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Lunedì 18 MARZO 2019
“Chi più ha meglio si cura”. La via italiana all’out of pocket

L'alternativa resta quella di una sanità integrativa che sia davvero complementare al SSN. In cui si superi una logica duale di sistema e si metta in campo una logica integrata che certamente porterà maggiore efficienza, maggiore qualità nell’offerta di cura verso tutti i cittadini, maggiore sussidiarietà, superando nei fatti quell’out of pocket così elevato e tutto italiano del chi più ha meglio si cura

Vorrei interloquire con le riflessioni/appello di Federico Spandonaro, affinché la politica decida finalmente quale linea seguire nei confronti del Secondo pilastro sanitario.
 
Sono passati 12 anni, da quando con Spandonaro abbiamo lavorato gomito a gomito per tentare di mettere mano alla questione fondi sanitari integrativi.
   
All'epoca (ministro della Salute Livia Turco) ho coordinato per ben 1 anno e mezzo la commissione di esperti, presso il ministero della salute, di cui anche il professor Spandonaro ha fatto parte, per varare il decreto Turco e Spandonaro sa quante difficoltà abbiamo dovuto superare a partire dal reperimento di dati certi, che fu molto difficile ottenere sia dai fondi e dalle mutue esistenti, che dai sindacati e dalle imprese, per ragionare intorno alla possibilità di renderli effettivamente integrativi del SSN.
 
Compimmo solo un primo passo: intanto l’anagrafe per certificare chi fossero e cosa fossero, ma non era solo quella la funzione, occorreva mettere in piedi contemporaneamente anche un osservatorio che ne monitorasse nel tempo l’evoluzione, le prestazioni fornite, le modalità con cui si fornivano, l’azione di riorientamento della domanda e dell’offerta di prestazioni da coprire, proprio perché convinti ieri come oggi del pilastro fondamentale pubblico del nostro SSN. L’Anagrafe avrebbe dovuto riferire ogni anno con una relazione circostanziata al Parlamento.
   
Cercammo la strada dell’effettività della meritorietà sociale, introducendo il vincolo del 20% per fondi e SMS alle prestazioni odontoiatriche e a quelle sanitarie e sociali rivolte più alla riabilitazione e alla non autosufficienza, per ottenere da parte dei medesimi la deducibilità fiscale di 3615,20 euro.
 
Preparammo altri 2 decreti: uno per le modalità di cessione in gestione e l’altro sul regolamento dei fondi a tutela e garanzia non solo della buona gestione, ma soprattutto degli iscritti e degli assistiti.
 
La fine della legislatura impedì il compimento di quella fase regolatoria. Il ministro Sacconi con un successivo decreto ridefinì le prestazioni a carattere sociale e sanitario e fece partire l’anagrafe a carattere attestativo.
 
In questi 12 anni ci siamo sforzati attraverso iniziative e convegni, di mettere a fuoco sempre più la materia, ma la sordità è stata totale,  se si eccettua l’indagine conoscitiva nella scorsa legislatura che è corsa in parallelo dentro quella sulla sostenibilità del SSN e  che oggi si ripete con la buona volontà delle Commissioni di merito di questa legislatura.
    
In 12 anni, la crisi, il problema del deficit, la scarsità delle risorse pubbliche, le difficoltà del SSN soprattutto nei grandi centri urbani ed in una parte del paese hanno dimostrato che vi è stata una corsa nella contrattazione a tutelarsi con i fondi sanitari integrativi, nel territorio con il fiorire della mutualità, con la crescita del welfare aziendale.
 
Nei corpi intermedi la sussidiarietà ha funzionato certo non per tutti, perché comunque è scandaloso che vi siano circa 37 miliardi di spesa out of pocket  a fronte di 114 miliardi di risorse pubbliche per il SSN, poco ancora si usano forme di protezione collettiva per proteggersi dal rischio malattia e dunque chi può si cura, chi non può si ammala o va dritto dritto dentro quel buco nero dei 5 milioni di poveri esistenti nel nostro paese.
    
Ma la disinformazione, fondi uguale assicurazioni, l’antica diatriba pubblico privato e l’arma di distrazione di massa “vogliono privatizzare il SSN”, hanno impedito ed impediscono di regolare quello che è il cosiddetto secondo pilastro per integrarlo e far funzionare meglio l’intero sistema.
 
Decidere di non decidere è la cosa più grave che si può fare. L’ipocrisia poi la fa da padrona: tutti o quasi tutti, hanno una copertura sanitaria integrativa sindacati compresi, docenti universitari, tutte le cosiddette professioni liberali, gli organi dello stato dalla Presidenza del consiglio ai ministeri, dalle regioni ai comuni, i lavoratori dipendenti ed autonomi anche alcune categorie di pensionati se il fondo cui appartenevano era aperto anche al dopo pensionamento.
 
Dove non c’è o c’e poco, è nel sud del paese o in fasce di percettori a basso reddito dove però agiscono altre provvidenze.
 
Se mai c’è da chiedersi come mai le forme integrative si sviluppano addirittura di più non solo dove la sanità funziona meglio: Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Trentino Alto Adige dove esiste addirittura un fondo sanitario regionale, ma dove c’è una spesa sanitaria privata più alta che altrove. E non mi pare che in quelle regioni si stia privatizzando il sistema.
 
E neanche in Europa dove chi studia ed analizza i sistemi sanitari comparati sa che tutti i sistemi, compresi Svezia e Gran Bretagna, funzionano sulla base di tre pilastri esistenti, dove certamente prevale quello pubblico a fiscalità generale ma dove i rapporti tra i tre sono disciplinati e regolati nel fare sistema, massa critica, soprattutto di fronte alle sfide che i sistemi di protezione della salute hanno di fronte a se, piaccia o non piaccia, l’integrazione tra pubblico e privato è necessaria.
 
Invecchiamento della popolazione, malattie di lunga durata e relativa cronicità, costosità delle nuove tecnologie e terapie biomediche e farmacologiche.
 
Non c’è nessun sistema che nei paesi avanzati vede il pubblico fornire o erogare tutto da solo. La domanda di salute è cambiata e molto più elevata, l’offerta purtroppo resta al palo per la mancanza di risorse e di cattivo uso delle medesime.
 
Ma che si fa, si rimane fermi o si prova a cambiare? Si vuole chiudere il contratto dei medici o si traccheggia ancora un po’ dopo 10 anni di blocco? Si fanno le nuove regole per le liste d’attesa, bene, ma se non le rispettano andiamo a fare le nostre prestazioni dal privato o in intramoenia pagando il ticket, e allora non è meglio se siamo coperti da sanità integrativa, piuttosto che pagare di tasca propria le prestazioni, dopo tutte le tasse che già paghiamo?
 
Non sarebbe meglio rivedere con i medici ed i manager le tariffe dell’intramoenia, per attrarre presso le strutture pubbliche la domanda inevasa.
 
Basterebbe fare un’analisi delle tariffe delle prestazioni che riescono a spuntare i fondi con le strutture private, per capire come far fruttare e meglio in produttività la struttura pubblica ed anche la libera professione intramuraria.
 
Il principio di sussidiarietà, riconosciuto dalla nostra Costituzione, trova la sua compiuta formulazione nell’art. 118, ultimo comma della legge di riforma del Titolo V della Costituzione (L. Cost. n. 3/2001) e dispone: “Stato, Regioni, città metropolitane, Province e Comuni favoriscano l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli ed associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale”.
 
E’ la cosiddetta sussidiarietà orizzontale che concerne i rapporti tra i cittadini - e loro formazioni - e le Amministrazioni pubbliche attribuendo alle prime la facoltà di svolgere una funzione pubblica. Si intende affermare un nuovo modello, in cui l’enfasi viene posta sulla possibilità di sviluppo di partnership sussidiarie tra pubblico e privato, come forma di superamento dei classici principi gerarchici caratterizzanti il welfare state.
 
Analizzare la linea di trasformazione delle politiche di welfare introdotta dalla sussidiarietà, oltreché dalle leggi richiamate, anche dalla legge 328 sulle politiche sociali, in un’ottica sussidiaria ci fa assistere a un rovesciamento delle concezioni di fondo delle politiche pubbliche, nel senso di “statali”, ma che divengono aperte a una reticolarità di soggetti che compartecipano alla produzione di benessere.
 
La sussidiarietà da “principio normativo”, si traduce nella pratica non come variante correttiva da introdurre nel vecchio corpo di welfare state, bensì come il suo  superamento, per promuovere politiche sociali efficaci e innovative, adatte al nuovo contesto e ai sempre più dinamici bisogni sociali.
 
In definitiva la sussidiarietà orizzontale è una visione della cittadinanza con una forte carica innovativa
in quanto stabilisce che il potere di iniziativa sui problemi relativi ai “beni comuni” e quindi nel campo dell’interesse generale non è più prerogativa esclusiva delle amministrazioni ma appartiene anche ai cittadini.
 
In tal senso è un elemento propulsivo del nuovo sistema di Welfare plurale. Presuppone altresì la solidarietà, per escludere logiche neoliberiste di abbandono dell’impegno dello Stato nelle sue diverse articolazioni dall’ambito dei servizi che rispondono ai diritti di cittadinanza.
 
La sussidiarietà non contempla meno Stato e più mercato, ma più Stato e più società civile, con tutte le sue risorse. Richiede anzitutto un patto tra i cittadini sul modello di società, di sviluppo, di benessere che le istituzioni pubbliche hanno la responsabilità primaria di proporre e il dovere di concertare.
 
Ha una forte valenza educativa, di soggetto che fa mobilitazione delle coscienze, diffonde la solidarietà, chiama a raccolta i cittadini aiutandoli ad essere sovrani, ovvero a partecipare.
 
Il contesto di riferimento è assai più complesso
di come presentato rispetto alle tradizionali categorie di fondi sanitari integrativi così come individuati nel nostro ordinamento, nonché rispetto alle forme assicurative di tipo individuale nel settore malattia, che non hanno finora ricevuto dall’ordinamento statuale alcun riconoscimento di deducibilità fiscale in quanto ritenute libere espressioni della volontà individuale di coprire il rischio malattia con una polizza.
 
Tanto è vero che le uniche polizze individuali in campo malattia che hanno un riconoscimento di “meritorietà sociale” sono quelle per la non autosufficienza che godono di una elevata deducibilità fiscale (oltre 5.640 euro) rispetto ai 3.615,20 che si riconoscono a fondi sanitari integrativi di tipo contrattuale o alla mutualità qualora gestisca fondi contrattuali, e ai 1.200 euro che si riconoscono alle società di mutuo soccorso aperte a tutti i cittadini.
 
Il problema dell’apparente differenziazione di trattamento nel campo dell’assistenza sanitaria integrativa a sfavore del mondo assicurativo è dovuto nel nostro Paese innanzitutto ad una profonda iniquità di sistema tra redditi medio-bassi e redditi medio-alti che ha portato nel tempo a usufruire poco di forme di copertura del rischio di tipo individuale.
 
In secondo luogo la presenza dal 1978 di un SSN universale che garantisce senza discriminazioni in base al reddito l’accesso ai servizi ed alle prestazioni ha dato la garanzia ai cittadini di essere pienamente tutelati sul versante salute.
 
Inoltre il perimetro di copertura assicurativa, contiene spesso discriminazioni in base all’età, allo stato di salute preesistente, che in una società che invecchia è foriero di cronicità destinate a perpretarsi nel tempo.
 
Quindi il problema del contesto di riferimento nel nostro Paese significa innanzitutto porre l’attenzione al fatto che nonostante un SSN, uno sviluppo soprattutto negli ultimi anni di coperture sanitarie integrative in ambito contrattuale e territoriale persista ancora un forte aggregato di spesa privata da parte delle famiglie che incide come peso individuale senza trovare canali di socializzazione del rischio sia in ambito contrattuale sia da parte dei semplici cittadini sul proprio territorio.
 
La spesa sanitaria privata dei cittadini, come abbiamo visto, si aggira intorno a circa 37 miliardi di euro  senza alcuna forma di intermediazione se non per chi gode come il lavoratore di una copertura del rischio in ambito contrattuale o per chi come cittadino o pensionato aderisca ad una società di mutuo soccorso od ad una mutua territoriale.
 
E’ pur vero che la storia e la dinamica della sanità integrativa nel nostro Paese ha peculiarità e modalità applicative a seconda della forza delle imprese che hanno nel tempo stipulato accordi, a seconda delle priorità prestazionali reclamate dal mondo del lavoro, in sostanza a seconda dell’autonoma forza che la contrattazione e la bilateralità ha conquistato in tutti questi anni.
 
Il problema quindi non è entrare a regolare rigidamente autonomie, bilanci, priorità avvertite dai soggetti contraenti, il problema è quello di trovare un equilibrio tra la meritorietà sociale che a queste fonti lo Stato riconosce e modalità di getione, controllo e vigilanza improntate a criteri univoci di comportamento, buona prassi e obiettivi prioritari da raggiungere quali fonti di maggiore impatto economico della gestione di un fondo: si veda tutta la discussione aperta tra i lavoratori ed i fondi sui temi della prevenzione.
 
Il nostro ordinamento risponde a questa realtà che è divenuta molto più ampia e complessa nel tempo?
 
In parte sì in parte no. In parte sì perché ha riconosciuto ruolo e valore dei fondi nelle diverse leggi dal 502 fino ai decreti Turco e Sacconi del 2008 e 2009. Ne ha riconosciuto ed ampliato nel tempo la meritorietà sociale fiscale fino ad attestarsi ai 3.615.20 euro che ad oggi costituiscono una buona deducibilità per chi sottoscrive un fondo.
 
È il mancato impegno delle Istituzioni a dare attuazione ad una organica legislazione. In realtà su tutta una serie di questioni - che sia negli approcci sulla tematica della uniformità gestionale che del controllo nel dibattito più volte richiamati e che portano a formulare diverse ipotesi messe in campo - si sottace il vero problema che è rimasto il buco nero dell’ordinamento: tutta la tematica della cessione in gestione e cioè quando un fondo non si autogesticsce e dà in gestione ad un soggetto terzo assicuratore e tutta la tematica del regolamento dei fondi e cioè i principi ordinatori, le tutele dell’assistito e degli aderenti, la trasparenza gestionale dell’operare dei fondi medesimi.
 
Dunque il problema è: il nostro Paese sceglie di abbandonare l’attuale ordinamento giuridico dei fondi, per imboccare la strada di un mero riconoscimento di antiche e nuove forme di socializzazione del rischio salute attribuendo l’importanza normativa a una parificazione del regime fiscale e costruendo un’autorità di vigilanza al di fuori degli attuali soggetti vigilanti che pure esistono, Ministero della salute, Agenzia delle entrate… oppure si ritiene che il completamento del quadro giuridico e normativo possa essere l’occasione utile per verificare lo stato dell’arte, il superamento di obblighi procedurali non verificabili, la correttezza della realtà gestionale della sanità integrativa e al tempo stesso la efficientizzazione e qualificazione del sistema dell’Anagrafe dei fondi, quale strumento non solo attestativo della realtà esistente secondo i principi ordinamentali, ma quale strumento di analisi e proposte sia per il Ministero della salute, che per i Ministeri del lavoro e dell’economia al fine di adottare modelli comportamentali in fieri e in progress con le dinamiche innovative che i fondi via, via mettono in campo?
 
E quest’ultima opzione anche al fine di creare la più opportuna sinergia trai due sistemi SSN e Sanità integrativa e superare la contraddizione che ancora oggi permane della sostitutività piuttosto che la necessaria integrazione?
 
Se questa ultima rimane ancora una possibile strada da seguire, allora i fondi sanitari integrativi possono concorrere alla realizzazione di un Welfare integrato in cui lo Stato, senza abdicare alla sua fondamentale e costituzionale funzione di protezione sociale, favorisce il perseguimento di una buona salute per tutti sussidiando l’economia privata, il risparmio individuale e creando le condizioni che incentivino e rendano di qualità le iniziative promosse nel mondo del lavoro, sul territorio al fine di un’attuazione piena del diritto alla salute.
 
Questa strada si può perseguire attraverso:
• la revisione nel merito del ruolo dell’attuale Anagrafe dei fondi, potenziandola;
• il superamento dell’ambiguità tra i fondi doc e non doc;
• stabilendo regole e procedure chiare trasparenti e valevoli per tutti attraverso la normativa della cessione in gestione e il regolamento delle modalità esistenziali e comportamentali dei fondi, cioè costruendo il loro  regolamento;
• l’istituzione di un organismo di vigilanza capace di fare rispettare regole di trasparenza, di efficiente gestione e di onorabilità nel variegato mondo degli strumenti di sanità integrativa a garanzia in primis dei cittadini aderenti e assistititi e soprattutto della qualità di molti fondi e della mutualità esistente.
 
Non ho nessuna forma di preclusione all’esercizio di tale funzione da parte di COVIP che ha da tempo maturato sul campo esperienza per quanto riguarda la previdenza complementare, ma tenute presenti le debite differenze tra i due settori, occorrerebbe allora istituire all’interno di COVIP in accordo con il Ministero della salute una sezione speciale che si occupi della vigilanza sulla sanità integrativa, con soggetti indicati dai Ministeri della salute, dell’economia e finanze e del lavoro, nonché delle organizzazioni sindacali e dei rappresentanti di categoria delle imprese, capaci di assolvere a questa delicata funzione e di rendicontare annualmente al parlamento l’andamento della sanità integrativa nel nostro Paese.
 
A me pare che dando corso all’attuazione, anche rivista e corretta, dei principi del nostro ordinamento si possa agire una sanità integrativa davvero in senso complementare al SSN in cui si superi una logica duale di sistema, ma si metta in campo una logica integrata che certamente porterà maggiore efficienza, maggiore qualità nell’offerta di cura verso tutti i cittadini, maggiore sussidiarietà, superando nei fatti quell’out of pocket così elevato e tutto italiano del chi più ha meglio si cura.
 
Grazia Labate
Ricercatrice in economia sanitaria già sottosegretaria alla sanità

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