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05 MAGGIO 2019
Legare i pazienti? Liceità e illiceità giuridica e deontologica della contenzione

Dalla chiusura dei manicomi (legge 180) sono spariti gli unici riferimenti normativi all’unica tipologia di  contenzione regolamentata nel nostro ordinamento: la contenzione fisica o meccanica (limitata al settore psichiatrico). Nel silenzio della legge è stata la giurisprudenza a delineare i principi giuridici e le condizioni di liceità e di illeceità. E da molti anni la deontologia di alcune professioni sanitarie si è fatta carico di regolamentare o, più precisamente, di indicare alcuni principi sulla contenzione con accenti e toni diversi. Quindi, come stanno le cose?

E’ possibile, è lecito, è corretto “legare” un malato? Sono leciti i mezzi di contenzione? E’ possibile chiudere un reparto di degenza – o dotarlo di sistemi di ritenuta di porte e finestre - per impedire a chi è dentro di uscire? E’ lecito trattenere un paziente non competent per evitare che esca? E’ possibile contenere un paziente che minaccia di dislocarsi un device salvavita? E’ possibile sedare un paziente agitato, violento e che pone in essere atteggiamenti auto e eteroaggressivi?
 
Stiamo parlando della delicata materia della contenzione che agita, giustamente, gli animi e le coscienze di tutti coloro che sono a contatto diretto con una grande parte di persone assistite che vengono sottoposte a una qualche misura di contenzione.
 
Cerchiamo di fare ordine nella materia
Per contenzione, in generale, si intende la “restrizione intenzionale dei movimenti o del comportamento volontario del soggetto”.
 
Si distinguono diverse tipologie di contenzione: manuale, fisica o meccanica, farmacologica, e ambientale, tutte caratterizzate dalla finalità, appunto, di ridurre la libertà di movimento e di azione della persona.
 
Per contenzione manuale si intendono le attività mirate a immobilizzare il paziente
(il corpo o parte del corpo della persona).  È stata definita anche “contenzione umana”, laddove per umana si intende l’utilizzo del corpo di chi applica la contenzione.
 
Per contenzione fisica o meccanica si intende la messa in atto di procedure, mezzi e
dispositivi applicati al corpo della persona o nello spazio circostante atti a limitare la libertà di movimento. Rientrano quindi nei sistemi di contenzione fisica (detta anche meccanica) i mezzi applicati direttamente sul paziente a letto come le fasce e cinture, le spondine, oppure applicati nelle carrozzine. Si intendono altresì i mezzi di contenzione per segmento corporeo (cavigliere, polsiere ecc.), i mezzi che obbligano a determinate posture, le cinture pelviche, i divaricatori inguinali.
 
La contenzione meccanica può essere operata anche con dispositivi medicali per finalità terapeutiche (es. apparecchio gessato).
 
Per contenzione farmacologica si intende la somministrazione di medicinali con la finalità di modificare il comportamento della persona e di limitarne i movimenti e i comportamenti. E’ di difficile definizione, in realtà, in quanto non possiamo farla coincidere con ogni tipo di sedazione.
 
Per contenzione ambientale si intendono le misure consistenti in sistemi di ritenuta di porte e finestre al dichiarato fine di evitare l’uscita incontrollata dalle strutture.
 
Dalle definizioni sopra riportate si comprende come la contenzione, intesa nella sua accezione più completa, riguardi un gran numero di luoghidi cura: sala operatoria, terapie intensive, psichiatria, reparti di degenza, residenze sanitarie, assistenza domiciliare ecc.
Non ci occuperemo della “contenzione relazionale” in quanto non è da considerarsi contenzione quanto piuttosto una serie di attività per prevenire la contenzione vera e propria.
 
Il silenzio della legge
Dalla chiusura dei manicomi operata con la legge 180/1978 sono spariti gli unici riferimenti normativi all’unica tipologia di  contenzione regolamentata nel nostro ordinamento: la contenzione fisica o meccanica (limitata al settore psichiatrico). Nella sostanza la normativa manicomiale prevedeva la contenzione - come evento eccezionale da utilizzarsi solo dietro “autorizzazione scritta del direttore o del medico dell’istituto” con indicata la natura e la durata dei mezzi di “coercizione” (sinonimo di contenzione).
 
Dal 1978 anche questa limitata previsione normativa (inteso come riferimento a una sola tipologia di contenzione) è scomparsa dall’ordinamento.
 
I riferimenti normativi oggi sono dati dagli articoli della Costituzione che realizzano l’autodeterminazione (art. 2), il diritto all’inviolabilità della libertà personale (art. 13) e il diritto alla salute e alla dignità (art. 32). Nella legislazione ordinaria vengono in rilievo le elaborazioni dottrinarie e giurisprudenziali che originano dal II comma dell’articolo 40 del codice penale in tema di posizione di garanzia e protezione.
 
Nella legislazione ordinaria rimane, invero, l’articolo 41 dell’ordinamento penitenziario (legge 354/75) che dedica uno specifico articolo che disciplina l’utilizzo della forza fisica – che in quel contesto potremmo definire di contenzione manuale – e dell’utilizzo dei mezzi di “coercizione” all’esclusivo fine di “evitare danni a persone o cose o di garantire la incolumità dello stesso soggetto”. La finalità, in questo caso, è comunque più ampia e analogicamente inapplicabile in quanto l’utilizzo della forza e della contenzione si propone lo scopo di impedire tentativi di evasione o di vincere la resistenza a ordini.
 
Fuori dall’ambito sanitario un obbligo di contenzione è previsto dall’articolo 172 del codice della strada nei confronti di conducenti e passeggeri di autovetture che non interessa il presente contesto.
 
Il ruolo della giurisprudenza
Nel silenzio della legge è stata la giurisprudenza a delineare i principi giuridici e le condizioni di liceità e di illeceità dell’utilizzo dei mezzi di contenzione.
 
La giurisprudenza si è occupata, pressoché esclusivamente, della contenzione fisica/meccanica e dopo una serie di pronunce della giurisprudenza di merito recentemente la Cassazione decidendo sul caso di Franco Mastrogiovanni (V sezione, sentenza 20 giugno 2018,  n. 50497)– paziente ricoverato in un reparto di psichiatria ospedaliero e contenuto per 87 ore continuative -  ha fissato i paletti sull’utilizzo dei mezzi di contenzione meccanica che sintetizziamo.
 
Secondo la Cassazione la contenzione non è un “atto medico” (in quanto non cura) ed essendo un presidio di restrizione della libertà personale ha una mera funzione cautelare.
La liceità dell’uso dei mezzi contenitivi viene – dai Supremi giudici - scriminata (giustificata) solo nelle ipotesi previste dall’articolo 54 del codice penale che recita testualmente: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”.
 
Gli elementi portanti dello stato di necessità sono quindi:
a) il pericolo attuale di un danno grave alla persona;
b) le inevitabilità altrimenti del pericolo;
c) la proporzionalità del fatto.
 
Il pericolo attuale deve essere riscontrato in modo “puntuale e dettagliato” e non è ammissibile una contenzione preventiva. “L’inevitabilità altrimenti del pericolo” deve essere valutata in relazione a strumenti alternativi alla contenzione e la “proporzionalità del fatto” è relativa all’applicazione di presidi contenitivi rapportati alla prevenzione e alle cautele che si intendono adottare. Per l’approfondimento della sentenza Mastrogiovanni  si rimanda a un precedente contributo.
 
La supplenza della deontologia
Da molti anni la deontologia di alcune professioni sanitarie si è fatta carico di regolamentare o, più precisamente, di indicare alcuni principi sulla contenzione con accenti e toni diversi.
 
In seguito alla recente approvazione del nuovo Codice deontologico delle professioni infermieristiche si è aperta una discussione sull’opportunità che tale materia costituisca parte integrante del codice deontologico (mi riferisco ai contributi di Mislej et al, di Gostinelli e, con accenti diversi, della Cgil Fp.
 
Notiamo, in primo luogo, che la deontologia di alcune professioni si occupa da molto tempo della contenzione con diverse impostazioni in realtà.
Le professioni che, a oggi, hanno articoli sulla contenzione sono ben quattro: i fisioterapisti, i medici, gli educatori professionali e gli infermieri. L’ordine seguito è relativo alla data di emanazione del codice, ma i primi a inserirla in un loro codice sono stati gli infermieri.
 
Il codice deontologico dei fisioterapisti (Aifi, 2011) dedica l’articolo 43 alla contenzione, rubricandolo proprio come tale: Art. 28 Contenzione. “La contenzione è una pratica clinica eccezionale che deve salvaguardare il rispetto della dignità e della libertà della persona.
Nel caso di persone incapaci, ancorché non sottoposte a misure di sostegno giuridico, la contenzione deve proporsi l’obiettivo di tutelare la salute della persona e non può essere mezzo vicariante le carenze assistenziali dell’organizzazione”.
 
Il codice di deontologia medica (Fnomceo, 2014) dedica l’articolo 32, ultimo comma alla contenzione: Art. 32 u.c. Doveri del medico nei confronti dei soggetti fragili. “Il medico prescrive e attua misure e trattamenti coattivi fisici, farmacologici e ambientali nei soli casi e per la durata connessi a documentate necessità cliniche, nel rispetto della dignità e della sicurezza della persona”.
 
Gli Educatori professionali nel loro codice (Anep, 2015) intervengono, nella sezione dedicata alla “Responsabilità nei confronti dell’utente” all’articolo 2 (la numerazione di questo codice è decisamente anomala e di non facile citazione) con il seguente articolo: Art. 2. “Non deve utilizzare tecniche che risultino di costrizione o manipolative.Soltanto nell'ambito di una programmazione interdisciplinare, può intervenire con autorevolezza e determinazione laddove l'azione della persona è auto/etero lesiva, ricorrendo a metodi e tecniche d'intervento che non danneggino la dignità dell'utente”.
 
In questo caso il termine usato è “costrizione”, ma dal contenuto del secondo comma è da considerarsi sinonimo di contenzione.
 
Interviene anche il nuovo codice deontologico delle professioni infermieristiche (Fnopi, 2019) dedicando l’articolo 35 alla contenzione a rubricandolo come tale: Art 35. Contenzione.  “L’Infermiere riconosce che la contenzione non è atto terapeutico. Essa ha esclusivamente carattere cautelare di natura eccezionale e temporanea; può essere attuata dall’equipe o, in caso di urgenza indifferibile, anche dal solo Infermiere se ricorrono i presupposti dello stato di necessità, per tutelare la sicurezza della persona assistita, delle altre persone e degli operatori. La contenzione deve comunque essere motivata e annotata nella documentazione clinico assistenziale, deve essere temporanea e monitorata nel corso del tempo per verificare se permangono le condizioni che ne hanno giustificato l’attuazione e se ha inciso negativamente sulle condizioni di salute della persona assistita”.
 
I quattro codici risentono del tempo in cui sono stati emanati. Necessita quindi di un restyling il codice dei fisioterapisti – dopo la sentenza della Cassazione non può si può più affermare che la contenzione tutela la salute della persona -, necessita di un profondo ripensamento, sempre per lo stesso motivo, il codice di deontologia medica che prevede la liceità della contenzione ancorandola alla “prescrizione medica” – se non ha natura terapeutica non può essere prescritta (prescrizione che deve essere conservata, come vedremo, solo per la contenzione farmacologica per normative inerenti alla legislazione riguardante i medicinali), e estende l’indicazione codicistica anche alla contenzione farmacologica e ambientale.
 
Sottolineiamo: dal codice dei medici emerge l’impostazione di una contenzione come atto medico prescrittivo che il medico deve prescrivere e attuare.
 
Generico – decisamente a maggior natura più squisitamente deontologica – risulta essere il codice degli Educatori e che non pare necessiti di aggiornamenti (pur essendo stato emanato prima della sentenza della Cassazione del 2018).
 
Il recentissimo codice deontologico della Fnopi risulta in linea con gli indirizzi dati dalla Cassazione relativo ai principi e ai comportamenti relativi allo stretto perimetro della liceità dei mezzi di contenzione fisica/meccanica. Non entra nel merito della contenzione manuale, di quella farmacologica (nel codice del 1999 vi era un riferimento) e di quella ambientale.
 
E’ bene però ricordare che la ricordata sentenza Mastrogiovanni – che ha determinato la condanna per medici e infermieri per il grave reato di sequestro di persona ex art. 605 cp – citando il codice deontologico Ipasvi 2009 nella parte in cui indicava che l’infermiere si doveva “adopera(re)” per affinché la contenzione fosse evento straordinario “sostenuto da prescrizione medica o da documentate valutazioni assistenziali” è stata la base proprio per la condanna degli infermieri che avevano, a detta dei Supremi giudici, un  “obbligo giuridico autonomo” diverso dal medico e in virtù proprio del disposto deontologico avevano l’obbligo di “sottrarsi” alla contenzione.
 
Un articolo che conferiva autonomia e non certo obbligo. Difficile sostenere che non servisse in un codice deontologico che è la sede dell’autonomia professionale per eccellenza e che si propone il fine di contemperare i doveri istituzionali con la salvaguardia della integrità fisica degli assistiti.
 
Sulla natura professionale e deontologica della contenzione
Per paradossale che possa sembrare la decisione sulla contenzione e la decisione di porla in essere è soprattutto materia deontologica – non a caso è presente in  codici di quattro diverse professioni -  e professionali.
 
La contenzione  realizzata con esclusive finalità cautelari – nello stretto perimetro dello stato di necessità -  attiene direttamente all’esercizio e al concetto professionale di presa in carico. Prendere in carico un paziente significa, tra l’altro, garantirne la sua sicurezza e la sua integrità fisica. La presa in carico ha la sua correlativa a trasposizione nella giuridica “posizione di garanzia e protezione” che ha lo scopo  di preservare “determinati beni giuridici”  da tutti i pericoli che possono minacciarne l’integrità.
 
Trattenere un paziente confuso in un reparto con una contenzione manuale attuata con “brevis et modica vis”  (Corte di cassazione, sentenza 119/1998) attiene alla presa in carico e ai contenuti obbligatori di questa; impedire la violenta dislocazione di un device (catetere vescicale, tubo endotracheale, drenaggio toracico solo a titolo esemplificativo) tramite una contenzione fisica/meccanica attiene alla presa in carico in un classico rapporto di proporzionalità; impedire l’allontanamento dal reparto di un paziente confuso o di un bambino attraverso sistemi di ritenuta di porte e finestre (e a maggior ragione per rischio di eventi suicidari).
 
Invocare a sproposito, in questi casi, i principi costituzionali di autodeterminazione verso chi non è in grado di autodeterminarsi, nei confronti cioè di chi non è in grado di manifestare la propria volontà (un paziente demente, un paziente confuso, sotto l’influsso di farmaci che ne riducono enormemente la volontà) è un non senso.
 
La discussione professionale ha il dovere di individuare il corretto utilizzo dei mezzi, dei loro limiti, della finalità di preservare l’integrità fisica e, ancora prima, diritti e dignità della persona secondo quanto indicato dalla Corte di cassazione. Ed è quello che in questi decenni ha fatto adottando protocolli e regole deontologiche.
 
Quello da evitare e combattere con la maggiore forza possibile è l’abuso di tutti i mezzi di contenzione o il loro utilizzo pericoloso.  La contenzione manuale – spesso erroneamente scambiata per la minor invasività - utilizzata dalle forze dell’ordine ha prodotto vittime: i casi di Andrea Soldi, Federico Aldrovrandi e Riccardo Magherini ne sono la tragica testimonianza.
 
Nel caso Magherini la Corte di cassazione ha assolto i carabinieri per avere effettuato una prolungata contenzione manuale di un fermato in posizione prona da cui la persona è deceduta per una “sindrome asfittica”. I carabinieri, ha sostenuto la Cassazione, non avevano la cultura per capire che tale posizione rendeva difficile la respirazione.
 
La stessa peculiare motivazione – l’ignoranza e l’impreparazione sugli effetti della contenzione - che aveva assolto gli infermieri in primo grado sul caso Mastrogiovanni a Vallo della Lucania.
 
L’utilizzo dei mezzi di contenzione fuori dal perimetro indicato dalla Cassazione espone a vari e gravi reati chi la pone in essere.
 
Ricordiamo, anche, che è vietato l’utilizzo di contenzione per imporre terapie a pazienti che la rifiutano come nel caso di Testimoni di Geova – in grado di dissentire -  che rifiutano emotrasfusioni.
 
La natura professionale e deontologica è strettamente finalizzata alla “funzione cautelare”. L’utilizzo di questo termine deriva dal linguaggio giuridico, mutuato non del tutto propriamente, dall’ambito processualistico o, più correttamente pre-processualistico ed è da intendere nel caso di specie come la preservazione dell’integrità fisica della persona assistita nel processo di cura.
 
L’ammissibilità della categoria della contenzione “terapeutica”
La questione posta sembra provocatoria, ma non lo è. Vi sono contesti in cui la contenzione è terapia, o quanto meno, parte integrante dell’intervento terapeutico. Valga per tutti l’esempio dell’apparecchio gessato – o di altro materiale - utilizzato in ortopedia. E’ una storica terapia utilizzata per sostenere e immobilizzare ossa e tessuti molli che hanno subito una lesione. Come tutte le contenzioni può essere più o meno invasiva (gesso intero, doccia gessata ecc.).
 
Altra tipologia di contenzione terapeutica è data dalla immobilizzazione operata con la “barella cucchiaio” e con la “tavola spinale” che vengono utilizzate per immobilizzare e contenere i pazienti traumatizzati.
 
Altra tipologia di contenzione terapeutica – o comunque connessa all’intervento terapeutico – è la contenzione utilizzata in sala operatoria per gli interventi chirurgici.
 
Il posizionamento e la messa in sicurezza del paziente da operare sono attività inscindibilli dall’intervento stesso. In questo caso vi è da lamentare la genericità delle check list ministeriali che indicano, nella fase c.d. time out  (i controlli da effettuare prima dell’incisione della cute), il mero “corretto posizionamento” laddove corretto è da intendersi anche come posizionamento in sicurezza. In questo caso la contenzione è parte integrante dell’intervento chirurgico.
 
I casi sopra riportati sono a titolo esemplificativo e se ne possono individuare altri.
Nel caso della contenzione terapeutica, ovviamente, non valgono le regole della Cassazione relative al presupposto dello stato di necessità.
E’ una contenzione che trova la sua liceità nella terapeuticità (apparecchio gessato) e nelle buone pratiche clinico-assistenziali (immobilizzazione tramite barelle) e nelle prassi per quanto riguarda la sala operatoria.
 
La questione superata della titolarità a disporre la contenzione
Appare superata la questione relativa alla titolarità a disporre della contenzione fatta eccezione per quella  farmacologica che rimane,  nella fase prescrittiva, di stretta competenza medica
 
Sempre nel perimetro indicato dalla Cassazione: contenere manualmente, applicare mezzi meccanici o indicare misure di restrizione ambientale non avendo natura terapeutica ma meramente cautelare può/deve essere indicata dal personale che ha in carico il paziente e assume la posizione di garanzia in seguito alla presa in carico. A seconda delle circostanze può essere decisa dal medico, dall’infermiere, dall’operatore socio sanitario e dai caregivers domiciliari.
 
In questo caso bisogna guardare più allo spirito che non alla lettera delle motivazioni della Cassazione. E’ la titolarità della posizione di garanzia che determina la decisione.
Fa ovviamente eccezione la contenzione terapeutica relativa al confezionamento dell’apparecchio gessato che richiede la prescrizione medica.
 
La classificazione della contenzione in relazione alla obbligatorietà/facoltatività
A questo punto può essere utile classificare la contenzione a seconda della obbligatorietà/facoltatività possiamo distinguere:
1. Una contenzione terapeutica/obbligatoria
2. Una contenzione necessitata;
3. Una contenzione illecita
La contenzione obbligatoria si realizza, a titolo esemplificativo come sopra riportato, nel confezionamento di apparecchi gessati, nella immobilizzazione dei traumatizzati per il trasporto nelle ambulanze e in sale operatorie. Sono misure contenzione che si palesano come obbligatorie e che sono parte integrante del trattamento stesso.
La contenzione terapeutica/obbligatoria è nei fatti una contenzione ineliminabile. Il rifiuto del paziente a essere contenuto può determinare, nella stragrande maggioranza dei casi, l’impossibilità della prestazione per pericolosità della stessa.
 
La contenzione necessitata è relativa, per la contenzione fisica/meccanica, al perimetro indicato dalla Corte di cassazione con il puntuale richiamo all’articolo 54 del codice penale. Per interpretazione analogica dovremmo includere anche i casi di contenzione manuale e contenzione ambientale.
Decisamente più complicato e necessitante di un approfondimento a parte riguarda la contenzione farmacologica.
 
La contenzione illecita si realizza fuori dalle indicazioni della Cassazione, fuori dallo stato di necessità. E’ illecita in quanto può essere immotivata ab initio, oppure mantenuta successivamente una volta finito lo stato di necessità, oppure applicata con mezzi sproporzionati o non adeguati ecc.
E’ illecita una contenzione che non sia eccezionale, che non abbia al centro i bisogni del paziente, che venga applicata solo per motivi di carenza di personale e quindi vicarianti le inefficienze della struttura e della sua organizzazione.
 
Non è “assolutamente ammissibile”, è la stessa Cassazione a precisarlo, una contenzione applicata in “via precauzionale”, come non è ammissibile una contenzione che non sia temporanea.
 
Non è ammissibile neanche una contenzione con il consenso del paziente o, peggio ancora, dei suoi familiari. “L’esimente del consenso dell’avente diritto”, infatti (sono sempre parole della Cassazione), è rinvenibile solo quando vi sia un’obiettiva situazione che ha indotto in errore chi ha praticato la contenzione. In altre parole, erano presenti elementi fattuali, che hanno fatto indicare come esistente un non realmente esistente stato di necessità.
 
La contenzione illecita, ovunque praticata, ci riporta indietro agli orrori nefasti del sistema manicomiale, con l’aggravante che oggi rischia di essere praticata in ogni contesto di cura.
 
I reati contestati e contestabili sono violenza privata, sequestro di persona, lesioni colpose, omicidio colposo. Per citare i più comuni. E’ ovviamente anche una grave infrazione deontologica.
 
Luca Benci
Giurista

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