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Lunedì 19 NOVEMBRE 2018
Patto salute. Per funzionare deve far uscire la sanità dall’omeostasi

Per logica omeostatica si intende una politica tesa a conservare le proprie compatibilità finanziarie anche di fronte al variare delle necessità interne ed esterne del sistema. Omeostasi vale come conservare e quindi essa è antitetica al concetto di evoluzione .In questa logica i patti per la salute da strumenti per lo sviluppo della salute diventarono nel tempo puri strumenti per l’autoregolazione finanziaria delle compatibilità.

Nel corso della definizione della legge di bilancio per la sanità è accaduta una cosa relativamente nuova: il ricorso ex ante, cioè prima della sua sottoscrizione, al patto per la salute, come garanzia di finanziamento del sistema.
 
La logica più o meno è la seguente:
- si è definito il fondo sanitario di partenza (114,4 mld)
- si sono definiti i suoi incrementi (2mld per il 2019 1.5 mld per il 2021)
- si è subordinata l’allocazione effettiva degli incrementi alla stipula di un nuovo patto per la salute (2019/2021).
 
Il senso politico è compensare l’incremento di spesa previsto con una riduzione della spesa storica e quindi annullare se possibile l’incremento in quanto tale.
 
Il patto per la salute, ma che cosa è?
A me l’espressione “patto per la salute” non è mai piaciuta perché è fuorviante, inopportuna e ingannevole. Personalmente avrei usato “accordi di sostenibilità relativa” (ADSR) perché di soldi si tratta non di salute.
 
La storia dei “patti” inizia 18 anni fa (3 agosto del 2000), quando, il secondo governo Dalema (ministro della sanità Rosy Bindi/Umberto Veronesi) firma una prima storica intesa con le regioni, per inaugurare anche in sanità la stagione delle intese finanziarie. Quell’accordo non sarà subito indicato con il nome “patto per la salute” ma in esso troviamo i capisaldi della filosofia pattizia che, ricordo, ha come scopo principale il superamento dei ripiani a piè di lista.
 
Capisaldi che successivamente saranno ulteriormente definiti con la riforma del titolo V del 2001:
- lo Stato si impegna a garantire risorse “idonee”
- le Regioni si impegnano a non sfondare i propri bilanci
- gli eventuali sfondamenti sono a carico delle regioni.
 
Il Patto per la Salute è così definito: “Un accordo finanziario e programmatico tra il Governo e le Regioni, di valenza triennale, in merito alla spesa e alla programmazione del Servizio Sanitario Nazionale, finalizzato a migliorare la qualità dei servizi, a promuovere l’appropriatezza delle prestazioni e a garantire l’unitarietà del sistema”.
Un “contratto finanziario bilaterale” con lo scopo di garantire un equilibrio finanziario tra finanziamento e spesa.
 
Ma ha funzionato?
Se si mettono tutti i patti in fila si ha questa serie: 2000,2001 (tre accordi integrativi), 2005/2007, 2007/2009, 2010/2012, 2014/2016; 2016/2018.
 
Questa serie di intese in questi 18 anni è stata contraddetta solo in due casi:
- nel 2012 quando a causa dei tagli il patto non viene fatto (QS 10 ottobre 2012)
- nel 2014 e cioè quando il governo Renzi d’imperio annullò il patto sottoscritto tra ministero e regioni per 115 mld tagliando il fabbisogno a solo 111 mld .(QS 10 luglio 2014).
 
L’esperienza dei patti pur importante e per certi verso obbligatoria, in realtà non è andata molto bene e lo dimostra il fatto che:
- ancora oggi 11 regioni sono alla mercé dei loro disavanzi
- anche con un nuovo governo non ci siamo liberati dei problemi di de-finanziamento.
 
Ma non vi è dubbio che essi hanno cambiato il modo di finanziare la sanità e di conseguenza il genere di politiche sanitarie. Con i patti si comincia a cambiare la spesa storica e il profilo delle organizzazioni sanitarie.
 
Ma perché non sono andati bene? Cosa non ha funzionato?
Essi hanno fatto la fine dell’appropriatezza cioè nel tempo essi sono diventati sempre più accordi sul contenimento della spesa scadendo in una logica mortifera che è quella dell’omeostasi. Vi spiego di che si tratta.
 
Omeostasi finanziaria

Per logica omeostatica si intende una politica tesa a conservare le proprie compatibilità finanziarie anche difronte al variare delle necessità interne ed esterne del sistema. Omeostasi vale come conservare e quindi essa è antitetica al concetto di evoluzione.
 
In questa logica i patti per la salute da strumenti per lo sviluppo della salute diventarono nel tempo puri strumenti per l’autoregolazione finanziaria delle compatibilità.
 
Lo strumento pattizio avrebbe dovuto soddisfare almeno tre condizioni:
- che il saldo tra meno spesa e più spesa fosse invariante,
- che il governo intascasse i i risparmi auspicati pena i tagli lineari,
- che i risparmi finanziassero gli eventuali incrementi di spesa.

Nell’omeostasi la sanità resta ferma sapendo tuttavia che restare fermi, come ho detto più volte, vale come regredire. Oggi dobbiamo uscire dall’omeostasi.
 
Alla ricerca dell’autonomia perduta
Se esaminiamo da vicino le intese finanziarie fatte in questi 18 anni si comprende anche un’altra cosa e cioè il rapporto stretto tra un crescente de-finanziamento del sistema e un crescente indebolimento dell’autonomia regionale.
 
In questi anni le regioni pur di avere soldi hanno sacrificato gran parte della loro autonomia chinando il capo perfino di fronte alle loro preziose autonomie organizzative quelle conquistate con la riforma del titolo V.
 
Il dm 70 è l’esempio più imbarazzante di come le regioni abbiano perso l’autonomia di legge relativamente all’organizzazione dell’ospedale.
 
Oggi, come ho scritto anche recentemente, non vi è alcun dubbio che il regionalismo differenziato altro non è che un tentativo di recuperare l’autonomia perduta a causa degli obblighi che alle regioni sono derivati in questi anni soprattutto dal rispetto dei patti per la salute. Insomma i patti erano patti per modo di dire.
 
Sorge quindi un legittimo dubbio: ma come faranno le regioni a sottoscrivere il patto per la salute senza perdere ancora autonomia?
 
Come se nulla fosse
Pochi giorni fa, “come se nulla fosse”, è stata convocata presso il ministero della sanità la prima riunione per definire il patto per la salute 2019/2021. (QS 15 novembre 2018)
 
Quale è il problema? La legge di bilancio stanzia 3.5 mld fino al 2021 il che vuol dire (se ho capito lo spirito della legge di bilancio) che le regioni per avere quei soldi devono liberare dalla spesa storica la stessa quantità finanziaria.

Riusciranno i nostri eroi a liberare questi soldi? Chi lo sa! Bonificare la spesa storica non è impossibile anche se tutt’altro che facile. Per prima cosa, volontà politica a parte, si tratta di capire cosa bonificare. E questo secondo me non è chiarissimo né al governo né alle regioni.

Bisognerebbere fare quello che in 18 anni non si è mai fatto e cioè distinguere:
- le anti-economie (costi non giustificati da sufficienti benefici),
- le dis-economie (costi che con dei cambiamenti potrebbero essere minori di quello che sono)
- gli sprechi quelli che si intendono comunemente invocando l’appropriatezza

Sono tutti disvalori ma ognuno di essi ha bisogno di specifiche politiche, ad esempio per combattere:
- gli sprechi non necessariamente devo cambiare il sistema così come è organizzato al massimo devo qualificare i comportamenti degli operatori
- le anti-economie e le dis-economie necessariamente devo cambiare per esempio i modelli
- gli sprechi per essere eliminati non necessariamente hanno bisogno di risorse aggiuntive,
- le anti-economie e le diseconomie invece a volte hanno bisogno di risorse aggiuntive cioè di investire sul cambiamento.
 
Per esempio, l’innovazione informatica, può consentirmi di ridurre tante diseconomie ma per farlo devo avere delle risorse per comprare l’innovazione che mi serve. Ma se resto nell’omeostasi e quindi devo compensare i maggiori finanziamenti con meno spese, l’innovazione non riuscirò mai a comprarmela.
 
Sugli sprechi molte regioni hanno già fatto molto e non senza sacrifici e non credo che dopo 18 anni di raschiamenti del barile su questo terreno esse possano fare molto di più. Sulle anti-economie e sulle diseconomie si è invece fatto poco anche se è su questo terreno che a mio parere in futuro potranno derivare parecchie economie.
 
Per intervenire su questo terreno ci vogliono:
- idee di riforma
- e un po di quattrini.
 
In questa congiuntura non mi sembra che ci siano ne le prime e ne le seconde.
 
Economie senza disvalori
L’operazione del governo di chiamare in causa ex ante il patto per la salute, in via di principio, non mi trova contrario, essa è certamente preferibile ai tagli lineari e, tecnicamente, ha il significato alla fine di una spending review concordata.
 
Continuo a credere che la natura incrementale della spesa debba essere governata con economie bonificate dai disvalori, quindi dagli sprechi certo ma anche dalle anti-economie e dalle diseconomie.

Spero non si dimentichi che sono ormai 19 anni che razionalizziamo ( la legge 229 è del 99). Nello stesso tempo sono 19 anni che nell’omeostasi voliamo basso: burocratizzando i medici, amministrandoli con la scusa dell’appropriatezza, mettendo limiti alle prescrizioni, razionando le prestazioni soprattutto diagnostiche, frapponendo ostacoli all’accesso dei servizi. Ma in nessun caso a qualcuno è venuto il coraggio di mettere la mano nella buca della vipera, cioè di prendere di petto i disvalori che contano davvero.
 
Ma vediamo tra questi disvalori le loro differenze:
- lo spreco è un problema di uso ingiustificato
- l’inefficienza è una questione di rendimento,
- l’inadeguatezza è una questione di insufficienza.
 
I costi di questi disvalori sono molto diversi come genere e come quantità:
- i primi due sono “sovrastrutturali” nel senso che, dato un servizio il suo costo di base può variare ma solo in modo marginale quindi di fatto è “quello che è” ma con piccole variazioni
- il terzo è “strutturale” nel senso che il suo costo di base dipende dal modello o dall’organizzazione o dalle metodiche che si intendono adottare quindi può essere quelle che “conviene che sia” e quindi con grandi variazioni
 
Il principale disvalore è quello strutturale (nel senso del più grande quantitativamente) e in genere riguarda l’inadeguatezza dei modelli quindi del modo di operare del sistema nei confronti di una domanda sociale di salute ormai diventata altra.
 
E’ dall’inadeguatezza che nascono:
- le anti-economie e le dis-economie
- fenomeni costosi come il contenzioso legale, la medicina difensiva, la sfiducia della gente
- il ricorso alle medicine non convenzionali.
 
Ciò che costa davvero molto è il modo di essere inadeguato del sistema nei confronti del modo di essere complesso della domanda di salute di questa società.

Inadeguatezza
Le forme più comuni di inadeguatezza e quindi di anti-economie e diseconomie nei confronti dei bisogni di questa società sono:
- le organizzazioni tayloristiche dei servizi
- la medicina scientista cioè riferita alla malattia e non al malato
- una divisione del lavoro che scompone le professioni per compiti e mansioni e non per impegni
- gli ospedali concepiti ancora come castelli con tanto di fossato e di ponte levatoio
- i distretti fermi ad una vecchia modalità ambulatorialistica
- la prevenzione ridotta a vigilanza
- la medicina generale e la specialistica ambulatoriale ferme ad un modello mutualistico
- il prevalere della logica prestazionale sulla presa in carico
- il prevalere nei servizi della logica della struttura in luogo di quella della funzione
- la riduzione della cura a terapia
- l’uso del consenso informato con le logiche opportunistiche
- il prevalere nel rapporto con il malato delle giustapposizioni in luogo delle relazioni
- il considerare il malato ancora nonostante tutto un paziente quindi il paternalismo fuori luogo dei medici
- le aziende convinte che curare le malattie sia la stessa cosa che produrre delle scarpe
- contratti ormai ridotti solo a salario senza nessuna valenza politica generale
- l’uso scarso dell’information tecnology e della telemedicina
- la riduzione dell’appropriatezza a proceduralismo
- la medicina amministrata
- ecc ecc
 
Tutto questo nel suo insieme si configura come il gigantesco costo dell’inadeguatezza che il patto per la salute 2019/2021 dovrebbe almeno iniziare a redimere a condizione di voler uscire dall’omeostasi.
 
Dall’età della pietra alla post modernità
In sanità offrire servizi inadeguati cioè “vecchi” nelle loro modalità culturali e nelle loro prassi, nelle loro organizzazioni, nei loro postulati clinici, è come offrire, in piena post modernità, servizi dell’età della pietra, quindi strutturalmente più costosi e sovra-strutturalmente con basso rendimento di quello che potrebbero costare o rendere, ad altre condizioni.
 
I principali disvalori dell’età della pietra non derivano dall’abuso della pietra(spreco) e neanche dallo scarso rendimento della pietra (inefficienza) ma derivano dall’inadeguatezza della pietra a causa della quale alla fine il suo costo complessivo rispetto ai risultati prodotti è molto più alto rispetto a quello che si potrebbe avere se al posto della pietra avessimo ad esempio qualcosa di altro.
 
Permettetemi di richiamare la storia “dell’autobus farlocco” raccontata nella “quarta riforma” cioè un autobus grande sul quale salgono universalisticamente tutti, ma con un motore che non tira perché costruito assemblando i pezzi di motori vecchi.
 
Fuor di metafora rivolgendomi in particolare a coloro che celebrano ritualmente il quarantennale della riforma del 78: tutti i servizi del sistema sanitario (con pochissime eccezioni) culturalmente, ripeto culturalmente, sono ancora di stampo mutualistico, perché nonostante le tre riforme fatte in questi 40 anni, l’idea base di tutela del sistema mutualistico, a tutt’oggi non è stata ancora riformata, questo significa che è come se i servizi fossero, in piena post modernità, ancora all’età della pietra.
 
L’autobus farlocco è in realtà una super mutua universalistica. Ma nessuno ha il coraggio di dirlo.
 
Ne consegue che se si volesse fare un “patto per la salute” sarebbe molto più conveniente per tutti risparmiare sui costi strutturali superando l’uso della pietra e non sui suoi costi sovrastrutturali continuando ad usare la pietra inseguendo ideali efficientistici.
 
Cioè il vero risparmio a proposito di servizi non è usare meglio la pietra ma è passare dall’età della pietra alla post modernità. Cioè cambiare l’autobus farlocco.
 
“Il riformista che non c’è”
Il grande problema è che mentre usare meglio la pietra non implica nessun particolare pensiero riformatore ma solo un po di razionalità in più, passare dall’età della pietra alla post modernità implica per forza un pensiero riformatore cioè un po di razionalità in più non basta.
 
Questo lo dico a tutti coloro che su questo giornale continuano a confondere riordino con riforma. La riforma salta il fosso il riordino resta al di qua del fosso. La “quarta riforma” salta il fosso.
 
Oggi ne le regioni e ne il governo ma anche molti opinionisti che scrivono su questo giornale, hanno idea di come sia possibile saltare il fosso. Questo è il vero problema politico che alla fine è quello di sempre vale a dire “il riformista che non c’è”. Il mio vero ed unico grande avversario di sempre.
 
Per cui presumo che il patto per la salute tenterà, se va bene, di razionalizzare l’età della pietra non di superarla, perché non ha un pensiero adeguato per superarla. Continua a stare nell’omeostasi.
 
Amici miei, ve lo dico in modo pacato, ve lo dovete mettere in testa, la “quarta riforma”, patto o non patto, si dovrà fare per forza non perché lo dico io o perché ci sarà un sussulto di onestà intellettuale, ma perché in questa società qualsiasi altra cosa è meglio dell’età della pietra. A meno di privatizzare il sistema, per difendere questo sistema pubblico saranno, marxianamente, le ragioni economiche a spingerci verso la “quarta riforma”. Le stesse ragioni che 40 anni fa sempre marxianamente ci hanno spinto a sostituire il sistema mutualistico con il sistema universalistico.
 
E’ solo questione di tempo. O Marx o la privatizzazione. Non c’è altra alternativa. O si resta nell’età della pietra o la sanità accetta di entrare nella post modernità.
Si tratta di capire chi, a parte me, si prende l’onere di non essere più un “riformista che non c’è”.
 
Adeguato vale come meno costoso per tutti e in tutti i sensi
Oggi non abbiamo tanto bisogno di un patto per la salute omeostatico ma di un accordo riformatore per far evolvere il sistema ad una minore costosità strutturale.

La sfida non passa per la soluzione del problema dell’insufficienza a sistema invariante, come dicono tutti i finti riformatori, ma passa per la soluzione al problema dell’inadeguatezza, quindi cambiando il sistema per fare la magia dare ciò che è adeguato dare e spendere di meno.

Resto fedele al mio ancora troppo ignorato (ma non per colpa mia) principio di compossibilità:
- I diritti sono compossìbili con le risorse solo se il sistema dell’offerta è adeguato alle complessità della domanda
- un sistema con dis- economie e anti-economie non è compossibile perché è contraddittorio con la domanda quindi non è adeguato
- se non è adeguato è eccessivamente costoso.
- la sua costosità eccessiva è la contraddizione da rimuovere.
- la contraddizione si rimuove cambiando le condizioni che la creano
- per cambiare tali condizioni ci vuole una “quarta riforma”. Amen.
 
 
I fini sono i mezzi per auto compiersi
La compossibilità, pur proponendosi come la soluzione alle tante contraddizioni della compatibilità. non riesce ad entrare nelle teste non proprio brillanti, dei pensatori della nostra sanità. Costoro restano tenacemente legati ai problemi dell’insufficienza finanziaria quindi ai soldi quali mezzi per raggiungerla ma lasciando il sistema invariante. Costoro dovrebbero leggere John Dewey (un grande pedagogista americano) che rispetto al rapporto mezzi fini sostiene che “fini” sono mezzi” nel senso che essi per realizzarsi necessitano di essere usati a loro volta come mezzi.

Nella visione classica del rapporto mezzi/fini, i soldi in sanità non solo sono al servizio (valore strumentale) di uno scopo di finanziamento ma sono l’unico mezzo possibile. Senza soldi non c’è finanziamento. Il che vuol dire che il finanziamento della sanità si realizza solo se le leggi di bilancio aumentano il FSN. Questo naturalmente è vero ma non è vero che i soldi siano solo soldi. Oltre ai soldi vi sono altri generi di risorse che possono produrre soldi.

Nella visione della “quarta riforma” i fini diventano a loro volta mezzi, in modo da determinare attraverso di essi la propria realizzazione.

Per finanziare adeguatamente la sanità è vero mi servono i soldi che la legge di bilancio non mi da, ma proprio per questo devo:
- riformare la sanità per combattere gli sprechi, abbattere e anti-economie e le diseconomie,
- qualificare il lavoro, riorganizzare i servizi, ridefinire le professioni, ripensare la medicina, fare accordi con i cittadini ecc
 
I fini convocando il cambiamento in quanto tali essi saranno i mezzi per realizzarli.

Conclusione
Il patto per la salute invocato dal governo per non essere il solito patto per la salute dovrebbe strategicamente creare le condizioni per far uscire la sanità dall’omeostasi.
 
 
Ivan Cavicchi

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