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Lunedì 11 FEBBRAIO 2019
Regionalismo differenziato. Se anche i Vescovi lanciano l’allarme

“Forte è il timore che con la legittima autonomia dei territori si possa pervenire ad incrinare il principio intangibile dell'unità dello Stato e della solidarietà, generando dinamiche che andrebbero ad accrescere il forte divario già esistente tra le diverse aree del Paese, in particolare tra il Sud ed il Nord”. Così la Cei nella sua recente conferenza a Reggio Calabria

Nei giorni scorsi, a proposito di regionalismo differenziato, vi è stata la riunione della conferenza episcopale italiana, svoltasi a Reggio Calabria, nella quale, i vescovi calabresi, hanno espresso “profonda preoccupazione per i processi di regionalismo differenziato in atto”.
 
L’uguaglianza fondamentale
Forte è il timore che con la legittima autonomia dei territori si possa pervenire ad incrinare il principio intangibile dell'unità dello Stato e della solidarietà, generando dinamiche che andrebbero ad accrescere il forte divario già esistente tra le diverse aree del Paese, in particolare tra il Sud ed il Nord”. Questo ha detto la Cei
 
Che sia la Cei a intervenire sulla questione del regionalismo differenziato sottolinea e ci fa comprendere che il tema dell’eguaglianza degli uomini ha un significato non solo politico non solo culturale e morale ma perfino teologico.
 
Nel documento finale, la CEI, cita le parole di Papa Francesco dove “l’uguaglianza fondamentale”, come viene definita, è interpretata come una “grazia spirituale”, quindi un dono del Signore, che segna il riscatto dell’uomo dalle sue precedenti condizioni di immoralità e di assoggettamento.
 
Ma“l’uguaglianza fondamentale”, dice il Pontefice, se è una “grazia divina” non solo, non è di nostra proprietà cioè qualcosa che “ci spetta e che ci appartiene”, ma, in nessun modo, essa può essere “disprezzata” credendo che vi siano uomini ai quali riconoscerla e uomini ai quali negarla.
 
Cioè “l’eguaglianza fondamentale” non tollera privilegi semplicemente perché dice la Cei, i doni del Signore, in quanto tali, sono per tutti.
 
I diritti e i doni del Signore
I diritti, naturalmente su un ben altro piano, sono per tutti, esattamente come i “doni del signore”, di cui parla la Cei e anche essi non possono essere disprezzati riconoscendo privilegi per qualcuno e svantaggi per qualcun altro.
 
 
Il diritto alla salute, per essere tale, non può che dare luogo ad una “uguaglianza fondamentale”. Senza eguaglianza fondamentale esso non è più tale. Esso è negato.
 
Il regionalismo differenziato, in tema di sanità, ha come scopo politico la negazione dell’eguaglianza fondamentale, scopo che per essere raggiunto ha a sua volta bisogno di sostituire ciò che rende uguali, con qualcosa che renda diversi.
 
Il cuore del regionalismo differenziato è tutto in questa sostituzione e più esattamente quella che al posto del valore del diritto pone il valore del reddito. Mentre il primo rende uguali il secondo rende diseguali. Mentre il primo è un bene collettivo il secondo è una proprietà privata. Mentre il primo è per tutti il secondo è solo per alcuni.
 
Regionalismo differenziato e privatizzazione
La sostituzione diritto/reddito è, come è noto, alla base di ogni sistema assicurativo e di ogni politica di privatizzazione del sistema pubblico (welfare aziendale, fondi e mutue), il che fa pensare che il regionalismo differenziato, in fondo in fondo, abbia la stessa natura di un processo di privatizzazione.
 
Lo Stato, cambiando il criterio di assegnazione delle risorse alle regioni, cioè sostituendo il bisogno di salute del territorio con la ricchezza prodotta dal territorio (gettito fiscale), è come se “privatizzasse” la regione, nel senso di autorizzarla a comportarsi con l’autonomia di un ente non pubblico ma in qualche modo parastatale.
 
Se di soldi si deve parlare e non di diritti e se i soldi sono della regione allora deve essere la regione, esattamente come un ente privato o parastatale, che decide come spenderli. Cioè è la proprietà delle risorse, secondo la teoria del regionalismo differenziato, che dà il diritto alle regioni ad essere autonome dal resto del sistema.
 
L’autonomia rivendicata dalle regioni è prevalentemente libertà di spesa intendendo per spesail complesso di denaro che viene prodotto e utilizzato dalla regione, per garantire ai propri cittadini dei servizi.
 
La libertà di spesa implica per forza una autonomia  di tipo privato o, se preferite, di tipo parastatale.
 
Meno soldi pubblici ma anche più soldi privati
E’ vero, come ho più volte ribadito, che il regionalismo differenziato si basa sul compromesso “meno soldi dal governo più poteri di governo” ma se tra i poteri di governo, come chiedono le regioni, rientra la libertà di accedere ai fondi sanitari, quindi di procurarsi le risorse non solo per via pubblica ma anche per via privata, si comprende come le regioni, in realtà, possono avere meno soldi dal governo ma senza che nessuno impedisca loro di procurarsi altri soldi dal privato. Anche questo conferma che regionalismo differenziato e privatizzazione sono forme diverse della stessa cosa.
 
Alle regioni non interessa se, acquisendo risorse private, cambia la natura pubblica del servizio sanitario, cioè se di fatto il pubblico perde il ruolo di attore principale (sistema multi-pilastro), ciò che alle regioni interessa è avere più risorse possibili e avere la libertà di spesa attraverso la proprietà delle risorse prodotte in due modi: o con il gettito fìscale o con i fondi sanitari.
 
In questa ottica è inevitabile che si ponga, rispetto al sud, un problema di conflitto redistributivo di risorse.
 
L’ideale privatistico del regionalismo differenziato inevitabilmente va a scapito di qualsiasi ideale egualitario fino a scadere nella logica, di quello che in economia, si definirebbe “ottimo paretiano”: non è possibile allocare delle risorse ad una regione migliorandone le condizioni, senza peggiorare le condizioni di un’altra regione.
 
Concorrenza contro solidarietà
Quindi, secondo il regionalismo differenziato, per avere una allocazione efficiente di risorse alle regioni del nord, bisogna necessariamente peggiorare le condizioni finanziarie delle regioni del sud.
 
Se nessuna regionepuò migliorare la propria condizione sanitaria senza che un’altra regione peggiori la sua allora vuol dire che l’ideale guida del regionalismo differenziato non è più la solidarietà ma la concorrenza.
 
La concorrenza arriva automaticamente all'ottimo nel senso proprio inteso dal regionalismo differenziato che è quello che ogni regione spende solo per se la ricchezza in essa prodotta, quasi a voler dire che la solidarietà è la negazione dell’ottimo paretiano e quindi l’antitesi dell’efficienza. La solidarietà è sostanzialmente una anti-economia.
 
La condizione di partenza per il regionalismo differenziato in senso paretiano è quindi la concorrenza tra le ricchezze diverse delle regioni. La regione più ricca avrà più spesa sanitaria.
 
La regione come un intermediatore finanziario quindi una mutua
Nel momento in cui il diritto alla salute viene sostituito con il reddito o della regione o del cittadino, la regione diventa come se fosse di fatto un intermediatore finanziario, che intercetta tanto le risorse pubbliche che quelle private, quindi una mutua, che ragiona esattamente come una mutua con la logica lineare del reddito (equivalente, nelle mutue, del contributo) e della prestazione. Maggiore sarà il reddito e maggiori saranno le prestazioni. E viceversa. In qualità di mutua la regione garantisce prestazioni che avranno inevitabilmente una natura ovviamente mutualistica non più universalistica.
 
Sul piano giuridico- economico la prestazione è ciò che si fa per adempiere ad un contratto, una prassi quindi predefinita da una obbligazione.
 
Per cui la qualità della prestazione dipende dalla natura dell’obbligazione.
 
Se l’obbligazione deriva dal diritto alla salute, allora la prestazione dovrà essere adeguata ai bisogni del cittadino, se l’obbligazione deriva dal reddito della regione, nelle sue varie forme, la prestazione deve essere adeguata al reddito trasformato in tariffa o in costo standard.
 
Nel primo caso l’obbligazione contrattuale ha un forte carattere sociale, nel secondo un forte carattere privato.
 
Quando sostengo che regionalismo differenziato e privatizzazione sono sostanzialmente la stessa cosa, intendo riferirmi al carattere privatistico di una obbligazione derivante dal reddito.
 
Reddito bisogni e prestazioni
Dedurre quello che bisogna dare a un cittadino o dal reddito o da un bisogno costituisce la grande differenza politica morale teologica tra un sistema universale e un sistema particolare:
- nel primo caso la prestazione sarà decisa dalla deontologia cioè dal dovere morale degli operatori di assicurare ciò che è adeguato alla persona,
- nel secondo caso da un costo standard.
 
Sappiano i sostenitori del regionalismo differenziato che, in ogni caso, restare ancorati alla “prestazione” concetto anacronistico di stampo mutualistico e, per giunta, definirla in relazione ad una tariffa o a un costo standard, significa, sul piano culturale, sociale, morale, offrire, ad una società, tanto complessa quanto esigente,  una sanità e una medicina, cioè una idea di tutela, vecchia e superata, che è per l’appunto quella mutualistica, che si propone in modo spersonalizzato, e quindi di offrire una sanità non solo immorale perché iniqua ma anche culturalmente inadeguata e insoddisfacente perché spersonalizzata. La persona di cui prendersi carico sarà sempre inscritta in una tariffa.
 
E questo, a parte la questione dei soldi, per il cittadino, in quanto tale, non è certamente un affare. Nel regionalismo differenziato sul piano culturale il malato torna paziente, torna ad essere sintomo, organo malato, il malato torna ad essere malattia e quindi la medicina resta quella che non dovrebbe essere più vale a dire un prestazionificio e il medico un semplice prestatore d’opera. 
 
Il contro riformismo non dichiarato
Tornando agli aspetti politici del regionalismo differenziato, vorrei che non sfuggisse un aspetto strategico importante di tutta la vicenda: un governo che a livello centrale, come quello in essere, che si dice contro la privatizzazione del sistema e che quindi scrive nel contratto di governo che il servizio sanitario nazionale va difeso e confermato, ma che, nello stesso tempo, concede alle regioni la libertà di contro-riformare la natura pubblica del sistema, diventa suo malgrado un governo quantomeno contraddittorio.
 
Nel contratto di governo a proposito di sanità  (punto 21) è scritto che:
“È prioritario preservare l’attuale modello di gestione del servizio sanitario a finanziamento prevalentemente pubblico e tutelare il principio universalistico su cui si fonda la legge n. 833 del 1978 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale
 
Devo dire che quando ho letto per la prima volta l’avverbio “prevalentemente” (ripetuto due volte nel testo del contratto) ho pensato che gli estensori si riferissero alla possibilità di tollerare forme di copayment, ma ora che è scoppiato il problema del regionalismo differenziato, questo avverbio acquista un significato piuttosto ambiguo. “Prevalentemente” vuol dire che, nella maggior parte dei casi, il sistema si finanzia con il fisco ma in altri casi si può finanziare in altri modi. Cioè che non si escludono altre forme di finanziamento.
 
Forse il ministro Grillo dovrebbe chiarire il testo del contratto di governo quindi il punto 21, con una interpretazione autentica e dare le garanzie che servono per confermare la natura pubblica del sistema.
 
Lo scambio
In questi giorni si sta parlando di un possibile scambio politico tra regionalismo differenziato e patti per la salute, (QS 4 febbraio 2019) ma c’è da chiedersi, a parte il fondo di solidarietà che non si nega a nessuno, in che modo esso potrebbe avvenire.
 
Una interpretazione politica plausibile a mio giudizio potrebbe essere che il governo a corto di soldi, e senza nessuna strategia seria sul governo della sostenibilità in sanità, e con un ministro costoso perché quello che promette la Grillo ha un costo che se non compensato produrrà più spesa, dovrà in futuro continuare per forza a de-finanziare il sistema sanitario, entrando in questo modo in rotta di collisione con le regioni ma anche con altri soggetti ad esempio il sindacato. Nei confronti di tale eventualità niente di più plausibile è concedere alle regioni le libertà di procurarsi i soldi che mancano loro per via privata.
 
Ricordo che questo governo, che si è dichiarato all’unanimità contro il job act, nella legge di bilancio, senza mai dare una spiegazione plausibile  ha deciso di non cancellare le incentivazioni fiscali definite a seguito del job act per aiutare la crescita di un welfare alternativo a quello pubblico e che, nel contratto di governo, nel punto dedicato al recupero delle risorse, non è compresa l’abolizione degli incentivi ai sistemi mutualistici anche se si parla di lotta agli sprechi e alle inefficienze, di revisione della governance farmaceutica, di centralizzazione degli acquisti, ecc.
 
Non ci vuole molto a comprendere che Il welfare on demand e il regionalismo differenziato insieme valgono un mix che segnerebbe la fine irreversibile del SSN.
 
Il sud che fa? Cosa dice il ministro Lezzi?
Credo che farebbe bene il ministro per il sud Barbara Lezzi a rendersi conto che il sud con il regionalismo differenziato rischia di diventare sub sahariano cioè di scivolare ancora più a sud
 
Siccome condivido le preoccupazioni della Cei, e penso che il regionalismo differenziato si avvalga delle logiche paretiane, non credo che il ministero del sud, in questa faccenda del regionalismo differenziato, possa permettersi di stare alla finestra.
 
La solidarietà al sud non si fa con la carità cioè con i fondi perequativi ma si fa con l’equità ripensando i criteri di riparto per dare a ciascuna regione, sia essa del nord e del sud, ciò di cui essa ha effettivamente bisogno per garantire la salute ai propri cittadini. Ma l’equità non si fa a partire dal pil regionale come dicono le intese fatte con le regioni in coerenza con i principi paretiani, ma a partire dal bisogno di salute di un certo territorio.
 
Cioè redistribuendo il reddito su base solidale in modo da garantire a tutti i propri diritti. Il reddito deve essere funzionale al diritto non il contrario come sostiene il regionalismo differenziato. E’ questo, mi sembra di capire, il senso dell’odg votato dalla regione Campania quando, pur senza respingere il valore del federalismo, pone la giusta condizione“della salvaguardia della necessaria capacità di redistribuzione del reddito che possa consentire l’esercizio dei diritti fondamentali di tutti i cittadini italiani, quali la salute e l’istruzione", (QS 6 febbraio 2019).
 
Pubblico non è la stessa cosa di utilità pubblica
Dal canto suo credo anche che farebbe bene il ministro Grillo a fissare dei paletti per i quali nessuna regione può decidere di cambiare la natura “pubblica” del proprio sistema sanitario.
 
Permettere alle regioni in nome del regionalismo differenziato di diventare, motu proprio, degli enti mutualistici ibridi parastatali e privati, significa un cambio di sistema non marginale, cioè un cambio di paradigma, che forse meriterebbe qualche approfondimento in più, magari anche una discussione parlamentare e perché no un lavoro di attenta valutazione sul suo impatto sociale.
 
Ricordo che la differenza tra stato e parastato, in generale almeno secondo certa letteratura passa tra l’ente pubblico e l’ente di utilità pubblica, ma nel caso del regionalismo differenziato con il privato di mezzo è molto più ambigua e molto più insidiosa.
 
Conclusione
Due slogan: equità non carità, Stato non parastato.
 
Ivan Cavicchi

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