quotidianosanità.it

stampa | chiudi


Mercoledì 02 GENNAIO 2019
Si abbia il coraggio di costruire il nuovo Patto per la salute a partire dai cittadini

Chiudiamo alla svelta il contratto della sanità, senza le risorse umane, tutte, non ce la possiamo fare e mettiamoci pancia a terra a lavorare certo per combattere sprechi, illegalità, clientelismi di ogni genere. Ma sarebbe davvero innovativo che il patto per la salute lei cominciasse per una volta a costruirlo prima con i cittadini, le loro rappresentanze, le risorse umane presenti nelle strutture sanitarie, ascoltando anche tecnici esperti del settore indipendenti.

Abbiamo appena finito di celebrare i 40 anni dell’istituzione del SSN, il primo servizio universalistico di garanzia delle cure, una delle grandi conquiste del nostro Paese. Abbiamo ricordato come grazie ad esso è stato possibile contenere al minimo la mortalità infantile e materna, aumentare le aspettative di vita dell’intera nazione, essere al terzo posto per lo ‘stato di salute’ della popolazione secondo i dati OCSE.

Nel contempo abbiamo appena approvato la legge di bilancio la quale tra luci ed ombre demanda quasi tutte le scelte di innovazione del sistema sanitario di cui discutiamo da tempo al futuro patto per la salute tra stato e regioni, molte delle quali cavalcano l’istituto della maggiore autonomia anche nella sanità.

Oggi finite le celebrazioni e iniziato il nuovo anno non possiamo nasconderci che il nostro SSN è in sofferenza e soprattutto non è in sicurezza.
Esistono zone d’eccellenza e zone, nel resto d’Italia, dove mancano i servizi essenziali d’assistenza. Questo stato di cose è all’origine dei famosi e penosi ‘viaggi della speranza’  dal sud al nord d’Italia.

Non si possono ignorare i ritardi e le difficoltà che contraddistinguono il nostro sistema sanitario. In particolare ricordiamo la necessità di una diversa allocazione delle risorse economiche dall’ospedale verso il territorio, la prevenzione vaccinale, l’uso inappropriato di antibiotici, il lento accesso ai farmaci innovativi, le disparità regionali e la scarsa digitalizzazione del sistema.

Nel nostro Paese –secondo il Rapporto Meridiano sanità del 2017 – in media, si attendono 15,6 mesi dall’approvazione alla prima commercializzazione di un farmaco. Un tempo cinque volte più lungo rispetto alla Germania. In questo contesto si evidenzia anche l’inadeguatezza delle risorse economiche destinate al settore, che sono “inferiori rispetto alla media europea mentre, l’incidenza della spesa sanitaria pubblica sul Pil è in calo, ed è destinata a diminuire, nonostante l’ultima legge di bilancio abbia aumentato di poco le risorse del fondo sanitario e dedicato una maggiorazione di 4 miliardi di euro al fondo per gli investimenti in sanità.

Poteva andare peggio viste le estenuanti trattative con l’Europa e tuttavia non posso non vedere che la spesa per long-term care e la protezione sociale, rimangono due criticità che non possono essere ignorate in Italia, una nazione in cui la popolazione over 65 è destinata ad aumentare, passando da 13,4 milioni nel 2016 a 16 milioni nel 2030.

Forse dovremmo ragionare sul fatto che le strutture centrali, il Ministero della salute pur nel rispetto delle autonomie regionali, dovrebbe avere un qualche potere in più per aiutare le Regioni a fare in modo che venga garantito pari accesso alle cure per tutti. In questo senso mi pare giusto fissare dei paletti che garantiscano la solidarietà tra regioni ricche e regioni a maggior disagio di sviluppo economico. Il SSN è un bene comune, una conquista irrinunciabile per i cittadini e serve per tutelare la coesione sociale e la democrazia, ma è anche un volano per l’economia del nostro paese.

Purtroppo, questo concetto stenta ad entrare nella cultura politica, soprattutto del MEF, che con le ultime politiche economiche pubbliche ha previsto attraverso il DEF 2019/2020 che il rapporto tra la spesa sanitaria pubblica ed il Pil si attesti al 6,3 % quando la stessa OMS ci dice che il livello massimo sotto il quale non si può andare per garantire un SSN degno di questo nome è il 6,5%. 

Continuiamo a non voler vedere che l’SSN e tutta la filiera della salute produce oltre l’11% del PIL.  Quindi è un settore virtuoso per l’economia, non è un costo. Non possiamo continuare a scandalizzarci solo quando i riflettori si accendono su abnormità, come le formiche nell’ospedale napoletano o la fila delle barelle ai pronto soccorso o le interminabili liste di attesa per diagnostica, specialistica ecc.

Tutto questo è il frutto di una politica miope che in nome di un universalismo selettivo è andata avanti acuendo ancor di più il divario nord sud e senza dirlo ha fatto in modo che agisse il teorema del chi più ha meglio si cura.  Perché non si riesce ad ottimizzare l’assistenza domiciliare, che andrebbe, al contrario di quanto avviene, molto più implementata in quanto evita il trauma psicologico a cui viene sottoposto l’anziano con continui ricoveri, senza poi considerare il risparmio economico che ne deriverebbe?

Non si può continuare a celebrare un universalismo che non c’è.
 
Chi può continuare ad ignorare che analizzando la composizione delle dichiarazioni dei redditi ai fini Irpef 2016 per tipologia di contribuente emerge che oltre il 50% delle imposte è versato dai lavoratori dipendenti, un altro 30% è a carico dei pensionati e meno del 15% del gettito arriva da imprenditori, commercianti e professionisti.
Chi può continuare ad ignorare che siamo il paese con una evasione fiscale ormai endemica dell’ordine di circa 130 miliardi di euro.
 
Chi non vede che nel 2016 la spesa complessiva per pensioni, sanità e assistenza è stata di 451,903 miliardi di euro contro i 447,36 miliardi del 2015 (+4,5 miliardi pari al +1% circa): pari a 181,225 miliardi di euro (176,303 nel 2015, con una crescita del 2,75%) la quota finanziata da contributi sociali versati dalla produzione, a fronte di una restante quota pari a circa 270,678 da erogare ricorrendo alla fiscalità generale (e quindi ricorrendo alle tasse pagate).

Che vuol dire? Che per finanziare la spesa per la protezione sociale sono occorse anche tutte le imposte dirette - l’Irpef (ordinaria, regionale e comunale), l’intero importo di Ires, Isos e Irap – e ulteriori 40,1 miliardi. Se di questo importo 32,5 miliardi derivano da contribuzioni Inail e altre prestazioni temporanee, i restanti 7,6 miliardi sono da ricavare attingendo alle imposte indirette, vale a dire Iva e accise.

Sono questi alcuni dei dati reali riguardanti il (difficile) finanziamento del sistema di welfare state italiano emersi dall’ultima edizione dell’approfondimento sulle dichiarazioni individuali dei redditi IRPEF e quelle aziendali relative all’IRAP, curato nell’ambito delle verifiche di sostenibilità del sistema di protezioni sociale italiano. Lo specchio di una  situazione indubbiamente complessa e che lo diventa ancor di più se si considera che il nostro Paese non vive uno dei suoi momenti migliori sotto il profilo dei fondamentali dell’economia: finanza pubblica, occupazione e produttività.

Nonostante le realtà reclami l’aumento delle prestazioni sociali,  soprattutto per la popolazione anziana con plurimorbilità e cronicità, i dati evidenziano come l’Italia sia già in grande difficoltà nel mantenere il proprio sistema di welfare state. E la domanda diventa allora inevitabile: se la maggior parte delle risorse sono impiegate nel finanziamento di pensioni, sanità e assistenza, con quali mezzi rilanciare lo sviluppo del Paese? E’ questa la domanda alla quale questa legge di bilancio non da risposte, con buona pace di tutti coloro che sperano che il reddito di cittadinanza, quota cento e la parzialissima flat tax, possano innescare un processo virtuoso di domanda interna, consumo e maggior sviluppo. Non ho usato a caso il verbo sperano, perché la realtà dice e chiede ben altro. Al Paese e ai cittadini serve lavoro, sviluppo ed un buon ed efficiente sistema di welfare, non solo assistenza.

Il reddito di cittadinanza si può fare, ma a condizione di avere un’anagrafe dell’assistenza, dei centri per l’impiego funzionanti ed una ripresa dello sviluppo che offra occupazione e crescita; così è accaduto laddove esiste una qualche forma di reddito di cittadinanza senza tenere conto che quando andiamo a vedere dove funziona, si tratta di paesi che hanno condizioni strutturali ben diverse dalle nostre e soprattutto caratterizzati da fisiologici livelli di evasione fiscale e di lavoro nero.

Diversamente, questo strumento rischia di diventare un boomerang potendo configurarsi come un serio limite per lo sviluppo del nostro paese. Con tutto ciò dovremo fare i conti in questo 2019 augurandoci di non avere Saturno contro e nessun evento catastrofico. Confesso che non sono ancora riuscita a togliermi dalla mente il crollo di Ponte Morandi nella mia città.

Sono convinta che il Ministro Grillo abbia difeso con le unghie e con i denti le risorse per la sanità, riuscendo a strappare anche i 4 miliardi per gli investimenti. Impresa non facile nella trattativa a tutto campo con l’Europa, ma il ministro sa o non può non sapere che le sfide per la sanità sono molte ed insidiose, perché il futuro per la tenuta del sistema si chiama “risorse umane ed innovazione” e ciò al di la di tutte le maggiori efficientizzazioni possibili, ha un costo d’investimento strategico notevole che si somma al costo della longevità che il terzo millennio reca con se e che non è comprimibile più di tanto.
 
Perciò chiudiamo alla svelta il contratto della sanità senza le risorse umane, tutte, non ce la possiamo fare e mettiamoci pancia a terra a lavorare certo per combattere sprechi, illegalità, clientelismi di ogni genere, ma sarebbe davvero innovativo signora ministro Grillo che il patto per la salute lei cominciasse per una volta e per davvero a costruirlo prima con i cittadini, le loro rappresentanze, le risorse umane presenti nelle strutture sanitarie, ascoltando anche tecnici esperti del settore indipendenti, per andare più forte al confronto con le regioni, che tentano da sempre di cavalcare la tigre del “ prima io e poi si vedrà”, ma così non può funzionare, sulla salute è aberrante.
 
Ho avuto l’occasione di servire il paese nella sanità, con un Ministro, uomo di scienza, libero da sudditanze politiche, con cui ho potuto sperimentare che se si vuole si può.  Abbiamo tolto i tickets sui farmaci, iniziato la prevenzione oncologica con gli screening gratuiti per fasce d’età, costruito il progetto dell’Ospedale del futuro con Renzo Piano, avviato l’informatizzazione del ministero della salute, anche allora con una lotta continua con il ministero dell’economia e contro i falsi riformismi, ho ripreso in seguito la mia professione di ricercatore in economia sanitaria insegnando proprio nella patria del NHS e dal 2008 ho visto di persona il declino nei paesi europei dei sistemi di welfare a seguito della grande crisi finanziaria.
 
Nel mondo globalizzato non c’è una ricetta magica, certo si può osare di più, ma allora si deve avere la forza delle idee e delle alleanze, per vincere, per questo penso che se il patto per la salute lo si costruisce a partire dalla domanda (cittadini) lo si coniuga con l’offerta (il personale della sanità) lo si tiene come scudo nel confronto istituzionale si è più forti, o perlomeno si hanno più armi per combattere, lo dico con molta umiltà e nel rispetto delle istituzioni, perché a guardare le cose del mondo con gli occhi scevri dalle ideologie le cose sono complicate e niente affatto facili da qui ai prossimi tre anni, perciò abbiamo tutti il dovere di rendere più solida e migliore la sanità che abbiamo e al tempo stesso non privarci di ciò che la scienza e le nuove tecnologie mettono a disposizione per migliorare la salute dell’uomo e la qualità della nostra vita presente e futura.
 
Grazia Labate
Ricercatore in economia sanitaria già sottosegretaria alla sanità  

© RIPRODUZIONE RISERVATA