro successo. Ma questo exploit è anche (forse soprattutto) figlio della mancata capacità di incanalare in altro modo quelle energie, dal momento che questi erano (e sono) gli unici a porsi, almeno dialetticamente, come movimento di rottura rispetto a determinati paradigmi politico-economici. 
 
Qui volendo potremmo anche richiamare, seppur solo parzialmente, i concetti di "forze attive" e "forze reattive" come posto da Deleuze. Le prime, hanno capacità affermativa e vivono della propria affermatività, della propria capacità di creare "mondi", imprimere il proprio marchio sulla realtà. Le seconde, invece, non essendo in grado, in un determinato momento storico, di stabilire nuove mappature, aprire verso nuovi orizzonti, si limitano a depotenziare e destrutturare i mondi altrui ponendosi come forze restauratrici, conservatrici.
 
Ma cos’è il populismo, quali interessi rappresenta, quelli del popolo? Il popolo non esiste, se non per ideologia. La nostra esperienza empirica ci fa conoscere un variegato tessuto sociale fatto di diverse idee, professioni e interessi spesso tra loro in conflitto. La politica rappresenta sempre una parte, mette al centro i soggetti reali dei processi storici. Per la rappresentazione del “tutto” ci si deve rivolgere alla teologia.
 
Purtroppo, i corpi intermedi che rappresentavano queste soggettività: partiti politici, sindacati, associazioni e ordini professionali attraversano tutti un profondo stato di crisi. Di crisi della rappresentatività di sindacati e ordini si è dibattuto più volte anche su QS.
 
Esiste un’enorme difficoltà a rappresentare queste nuove soggettività, nuovi interessi e nuove tendenze nei confronti di un mondo del lavoro e delle professioni in continua evoluzione. Ma è questo il compito che si è chiamati a fare: individuare e riorganizzare a livello politico, sindacale, ordinistico queste realtà.
 
L’alternativa a tutto questo è molto semplice. Esiste il popolo. E nel popolo siamo tutti individui, soli. Dal momento che un sistema politico di autogoverno degli individui appare di difficile realizzazione, e che i corpi intermedi non riescono più a rappresentare le esigenze del “popolo”, quello che accadrà è che, prima o poi, i singoli individui delegheranno necessariamente tutto a qualche “capo”. Questa è la strada maestra per la fine, non necessariamente della democrazia, ma sicuramente di ogni forma di democrazia partecipata.
 
Giovanni Rodriquez

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