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Giovedì 04 OTTOBRE 2018
Condannato per omicidio colposo un medico che aveva sospeso una terapia palesemente salvavita

La Cassazione (quarta sezione penale, sentenza 40923/2018) ha ritenuto colpevole un medico ospedaliero per non aver proseguito nelle dosi indicate la somministrazione di antitrombolitici a un paziente cairdiopatico, operato a livello gastrico e deceduto per embolia polmonare massiva. LA SENTENZA.

Conferma della condanna per omicidio colposo (con le attenutati generiche a un anno di reclusione) e al pagamento di una provvisionale in favore delle parti civili per un medico ritenuto responsabile della morte di un paziente, deceduto per embolia polmonare massiva, conseguente a trombosi venosa profonda dell'arto inferiore destro, causata dall'omessa profilassi antitrombotica, nonostante il rischio di sviluppare una trombosi da parte del paziente fosse alto-altissimo.

A deciderlo è stata la Cassazione (quarta sezione penale, sentenza 40923/2018) che ha respinto tutti i motivi di ricorso del medico.
 
Il fatto
Un paziente già sottoposto a un intervento chirurgico al cuore era ricoverato un mese dopo circa con diagnosi di accettazione di sincope in cardiomiopatia ipertrofica. Trasferito presso il reparto di medicina dello stesso ospedale veniva esclusa l'origine cardiopatica della sincope ed evidenziata un'ulcera duodenale stenosante in fase attiva.

Richiesta la consulenza chirurgica, il paziente era trasferito presso il reparto di chirurgia generale dello stesso Ospedale con la diagnosi di stenosi pilorica in paziente con cardiomiopatia dilatativa ipertrofica non ostruttiva, con condizioni patologiche associate a trombofilia.

Pochi giorni dopo subentrava un episodio settico e il paziente era rattato con antibiotici e poi sottoposto a intervento di gastroresezione con ricostruzione secondo Billroth II e anastomosi al piede dell'ansa secondo Braun, intervento eseguito, tra gli altri, dal medico condannato in qualità di aiuto.

Due giorni dopo circa il paziente accusava algie all'arto inferiore destro. Nella notte gli veniva praticata terapia antalgica dall'infermiere di turno, su indicazione del medico reperibile, ancora lo stesso poi condannato. Il malessere tuttavia tornava, veniva diagnosticata da un altro sanitario una flebite e, dopo un colloquio con il primario, era disposto il trasferimento presso altro ospedale per una visita specialistica nel reparto attrezzato per la patologia specifica. Lo stesso giorno, rientrato nel primo ospedale, il paziente era sistemato su una barella per oltre cinque ore, poi spostato su un letto mobile.

Alle 19.30 era trasportato presso il servizio TAC e poco dopo decedeva per un'embolia polmonare, con diagnosi secondarie di trombosi embolica dell'arto inferiore destro e stenosi pilorica.
 
La sentenza
Al medico è contestato un profilo di colpa generica omissiva per avere omesso "di adottare tutte le misure di profilassi atte a prevenire la trombosi venosa profonda che ha determinato l'evoluzione verso la fatale embolia polmonare" incorsa al paziente, in una situazione di rischio trombotico alto-altissimo.
 
Secondo a Cassazione “tanto risulterebbe già di per sé sufficiente per ritenere non violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza, dal momento che la terapia antitrombotica necessaria (e colposamente omessa) avrebbe dovuto essere praticata anche e soprattutto in vista dell'intervento chirurgico di gastroresezione e segnatamente nel corso di tutto il periodo perioperatorio”.
 
La Cassazione sottolinea anche che “la contestazione, che contiene la specifica descrizione degli addebiti mossi al medico e agli altri coimputati (che hanno prescelto il rito dibattimentale), include espressamente anche l'intervento, inteso però non già quale operazione nel corso della quale si sia verificata un'ulteriore omissione, di tipo chirurgico, da parte dell'imputato - come sostiene il ricorrente parlando di "omissione in sala operatoria", da contrapporsi a quella "in reparto", l'unica che sarebbe stata contestata - ma bensì come semplice momento della relazione terapeutica intercorsa fra i sanitari del reparto di chirurgia generale e la persona offesa nel quale la terapia antitrombotica avrebbe dovuto essere praticata ed è stata invece omessa”.
 
È dunque evidente secondo la Cassazione che nessun rapporto di eterogeneità fra la condotta contestata e quella ritenuta nella sentenza “può essere considerato sussistente, essendo l'intervento chirurgico previsto nella contestazione quale momento in cui la posizione di garanzia gravante sul medico avrebbe dovuto imporgli di praticare la terapia antitrombotica”.
 
L'omissione della terapia nel corso dell'intervento è dunque condotta ricompresa, “in rapporto di continenza, nella più generale omissione di ogni misura antitrombotica, e ne rappresenta solamente una specificazione, vale a dire una delle possibili diverse fonti della posizione di garanzia, rispetto alle quali l'imputato ha avuto ampiamente modo di difendersi, già a partire dalla formulazione stessa della contestazione, nella quale infatti trova espressa menzione l'insufficiente dosaggio di clivarina somministrato, in ogni caso troppo a ridosso dell'intervento chirurgico”.
 
Per quanto riguarda il nesso causale, secondo la Cassazione occorre sinteticamente richiamare i principi pacifici in tema di causalità omissiva.

“La giurisprudenza di legittimità ha individuato le varie tappe dell'accertamento causale nei reati omissivi impropri, fondato su un giudizio controfattuale di c.d. "aggiunta" mentale e sul determinante principio dell'alto grado di credibilità razionale. Nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può, infatti, ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l'azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, l'evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva”.
 
In questo caso la Cassazione sottolinea che “alcun dubbio può essere avanzato circa la sussistenza del nesso causale fra l'omissione contestata al medico e il successivo decesso della persona offesa”.
 
L'evento morte è stato determinato, come risulta dagli atti, da un'embolia polmonare massiva, conseguente a una trombosi venosa profonda dell'arto inferiore destro, causata dalla cessazione della terapia antitrombotica una volta che il paziente era stato trasferito nel reparto di chirurgia generale per sottoporsi all'intervento di gastroresezione. È stata la decisione di sospendere la somministrazione della clivarina - praticata senza quasi soluzione di continuità nel corso del ricovero presso i due reparti di cardiologia e di medicina del medesimo ospedale - ad avere determinato l'insorgenza della trombosi, non essendo in dubbio che il paziente fosse ad elevatissimo rischio trombotico per numerosi fattori, tutti conosciuti dai sanitari del reparto di chirurgia, che avevano tutti gli strumenti per arginare il rischio con una  adeguata trombofilassi.
 
Quindi secondo la cassazione e come dichiarato anche dalla Corte d’Appello “risulta corretto affermare  che sia pressoché certo che, ove fosse stata eseguita idonea terapia antitrombotica, non si sarebbe sviluppata la trombosi venosa profonda, causa a sua volta dell'embolia polmonare e poi del decesso del paziente”.
 
Inoltre secondo la Cassazione esiste senza dubbio una specifica posizione di garanzia dell’imputato, come ricavabile da diversi fattori. “In primo luogo infatti – si legge nella sentenza -  non può certo trascurarsi la circostanza che nella cartella clinica venga fatto esplicito riferimento all'affidamento del paziente al medico imputato al momento del trasferimento nel reparto di chirurgia” come risulta dalla cartella clinica “ed è dunque verosimile che sia stato proprio lui a prendere in carico il paziente, predisponendone il piano terapeutico e stabilendo l'interruzione della trombofilassi. Né è possibile argomentare diversamente sulla base dei due interventi chirurgici che l'imputato ebbe a eseguire in quella stessa giornata, non essendo idonei ad escludere la posizione di garanzia”.
 
L'avere partecipato all’intervento poi “è elemento più che sufficiente per ritenere che anche il medico fosse gravato dell'obbligo di predisporre l'adeguata profilassi antitrombotica legata al corretto svolgimento dell'operazione e del periodo post-operatorio. È infatti principio pacifico quello per cui, anche nello svolgimento dell'attività medica in équipe, ciascun sanitario risulta obbligato non solamente al corretto svolgimento delle proprie specifiche mansioni, ma anche alla vigilanza sulla correttezza dell'attività altrui, se del caso ponendo rimedio ad errori che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenza scientifiche del professionista medio, con la conseguenza che ciascuno dei soggetti che si dividono il lavoro risponde dell'evento illecito, non solo per non aver osservato le regole di diligenza, prudenza e perizia connesse alle specifiche ed effettive mansioni svolte, ma altresì per non essersi fatto carico dei rischi connessi agli errori riconoscibili commessi nelle fasi antecedenti o contestuali al suo specifico intervento.
 
“L'omissione della terapia antitrombotica – sottolinea la Cassazione - anche e soprattutto in vista dello svolgimento dell'intervento chirurgico cui l'imputato avrebbe preso parte, risulta senza ombra di dubbio addebitabile al medico, tanto più se si considera che era stato proprio lui a prendere in carico il paziente e ad averlo in cura già precedentemente”. Si tratta quindi di omissione
 
“Tanto chiarito – precisa la Cassazione - risulta evidente lo scostamento dalle linee guida adeguate al caso di specie perpetrato dall'imputato. Alla luce delle stesse, infatti, egli avrebbe dovuto considerare prevalente il rischio trombotico rispetto a quello emorragico e procedere alla somministrazione di clivarina nei dosaggi e per i tempi opportuni, tenendo al contempo sotto controllo il rischio emorragico, e sospendendo eventualmente la terapia antitrombotica in presenza di ulteriori segnali di anemizzazione, per il tempo strettamente necessario. Niente di tutto questo è dato riscontrare nella condotta dell'imputato, il quale anzi non si curò nemmeno che la terapia antitrombotica fosse iniziata prima dell'intervento chirurgico, provvedendo alla somministrazione di clivarina in dose limitata solamente nella notte” precedente l’intervento.
 
“Le omissioni dell'imputato – aggiunge - oltre a non potersi dire in nessun caso giustificate dalla presenza di un assai ridotto rischio emorragico, risultano anche connotate da rilevante gravità. Come sottolineato dalla Corte territoriale, infatti, risulta assai grave la sottovalutazione, operata dal medico, del rischio trombotico in favore di quello emorragico, soprattutto alla luce dei risultati degli esami di laboratorio e della condotta tenuta in maniera continuativa e coerente dai sanitari degli altri reparti del medesimo ospedale, che avevano tutti praticato la corretta terapia sul paziente. Né può soccorre in aiuto del medico la considerazione per cui la giornata  nella quale ha predisposto il piano terapeutico del paziente e a determinare la cessazione della terapia antitrombotica, avrebbe dovuto ritenersi caratterizzata da una situazione di sostanziale emergenza, che avrebbe lasciato poco tempo al sanitario per prendere le opportune decisioni del caso".

"Non è infatti seriamente sostenibile - conclude - che la semplice programmazione di due interventi chirurgici (della durata, peraltro, rispettivamente di 40 minuti e di un'ora e un quarto) nell'arco di una medesima giornata possa considerarsi situazione emergenziale, essendo evenienza assolutamente ordinaria nella gestione di reparti sanitari. Al contrario, il medico avrebbe avuto tutto il tempo, dopo gli interventi, di controllare adeguatamente il paziente e rendersi conto dell'errore commesso”.

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