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Giovedì 31 GENNAIO 2019
Cambiare modello ospedaliero? La logica di un’evoluzione



Gentile direttore,
“Non è la più intelligente delle specie quella che sopravvive; non è nemmeno la più forte; la specie che sopravvive è quella che è in grado di adattarsi e di adeguarsi meglio ai cambiamenti dell’ambiente in cui si trova”. Questa frase attribuita a Charles Darwin è il filo conduttore non solo dell’esistenza degli esseri viventi, ma anche dei modelli nei quali gli esseri viventi decidono di organizzare la loro esistenza. In campo socio-sanitario stiamo assistendo ad un cambiamento demografico-epidemiologico che rappresenta e sempre più rappresenterà una sfida al nostro modo di concepire la medicina e le organizzazioni sanitarie. Talvolta i cambiamenti di modello sono “sfizi” per rappresentare e marcare nuove gerarchie ed in tal caso sono spesso fallimentari, altre volte invece sono strettamente legati ai mutamenti ambientali ed in tal caso essi diventano non solo utili ma necessari.
 
L'era della superspecializzazione. Agli inizi degli anni ’80, in zone diverse del globo terrestre si assiste ad un fenomeno particolare che riguarda i modelli ospedalieri. Nel territorio europeo gli ospedali, che già da tempo si stavano sviluppando secondo la “teoria della specialità”, si dividono sempre più in strutture fisiche rigide, all’interno delle quali lavorano equipe (anche micro-equipe) caratterizzate dalla loro specializzazione.
 
Il processo prende talmente piede che da alcune specializzazioni gemmano super-specializzazioni con al loro interno micro-micro equipe. Il paziente che giunge al Pronto Soccorso di un ospedale viene assegnato ad uno di questi “scompartimenti” sulla base della sua patologia prevalente (nefrologia, gastroenterologia, pneumologia ecc.) e all’interno della struttura ospedaliera viene seguito dai medici di quella specialità. In quest’Era ci si forma e ci si concentra sulla singola patologia d’organo e si discute se le specialità generaliste come la Medicina Interna siano destinate a scomparire.
 
Nel territorio dell’America del Nord si era invece sviluppata la “teoria del regular doctor” (il paziente ricoverato in ospedale continuava ad essere seguito dal proprio medico di fiducia), ma agli inizi degli anni ’80 sensibili modifiche del modello sanitario portano ad un quadro in qualche maniera simile a quello europeo. Nel giro di pochi anni si assiste ad un allontanamento del general practitioner dalle corsie e di conseguenza il paziente ricoverato in ospedale viene seguito da specialisti d’organo sulla base della patologia prevalente. L’analisi di tali modelli mette in evidenza come entrambi siano caratterizzati dall’ intervento di molti consulenti di specialità diverse con conseguente aumento di diagnosi, aumento di terapie, aumento dei costi, frammentazione delle cure, relativa mancanza della presa in carico del paziente.
 
Il cambiamento ambientale. A partire dalla fine della seconda guerra mondiale vi è stato un costante aumento dell’aspettativa di vita alla nascita. In Italia, nel 2016 si è superata per la prima volta la soglia degli 83 anni e si stima che nel 2040 si supererà quella degli 84 anni. Tale aumento ha determinato (e determinerà sempre più) un sensibile invecchiamento delle popolazioni. L’aspettativa di vita in buona salute a 65 anni è invece diminuita. Questo è dovuto in parte ad un incremento di diagnosi, ma anche alla possibilità, grazie alle cure, di sopravvivere più a lungo alle malattie. L’invecchiamento, associato a importanti mutamenti sociali, genera una sottopopolazione nuova che presenta problematiche non rilevate o sottovalutate negli anni passati.
 
Si sta assistendo ad un incremento di malati pluripatologici, oncologici, con problematiche sociali, incremento della malattia di Alzheimer, della disabilità. Già adesso – ma lo sarà sempre più nel prossimo futuro – si ha netta l’impressione che ci sia bisogno più di una presa in carico complessiva del paziente piuttosto che dell’assegnazione alla singola unità specialistica, più attenzione ai reali bisogni di quel paziente che a interventi superspecialistici. 
 
Le mutazioni. Negli anni Cinquanta, negli ospedali militari americani si procede alla separazione di alcuni malati dagli altri sulla base della gravità della condizione clinica. E’ la mutazione che porterà al modello chiamato “progressive patient care” caratterizzato (Raven, 1962) dal raggruppamento sistematico dei pazienti in base al loro grado di malattia e di dipendenza assistenziale. Nel 2005 una legge regionale della Toscana dà il via al modello chiamato “Ospedale per Intensità di cura” facendo espressamente cenno a una strutturazione delle attività ospedaliere in aree differenziate secondo le modalità assistenziali, l’intensità di cura, la durata della degenza ed il regime di ricovero, superando gradualmente l’articolazione per reparti differenziati secondo la disciplina specialistica.
 
Si tratta in una certa maniera della contestualizzazione del modello organizzativo americano. L’ospedale per intensità di cura si propone di mettere al centro i bisogni assistenziali del paziente; le risorse tecniche e professionali non mediche non sono più “proprietà” dell’Unità Operativa ma messe a disposizione di aree dove anche i letti diventano funzionali in ragione delle caratteristiche dei malati. “Continuità di cura” “Medico tutor” e “Briefing” vengono considerati strumenti essenziali del modello.
 
Nel frattempo però negli USA avviene un’altra importante mutazione. Nel 1977 l’Università di Chicago introduce il concetto di “Hospital Medicine” definito come “il campo della Medicina Interna che si concentra sulla care del paziente ospedalizzato”, e nel 1996 un articolo apparso sul New England Journal Medicine rende edotto il mondo scientifico internazionale di cosa stava avvenendo. Per arginare la frammentazione di cura, il numero di consulenze, l’overdiagnosi e l’ overtrattamento - e quindi i costi -, in alcuni ospedali si struttura la figura dell’ “hospitalist”. Si tratta di un medico il cui focus primario professionale è la “care” complessiva del paziente ospedalizzato.
 
L’hospitalist deve avere competenze sui vari campi della medicina anche se non necessariamente ultraspecialistiche, capacità di leadership e di coordinamento degli interventi multidisciplinari e multiprofessionali, collegamento con il medico di primary care all’inizio e alla fine della degenza. I pazienti che giungono ai Pronto Soccorso non vengono assegnati a singoli specialisti o singole unità specialistiche, bensì nella quasi totalità all’hospitalist, indipendentemente dalla patologia motivo di accesso. In tali casi l’hospitalist prende direttamente in carico il paziente, programma il piano di cura, attiva le sole consulenze ritenute necessarie, è il responsabile della terapia, del percorso di degenza e della dimissione.
 
L'evoluzione. In Italia, dopo la regione Toscana, altre regioni (es. Piemonte, Emilia-Romagna) introducono nei loro piani sanitari la riorganizzazione secondo il modello dell’Ospedale per Intensità di Cura. Nella realtà l’applicazione di tale modello procede a macchia di leopardo, venendo a creare situazioni ben diverse tra un ospedale e l’altro. Diversi ostacoli si interpongono nella realizzazione effettiva del modello (turnistica, disallineamento medico-infermiere, logistica, ecc) rendendola nei fatti un’evoluzione che si sta arenando “a metà del guado”. Forse anche per questo non esiste nessuno studio riguardante l’efficacia e l’efficienza di tale modello.
 
Negli USA invece, col passare del tempo, il modello “hospitalist” prende il sopravvento su quello basato sulla figura del “general practitioner all’interno dell’ospedale” oramai in estinzione. Si creano gruppi di hospitalists senza distinti paletti gerarchici, all’interno dei quali ogni singolo hospitalist si fa carico di un numero definito di pazienti. L’hospitalist affina le sue capacità professionali, acquisisce competenze nell’ambito di diverse procedure (toracentesi, paracentesi, rachicentesi, incannulamento vene centrali ecc), segue pazienti chirurgici e ortopedici nel pre e post-intervento, diviene esperto nell’ambito della scelta delle priorità del paziente e della palliazione. Inoltre si dedica alla formazione, alla ricerca clinica e diviene paladino della qualità e dell’appropiatezza. Si costituisce la Society of Hospital Medicine e sempre più Direzioni desiderano hospitalists all’interno dei loro ospedali.
 
L'era degli hospitalist. Nell’arco di due decenni il numero di hospitalists negli Sati Uniti d’America è passato da poche centinaia a 50.000, e attualmente l’80% degli ospedali americani con più di 200 letti adotta il modello hospitalist, attestando l’utilità del modello. Si tratta della più grande rapida crescita di una specialità nella storia della Medicina. In quest’ Era si ritiene che la care complessiva del paziente e l’attenzione alla choosing wisely sia spesso più importante della supertecnologia “a tutti indipendentemente da tutto” e che la visione olistica tipica della Medicina Interna non debba affatto scomparire. Per oltre l’80% gli hospitalists americani sono specialisti in Medicina Interna. Nella restante parte sono inclusi alcuni medici di primary care che hanno continuato a seguire i loro pazienti ospedalizzati divenendo di fatto dei family medicine hospitalists. I risultati di diversi studi che hanno confrontato il modello tradizionale rispetto al modello hospitalist dimostrano come quest’ultimo sia in grado di ridurre costi e lunghezza della degenza senza perdere in qualità né in soddisfazione del paziente.
 
La migrazione. Come sempre è accaduto, quando una mutazione seleziona modelli capaci di sopravvivere ed evolversi di fronte a cambiamenti ambientali, questi sono destinati ad espandersi. Già in diverse aree oltre gli USA il modello hospitalist è stato adottato e contestualizzato. In Italia, i grandi cambiamenti demografico-epidemiologici descritti stanno mettendo sotto stress il nostro Servizio Sanitario Nazionale. I prossimi anni potrebbero dare un colpo micidiale in ragione dell’aumento dei costi del sistema, della carenza di risorse, della carenza di medici e chirurghi. Qualcuno predice l’arrivo di una tempesta perfetta e la necessità di un cambiamento di modello diviene non più rinviabile.
 
Il modello “Ospedale per Intensità di Cura” nato con molto entusiasmo pare essersi insabbiato con scarsa capacità di andare avanti. L’hospitalist è verosimilmente l’“anello mancante” e l’introduzione del “modello Hospitalist” nel “modello Ospedale per intensità di cura” contribuirebbe a spingere quest’ultimo verso la sua naturale evoluzione. “Non è la più intelligente delle specie quella che sopravvive; non è nemmeno la più forte; la specie che sopravvive è quella che è in grado di adattarsi e di adeguarsi meglio ai cambiamenti dell’ambiente in cui si trova”. 
 
Dr. Valerio Verdiani
Direttore medicina interna ospedale di Grosseto membro Organismo Regionale di Governo Clinico

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