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Giovedì 27 DICEMBRE 2018
Racconti di Natale nel sistema salute Italia (Prima storia)



Gentile Direttore,
l’antivigilia di Natale uno psichiatra riceve una telefonata da uno scienziato di stanza in Italia che gli chiede di ascoltare la voce di un suo Collega nato qui, ma che vive e lavora oltreoceano. Questi avrebbe urgenza di illustrare il caso di una giovanissima parente, di una adolescente con problemi di disturbo alimentare, per risolvere i quali i genitori non avrebbero trovato risposta nelle strutture sanitarie della Regione in cui risiede e non sarebbero stati in grado, da soli, di reperire percorsi terapeutici altri, condivisi con gli organi sanitari competenti. Lo psichiatra non si tira indietro e accetta di parlare con il cervelloinfuga.
 
La cosa avverrà tra quella stessa sera e la Vigilia di Natale. Il caso appare più complesso di quello illustrato nel colloquio prima con il familiare lontano, quindi con la madre della fanciulla. La ragazza, con una storia infantile solitamente trascurata di ostinazione e insubordinazione, aveva manifestato condotte anoressiche e oppositive all’inizio della scuola media inferiore, tanto da essere poi accolta in una struttura per minori in difficoltà situata in una Regione diversa da quella territorialmente competente.
 
Per tale soggiorno terapeutico il Servizio di Salute Mentale Infanzia Adolescenza di riferimento, pur non disponendo di risposte in sede e pur essendo quella strategia risultata efficace, si sarebbe opposto al pagamento della retta, perdendo forse una occasione, se è vero che lì la Nostra da una parte avrebbe manifestato un recupero non comune, dall’altra si sarebbe imbattuta in stili di vita autolesivi, per lei inediti, come l’abuso di sostanze, verso cui, al ritorno intempestivo a casa, avrebbe rivolto i suoi interessi, abbandonando gli studi, trascorrendo fuori casa la notte, cominciando a correre sul filo della lama che potrebbe portarla a un epilogo senza ritorno. L’attività clinica insegna quanto vicine siano condotte alimentari patologiche e abuso di sostanze, accomunate da una analoga autodistruttività.

“Non voglio che mia figlia finisca come Pamela, chiusa a pezzi in una valigia!”, è stato l’accorato appello di una madre consapevole, ma non rassegnata al peggio. La donna ha ammesso di trascorrere, con il marito, le notti fuori casa per “fare la guardia” alla giovanetta. La vita di tutti è diventata un inferno con lo spauracchio di un esito tinto di sangue. Questa famiglia sarebbe stata lasciata sola nelle sabbie mobili di una vicenda che è arduo non considerare psicopatologica, con l’alibi della necessità del consenso della minore alle cure, mentre risulta evidente a qualsiasi terapeuta della psiche, ardisco sperare, come sia impossibile l’incipit di un trattamento consenziente senza interrompere la escalation tossicofilica che dalle droghe cosiddette leggere è evoluta verso la cocaina e chissà cosa altro nella larga scelta tra quelle sintetiche in circolazione.

Come uscire dall’abbandono di questo e dei molti analoghi drammi ed evitare morti verdissime bagnate di sangue? La possibilità di rendersi utili c’è sempre, ma prevede creatività e ardimento terapeutici e l’imponente impiego di energia umana, più che di risorse (anche se le risorse vanno chieste con forza, quando servono, come ad esempio per pagare quella retta proibita), affinché la risposta a un problema complesso diventi composita e non complicata ad arte, fuorviata o assente.
 
La forza della Salute Mentale pensata da Franco Basaglia, di cui si moltiplicano le celebrazioni a quarant’anni dal varo della norma, consiste proprio nella articolazione di azioni pensate da un gruppo di lavoro interdisciplinare, in grado di individuare e interpretare una sofferenza psichica e di tratteggiare la via di uscita da questa, utilizzando i mezzi messi a disposizione, che non contemplano l’acritico internamento ospedaliero. Se solo pensassimo a cosa vorremmo fosse fatto per noi o per i nostri figli in una situazione analoga, sono convinta che usciremmo dall’impasse. La questione in gioco è, ora, arrestare la caduta libera di una ragazza senza dubbio disperata e confusa, vuoi pure fermandola contro la sua volontà. E non si dichiari, come sembra che sia stato detto a quella madre, che è impossibile fare un TSO a un minore.
 
Si tratta di una affermazione da ignoranti della legge e del relativo strumento terapeutico. Un TSO psichiatrico degno di questo nome -che resta fino a prova contraria un mezzo di cura- è praticabile a qualsiasi età e in qualsiasi luogo, fosse anche il domicilio del malato, una residenza, un carcere e, se necessario, un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’ospedale per adulti, qualora non ve ne fosse uno dedicato ai minori. Occorre interrompere il precipitare del processo autodistruttivo prima che sia raggiunga la meta finale e accogliere la Nostra, se del caso contro la sua volontà, per contrattare con lei un percorso di salute che non precluda nessuna chance e non escluda l’inserimento in luoghi distanti dalla sua terra, in assenza di risposte in loco, né più, né meno di ciò che si fa per altre patologie, persino a favore di minori residenti all’estero.

Un sistema psichiatrico che neghi una opportunità a questa giovanissima concittadina, che lasci lei e i suoi genitori in balia del malaffare notturno, che non provi a disegnare un piano di uscita dalla disperazione che pervade una qualsiasi famiglia italiana, non meriterebbe cittadinanza in questa nostra terra che si proclama aperta e disponibile. Si tratterebbe di una posizione clinica “indegna di un Paese appena civile”, come si espresse il Presidente Napolitano a proposito degli ex-OPG.
 
Gemma Brandi
Psichiatra psicoanalista
Esperta di Salute Mentale applicata al Diritto 

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