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Giovedì 08 NOVEMBRE 2018
Cuore. Non sempre i pazienti comprendono i rischi

In cardiologia la comunicazione medico-paziente gioca un ruolo fondamentale nella percezione del rischio. È importante che il clinico usi immagini o parole appropriate, puntando soprattutto sul concetto di rischio a lungo termine. È quanto emerge da uno studio condotto in USA

(Reuters Health)– Non sempre il paziente cardiopatico comprende i rischi legati alla sua patologia, perché il cardiologo non è riuscito a illustrarli chiaramente, utilizzando parole o immagini poco efficaci.

Uno studio appena pubblicato da Jama Cardiology mette in luce proprio questo aspetto: i pazienti sono più attenti e più propensi ad accettare una terapia farmacologica preventiva quando ricevono informazioni chiare sulle possibilità di avere infarti o ictus nel lungo termine. Questo genere di rischio, nella percezione del paziente, appare più alto rispetto a quello a breve termine.

“È importante il modo con cui si mostra alle persone quale sia il loro rischio – sottolinea l’autrice principale del lavoro Anne Marie Navar, del Duke University Medical Center di Durham,Carolina del Nord – Anche lo strumento grafico che il cardiologo usa può influire sulla percezione del rischio. Per esempio, se si usa un diagramma in cui un rischio del 15% è mostrato come 85 facce felici e 15 volti corrucciati, i pazienti potrebbero intenderlo come un rischio inferiore”.

Lo studio. 
Per osservare come il metodo utilizzato dai medici per comunicare il rischio interferisca con la comprensione, Navar e colleghi hanno reclutato 2.708 pazienti di un registro che raccoglieva i dati di 140 ambulatori di cardiologia, endocrinologia e cure primarie.
Per prima cosa ai pazienti è stato detto di immaginare che il loro medico avesse detto loro di correre un rischio del 15% di avere un infarto o un ictus nei successivi 10 anni.
 
È stato quindi chiesto ai pazienti di valutare la gravità del rischio utilizzando una scala crescente (molto bassa, bassa, media, alta, molto alta) e di indicare la disponibilità a prendere un farmaco, come una statina o un medicinale per la pressione del sangue, per ridurre il rischio di circa un terzo (molto riluttanti, leggermente riluttanti, possibilmente, in qualche modo volenterosi o molto disponibili).
La stessa procedura è stata seguita con i pazienti che immaginavano di avere un 4% di rischio di morte nei 10 anni successivi, e quindi di avere un rischio del 50% nel corso della vita di avere un ictus o un infarto.

 
Senza che i volontari dello studio lo sapessero, queste stime hanno descritto tutte lo stesso paziente ipotetico: una persona con un rischio del 4% di morte per malattia cardiaca in 10 anni, un rischio del 15% di avere un infarto o ictus in 10 anni e un rischio del 50% di avere un ictus o infarto nel corso della vita.
 
I risultati
. Sebbene i numeri si riferissero tutti allo stesso rischio complessivo di malattia cardiaca, i pazienti dello studio hanno avuto percezioni diverse: il 70,1% ha ritenuto che un rischio del 50% fosse “da alto a molto alto”, rispetto al 31,4% di coloro ai quali è stato chiesto di valutare una probabilità del 15% di avere un infarto o ictus in 10 anni e rispetto al il 25,7% di coloro che si sono espressi per il 4% di rischio di morte per malattia cardiaca in 10 anni.
In tutti gli scenari, i pazienti che hanno dichiarato di aver percepito un rischio elevato o molto elevato erano anche due o tre volte più propensi a prendere farmaci per ridurre tale rischio.

I commenti
. “Poiché sempre più pazienti vogliono essere parte del processo decisionale sulla propria salute, i medici devono prestare più attenzione a come spiegano i rischi – ha detto Jared Magnani del University of Pittsburgh Medical Center in Pennsylvania – Questo è uno studio molto importante: quando parli di prevenzione delle malattie cardiovascolari, è molto importante che i pazienti capiscano le ragioni di ogni tipo di intervento farmacologico”.

 
Lo studio “ha scoperto che le persone avevano una comprensione piuttosto limitata del rischio – ha continuato Magnani, che non è stato coinvolto nella ricerca – Quindi, tendevano a concentrarsi sul numero più alto in termini percentuali, percependo come più alto il livello di rischio indipendentemente dall’ambito temporale. Tutto questo suggerisce che abbiamo bisogno di un nuovo codice linguistico per comunicare con i pazienti”.

Fonte: JAMA Cardiology
 

Linda Carroll

 
(Versione italiana Quotidiano Sanità/Popular Science)

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