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Mercoledì 02 GENNAIO 2019
La salute del carcerato prevale su esigenze detenzione. Condannato medico che non aveva fatto ricoverare in ospedale detenuto anoressico, poi deceduto

Secondo la Cassazione il medico carcerario non può invocare la colpa lieve prevista dalla legge Balduzzi se non si attiva per far trasferire il carcerato anoressico (poi deceduto) in una struttura esterna, malgrado l'evidente e costante calo di peso e l'inefficacia delle cure. Per i giudici era stato riscontrato il nesso tra l'inadempimento del medico curante e la morte del carcerato che avrebbe potuto essere salvato, come affermato dai periti. Estraneo invece ai fatti il dirigente sanitario. LA SENTENZA.

La salute del detenuto carcerato prevale sui meccanismi di prevenzione del regime carcerario. Su questa base la Cassazione (sentenza 58363/2018) ha respinto il ricorso un medico carcerario che non aveva provveduto al trasferimento di un detenuto anoressico poi deceduto, assolvendo invece il dirigente sanitario della struttura, anche lui chiamato in giudizio.

E il medico accusato non può invocare la colpa lieve prevista dalla legge Balduzzi se non si attiva per far trasferire il carcerato anoressico in una struttura esterna, malgrado l'evidente e costante calo di peso e l'inefficacia delle cure.

Per i giudici era stato riscontrato il nesso tra l'inadempimento del medico curante e la morte del carcerato che avrebbe potuto essere salvato, come affermato dai periti.

Il fatto
Un detenuto al momento dell’arresto a gennaio 2009 aveva un peso di 79 kg. Dopo un mese esami di laboratorio rivelavano ipopotassiemia, ipocloremia e ipercalcemia e dopo meno di due mesi il peso corporeo era sceso a 63 kg. Veniva prescritta visita psichiatrica per stato ansioso, che però non era effettuata.

Dopo una serie di analisi e ricoveri successivi e dopo numerose negazioni degli arresti domiciliari per malattie, in strutture interne e de esterne al carcere, a distanza di sei mesi dalla carcerazione il peso corporeo del detenuto era sceso intorno ai 50 kg. Tra fine agosto e settembre il peso era sceso a 47,5 kg.

A novembre veniva fissata la camera di consiglio per la discussione dell'ennesima istanza di detenzione domiciliare per motivi di salute o differimento pena, corredata di relazione di aggiornamento in cui si insisteva sull'assenza di “atteggiamenti manipolativi in capo al detenuto, sul continuo calo ponderale e sull'ipopotassiemia, mai risoltasi, nonché sul conseguente elevato rischio di aritmie cardiache potenzialmente letali, come reso evidente dall'ultimo elettrocardiogramma, da cui emergeva l'allungamento dell'intervallo QT”.

A fine novembre gli elettroliti di potassio raggiungevano il valore di 3,3 mmoli/l e il detenuto, alle ore 8.10 del mattino, veniva trovato morto nel centro diagnostico terapeutico del carcere dove si trovava dagli agenti di polizia penitenziaria.

La sentenza
Secondo la Cassazione il mancato miglioramento delle condizioni di salute, malgrado la terapia seguita all'interno della struttura, avrebbe dovuto indurre il medico e il dirigente della Asl, anche lui condannato nella sentenza primaria, a scegliere un ospedale all'esterno, in una logica di prevalenza della salute del paziente rispetto alle esigenze “special-preventive” connesse al regime carcerario.

Un criterio, spiegano i giudici, in linea sia con il principio di umanizzazione sia con la finalità rieducativa della pena, visto che solo una condizione di benessere psico-fisico del carcerato può garantire il suo recupero e dunque il suo reinserimento sociale.

I giudici annullano invece senza rinvio, con la formula per non aver commesso il fatto, la condanna del dirigente sanitario della struttura. Pur essendo, infatti, in astratto individuata una sua posizione di garanzia, non era stata provata l'ingerenza sia nel trattamento del paziente, seguito dal medico incaricato, sia nella valutazione della compatibilità delle condizioni di salute con il regime carcerario.

La Cassazione nella sentenza, pur rilevando l’estinzione del reato per cui si procede per intervenuta prescrizione, “posto che il termine massimo di sette anni e mezzo risulta decorso”, decide di valutare i motivi di censura “dedotti dai ricorrenti ai fini delle statuizioni civili, con possibili effetti anche sulla decisione ai fini penali, qualora venga riscontrata l'insussistenza dei presupposti oggettivi o soggettivi del reato, e quindi sia accertata la mancanza di responsabilità penale, anche per insufficienza o contraddittorietà delle prove”.

La Cassazione rileva nella sentenza che “la tutela del diritto alla salute delle persone private della libertà personale si ricava, in primo luogo, in via interpretativa dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo e dalla Convenzione EDU, che sostanzialmente fanno riferimento al divieto di sottoporre i detenuti a trattamenti disumani e degradanti, sulla scorta di principi giurisprudenziali ricavati dalla Corte EDU, che riconducono il diritto alla salute nell'alveo dei diritti garantiti in ambito internazionale, quale corollario del diritto alla vita e della dignità umana”.

Poi ci sono le Regole penitenziarie europee che affermano che la finalità del trattamento consiste nel “salvaguardare la salute e la dignità” dei condannati nella prospettiva del loro reinserimento sociale, e la deliberazione approvata dall'ONU (dicembre 1982) in materia di “Principi di etica medica per il personale sanitario in ordine alla protezione dei detenuti”, nella quale è previsto che “gli esercenti le attività sanitarie incaricati di prestare cure a persone detenute o comunque private della libertà, hanno il dovere di proteggerne la salute fisica e mentale, nello stesso modo che li impegna nei confronti delle persone libere”.

“Tali principi e regole – si legge nella sentenza - si pongono in linea sia con il principio di umanizzazione sia con la finalità rieducativa della pena, se ed in quanto entrambi postulano il perseguimento di una piena ed efficace tutela del diritto alla salute del condannato, posto che solo una condizione di benessere psico-fisico dello stesso può garantire il suo recupero e perciò il suo reinserimento sociale. In tal senso quindi, in ossequio all'art. 27 Cost. e ai suoi corollari, il detenuto ha diritto alla tutela della sua salute sia fisica che mentale, posto che in effetti la pena può svolgere la propria funzione rieducativa verosimilmente su una persona mentalmente in grado di comprenderne la portata e il significato”.

Secondo la Cassazione “in tema di colpa professionale medica, l'instaurazione del rapporto terapeutico tra medico e paziente è fonte della posizione di garanzia che il primo assume nei confronti del secondo, e da cui deriva l'obbligo di attivarsi a tutela della salute e della vita. Inoltre, va anche rammentato che la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell'evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto della sussistenza della violazione di una regola cautelare (generica o specifica) volta a prevenire l'evento, nonché della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l'evento dannoso”.

“Nel caso di specie – continua la sentenza - non è stato superato il limite del ragionevole dubbio rispetto alla effettiva titolarità di una posizione di garanzia nei confronti della persona offesa, avuto riguardo alle evidenziate lacune motivazionali della sentenza impugnata in relazione alla effettiva ingerenza del dirigente nel trattamento sanitario e nelle scelte riconducibili alle valutazioni di compatibilità delle condizioni di salute del detenuto con il regime carcerario. Tutto ciò a fronte della riconosciuta e prevalente attività gestionale e amministrativa del medico nell'ambito della struttura organizzativa complessa da lui diretta, avente caratteristiche e finalità assai diverse rispetto alla tipica attività medica a diretto contatto con i pazienti, cui si riconducono gli obblighi di garanzia per la tutela della loro salute, ai fini della operatività della c.d. clausola di equivalenza di cui al secondo comma dell'art. 40 cod. pen.”.

“Le superiori considerazioni – conclude la Cassazione  - consentono già in questa sede di escludere la responsabilità penale del medico dirigente sanitario della struttura in ordine al reato a lui ascritto, palesandosi la superfluità di un nuovo giudizio di merito sul punto. La gravata sentenza va, pertanto, annullata senza rinvio nei confronti del medico, per non aver commesso il fatto; tale proscioglimento comporta ex lege il venire meno nei confronti del medesimo anche della condanna al risarcimento dei danni in favore delle parti civili”.

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