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Mercoledì 10 LUGLIO 2019
Cosa insegna alla sanità italiana il caso Sea Watch

La vicenda ha causato molte polemiche e merita di essere affrontata per le similitudini che possono verificarsi in ambito sanitario, con particolare riguardo all’obbligo e alla facoltà del soccorso, anche se preliminarmente, deve essere affrontato l’apparente paradosso della commissione di reati giustificati. E forse anche i codici deontologici dovrebbero affrontare la questione

Carola Rackete, la ormai famosa comandante – “capitana” -  della motonave Sea Watch 3 della (quasi) omonima organizzazione non governativa  si è vista riconoscere dal Gip di Agrigento Alessandra Vella – nell’ordinanza sulla richiesta di convalida di arresto e di applicazione della misura cautelare - la “scriminante” ex art. 51 codice penale (c.p) in merito al reato di “resistenza a pubblico ufficiale”.
 
La vicenda ha causato molte polemiche e merita di essere affrontata per le similitudini che possono verificarsi in ambito sanitario, con particolare riguardo all’obbligo e alla facoltà del soccorso, anche se preliminarmente, deve essere affrontato l’apparente paradosso della commissione di reati giustificati.
 
Le “scriminanti” (dette anche esimenti o cause di esclusione della pena) sono quelle circostanze che escludono la pena, pur in presenza di un fatto di reato che in teoria, sarebbe punibile. Le scriminanti sono una “famiglia” di circostanze tra cui, tra le altre, ricordiamo la legittima difesa e lo stato di necessità. La prima ha visto recentemente allargare il perimetro della non punibilità.
 
A titolo esemplificativo non è punibile a titolo di omicidio volontario chi causi volontariamente la morte se ricorrono le circostanze previste dall’articolo 52 del c.p. (necessità di difendere un diritto proprio e altrui secondo criteri di pericolo della propria e altrui incolumità; la necessità di difendere anche i beni; la difesa è “sempre” legittima laddove vi sia anche violazione di domicilio). L’omicidio viene compiuto, ma l’omicida, in presenza dei ricordati presupposti non è punibile.
 
Nel caso della “capitana” la causa di giustificazione dalla pena è l’articolo 51 del c.p. che esclude la punibilità di un fatto che viene compiuto in virtù dell’esercizio di un diritto o, appunto, dell’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità.
 
La motivazione del Gip di Agrigento è relativa, per usare un termine caro alla sanità, alla presa in carico dei naufraghi imposta dalle convenzioni internazionali alle quali l’ordinamento giuridico italiano deve conformarsi per dettato costituzionale.
 
Salvare i naufraghi non significa soltanto imbarcarli, ma portarli in un “porto sicuro” più vicino al luogo di soccorso. Per porto sicuro si intende, sintetizza la giudice siciliana, quello che garantisce la sicurezza della vita dei naufraghi, le necessità primarie come cure mediche e cibo e la possibilità di organizzare il trasferimento verso la destinazione finale.
 
Il dovere cessa, non nella “mera presa a bordo dei naufraghi”, ma solo nello sbarco in un porto sicuro. Carola Rackete ha agito, dunque, nell’adempimento di un dovere a cui non poteva sottrarsi. La scriminante opera quindi secondo un classico principio di non contraddizione dell’ordinamento giuridico che se da un lato impone un dovere dall’altro non può sanzionarlo.
 
L’obbligo del soccorso come “adempimento del dovere”
L’adempimento del dovere nel settore sanitario si realizza nell’emergenza sanitaria laddove il professionista sia in obbligo di soccorso. Il codice penale prevede come reato da punire a titolo di omissione “chiunque” – anche il comune cittadino quindi – trovi un “corpo umano che sia o sembri inanimato, ovvero una persona ferita o altrimenti in pericolo” ometta di prestare l'assistenza occorrente o di darne immediato avviso all'autorità.
 
E’ significativo notare che l’omissione di soccorso attuale – norma che risale al 1930 al c.d. “Codice Rocco” – supera la precedente versione del Codice c.d. Zanardelli che esimeva dal soccorso quando vi fossero circostanze che potevano esporre a “danno o a pericolo personale” il soccorritore.
 
Pure essendo messi sullo stesso piano – l’assistenza occorrente o l’avviso all’autorità – è evidente che non lo possono essere. L’assistenza occorrente tanto più è dovuta quanto è professionale la qualifica del soccorritore. l’obbligo al soccorso, in questi casi, giustifica anche comportamenti illeciti: a titolo esemplificativo se il soccorritore non medico provveda a somministrare medicinali non prescritti e non previsti da protocolli o a mettere in atto manovre ritenute necessarie per la salvaguardia della salute e della vita della persona, commette verosimilmente il reato di esercizio abusivo della professione medica ex art. 348 del codice penale, ma il suo comportamento risulta scriminato dall’adempimento del dovere ex art. 51 cp.
 
Questo è ancora più vero laddove si sia in presenza di personale professionale inserito all’interno del sistema di emergenza sanitaria 112/118. Qui l’omissione è ben chiara: non si tratta rinvenire le circostanze classiche dell’omissione di soccorso – con particolare riferimento all’imbattersi della persona in pericolo – in quanto personale addetto alle operazioni di soccorso per doveri d’ufficio.
 
In questi contesti, ricoprendo i medici, gli infermieri e i volontari la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio rispondono del più grave reato di rifiuto d’atti d’ufficio ex art. 328 c.p.
 
L’adempimento del dovere è rafforzato  dal decreto che istituì il sistema di emergenza sanitaria (DPR 27 marzo 1992) attribuendo al personale infermieristico l’autorizzazione a somministrare farmaci “per via endovenosa e fleboclisi nonché a svolgere le altre attività e manovre atte a salvaguardare le funzioni vitali, previste dai protocolli decisi dal medico responsabile del servizio” (art. 10 rubricato come “prestazione del personale infermieristico.”). I protocolli del 118/112 oggi configurano “adempimento del dovere” e non certo, come vedremo, “stato di necessità”.
 
Il reato di rifiuto di atti d’ufficio si realizza quando un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio – qualifica che hanno gli operatori del 112/118 – indebitamente rifiuta un atto del suo “ufficio” che per motivi di “sanità” deve essere compiuto senza ritardo.
 
La facoltà del soccorso nel settore sanitario
Se dall’obbligo del soccorso passiamo alla “facoltà” del soccorso le questioni cambiano.
In sanità viene spesso evocata, frequentemente a sproposito, la scriminante dello stato di necessità, ex art. 54 cp. In base a tale norma si rende non punibile un fatto se chi lo ha commesso è stato costretto dalla necessità di  “salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”.
 
Lo stato di necessità nasce come istituto per consentire il “bilanciamento degli interessi contrapposti”. Si consente – “non è punibile” – la violazione della legge laddove vi sia la facoltà di violare la legge stessa per tutelare un bene giuridico, che sia almeno pari se non maggiore al bene giuridico violato.
 
Nel settore dell’emergenza sanitaria lo stato di necessità viene frequentemente evocato fuori dalle già viste questioni dell’obbligo del soccorso.
Ad esempio a lungo si è tentato di giustificare terapie e/o interventi su pazienti non consenzienti. Si è spesso sostenuto, a torto, che in questi casi i medici e le équipe sanitarie fossero obbligate a intervenire proprio sui presupposti dello stato di necessità.
 
La volontà espressa o ricostruibile del paziente di rifiutare o rinunciare al trattamento sanitario impone al medico – e alla équipe sanitaria – di rinunciare al trattamento proposto e di rispettare la volontà del paziente senza timore di ritorsioni civilistiche e penalistiche è oggi riconosciuta direttamente anche dal diritto positivo (legge 219/17, art. 1).
 
Diverso è il caso del paziente non cosciente in contesti in cui non sia possibile recuperare la volontà del paziente: in questo caso “il medico e i componenti dell'équipe sanitaria assicurano le cure necessarie”. Qui torniamo a essere nell’adempimento del dovere.
 
Deve essere chiarito una volta per tutte: lo stato di necessità non obbliga al soccorso, bensì lo “facoltizza”. I protocolli che talvolta richiamano lo stato di necessità sono concettualmente errati. Un protocollo non può contenere l’obbligo di violare una legge. Il professionista ne ha facoltà, mai l’obbligo.
 
Recentemente la Corte di cassazione (V sezione, sentenza 20 giugno 2018, n.  50497)  (ha confermato la sentenza di appello nei confronti di medici e infermieri condannati per sequestro di persona per utilizzo di mezzi di contenzione fisica nella vicenda processuale c.d. “Mastrogiovanni”. Per la Corte la contenzione non è un “atto sanitario”, non cura e si pone come una pratica illecita.
 
Viene giustificata – scriminata – solo ed esclusivamente in presenza delle circostanze previste dall’articolo 54 del codice penale che sono:
a) il pericolo attuale di un danno grave alla persona;
b) le inevitabilità altrimenti del pericolo;
c) la proporzionalità del fatto.
 
Questo significa che i protocolli potranno prevedere la contenzione solo in presenza dei presupposti dello stato di necessità sopra ricordati e mai in alcun altro caso. Senza i presupposti ex art. 54 cp il reato compiuto – legare un paziente – non viene scriminato e quindi, come nel caso c.d. Mastrogiovanni, porta a condanna.
 
Sull’obbligo e sulla facoltà del soccorso, laddove si sia in presenza di specifici doveri, aleggia lo spettro della “posizione di garanzia” ex art. 40 c.p. – “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo” – laddove il contenuto della posizione stessa può determinarne la sanzionabilità in caso di inosservanza.
 
L’omissione di referto nell’assistenza ai “clandestini”
La confusione lessicale intorno allo status degli stranieri è notevole. Vengono spesso confuse situazioni decisamente diverse: naufrago, migrante regolare, migrante irregolare, richiedente asilo, rifugiato, profugo, clandestino sono in realtà condizioni diverse.
 
L’accesso dei “clandestini” (in senso lato  intendendosi come tal colui che non è in regola con il permesso di soggiorno, pur nella decisa imprecisione del concetto) è consentito alle strutture sanitarie senza obbligo di denuncia  “salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano”.
 
Denuncia che resta obbligatoria, quindi, solo in casi di commissione di reati perseguibili d’ufficio – come anche per gli italiani – ma non per il puro fatto della clandestinità.
 
Quest’ultimo principio fu però messo in discussione dal c.d. “pacchetto sicurezza” (Legge 94/2009, c.d. decreto Maroni) che introdusse il reato di clandestinità. Con il reato di clandestinità si è trasformato lo status in reato, la propria condizione personale in illegalità. Si pose all’epoca il problema se diventasse obbligatorio il referto – e quindi la denuncia all’autorità giudiziaria – per tutti coloro che non erano in regola con il permesso di soggiorno una volta che accedevano alle strutture sanitarie. 
 
Vi furono numerose prese di posizione contrarie che costrinsero il ministro Maroni a intervenire con una circolare – Ministero dell’Interno, n. 12/2009 – che escluse il reato di clandestinità dall’obbligo di segnalazione all’autorità giudiziaria in caso di accesso alle strutture sanitarie. Problema legislativo risolto impropriamente con una circolare, ma comunque risolto.
 
Anche questa è una causa di giustificazione che parte da presupposti solidaristici e di salute pubblica. Tra la denuncia della irregolare condizione del migrante e la tutela della salute dovuta a tutti gli “individui” (art. 32 Costituzione) prevale quest’ultima.
 
I codici deontologici possono integrare le norme sull’adempimento del dovere?
Fecero molto scalpore le dimissioni di Stefano Vella – lo stesso cognome del Gip di Agrigento sul caso Sea Watch! -  da presidente dell’AIFA la scorsa estate dopo il caso della nave Diciotti. Le motivazioni addotte erano di carattere “deontologico”.
 
In questi giorni è stato diffuso un comunicato di associazioni e società scientifiche di pediatri e ginecologi in cui annunciano “soddisfazione” per la messa in sicurezza di naufraghi che erano presenti nel veliero Alex della ONG (non sarebbe in realtà una ONG) Mediterranea. Per le società scientifiche italiane “è un irrinunciabile dovere difendere e tutelare la salute di donne e bambini, ancor di più quando si trovino in situazioni di precarietà e difficoltà”.
 
Vi è da domandarsi se la normazione deontologica possa integrare le fonti giuridiche dell’adempimento del dovere. La risposta sembrerebbe essere negativa in quanto la lettera dell’articolo 51 c.p. fa riferimento specificamente all’adempimento del dovere imposto da una “norma giuridica”.
 
Bisogna altresì ricordare che la legge di riforma degli ordini professionali stabilisce che gli ordini garantiscono il diritto costituzionale alla salute avendo come finalità “la salvaguardia dei diritti umani e dei princìpi etici dell'esercizio professionale indicati nei rispettivi codici deontologici”. Per le professioni sanitarie, tra l’altro, i codici deontologici sono anche condizioni per l’esercizio professionale ex legge 42/99.
 
Le norme deontologiche attuali contengono al massimo norme di non discriminazione più che di doverosità di intervento. Significativo che in alcun codice compaia la parola “migrante”, pure essendo calato in una società di stranieri residenti con permesso di soggiorno che supera ormai l’8% della popolazione.
 
Non sembra, quindi, che la deontologia si sia del tutto adeguata al mandato che la legge gli assegna.
 
Luca Benci
Giurista
 

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