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Giovedì 01 AGOSTO 2019
La “svista” di Pessina e le ragioni del mio sì al suicidio assistito



Gentile Direttore,
nell’articolo pubblicato il 30 luglio su questo giornale, Un documento deludente di cui non si sentiva l’esigenza, Adriano Pessina paventa che il dibattito sul suicidio assistito assuma la forma semplificata (e semplicistica) della contrapposizione tra laici e cattolici, e sottolinea come sia una mancanza di rispetto da parte dei commentatori ignorare la firma di Riccardo Di Segni all’interno dello schieramento di coloro che sono contrari alla legittimazione etica e giuridica del suicidio assistito.
 
Non è certamente una mancanza di rispetto ma una svista quella in cui incorre Pessina quando ignora la mia firma nello schieramento opposto, quello di coloro che sono favorevoli al suicidio assistito.
 
Una posizione che è conforme a quanto si sostiene in un documento del 2017 della Commissione bioetica delle Chiese battiste metodiste e valdesi in Italia, di cui sono Coordinatore, intitolato È la fine, per me l’inizio della vita”. Eutanasia e suicidio assistito: una prospettiva protestante.
 
Se mi permetto di segnalare la svista di Pessina non è per ragioni di vanità personale e tantomeno per pignoleria, ma perché vorrei rafforzare la parte del suo ragionamento che trovo più convincente: quella che constata come, nella discussione sulla liceità etica e giuridica del suicidio medicalmente assistito, non sia questione di appartenenze religiose o di distinzioni tra laici e cattolici.
 
La tesi che non mi convince, invece, è quella secondo cui il dissidio riguarderebbe il diverso peso che si attribuisce a due valori antitetici, la tutela della vita umana e l’autonomia personale, il che rinvierebbe a sua volta all’alternativa tra due modelli di società, uno di tipo solidaristico e comunitario e l’altro di tipo individualistico e liberistico.
 
Il vero problema, infatti, non è quello di decidere in astratto quale dei due valori sia più importante nella vita di una società, ma quale dei due valori privilegiare in una concreta e specifica situazione, come quella idealtipica in cui, ad esempio, si trovava Fabiano Antoniani.
 
Questo problema ci riporta a una questione assai discussa in letteratura: quella della validità della distinzione tra uccidere e lasciar morire. Sono convinto che la distinzione tra uccidere e lasciar morirenon sia assolutamente valida, ma ammetta delle eccezioni.
 
Tale distinzione, si potrebbe dire, è generalmente valida, ma non semprevalida. In determinate situazioni essa sembra conservare un significato meramente psicologico: in pazienti affetti da malattie terminali, in cui il tempo residuo di vita è estremamente ridotto, la differenza tra anticipare di qualche ora o di qualche giorno il decesso di coloro che lo richiedano o affidarsi a un sistema di cure palliative che realizzi la cosiddetta “sedazione palliativa” non può più essere considerata eticamente significativa.
 
L’enorme sviluppo delle tecniche mediche a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni crea situazioni estreme, in cui la scelta tra le due procedure può essere lasciata al paziente.
 
Questa constatazione, mi preme sottolinearlo, non presuppone un’astratta assolutizzazione del principio di autonomia, né suggerisce l’idea che tale principio sia più importante di quello che tutela la vita umana. Al contrario, è precisamente per ragioni solidaristiche che siamo costretti, in una situazione come quella di Fabiano Antoniani e di altri malati in condizioni simili, a riconoscere il loro diritto all’autodeterminazione fino al punto da acconsentire alla loro richiesta di essere aiutati a morire.
 
Riconoscere questo fatto non contraddice il senso profondo della pratica medica, ma rappresenta piuttosto un allargamento del concetto di cura, sino a includervi l’aiuto al morire, a partire dalla constatazione secondo cui la professione medica è prima di tutto una professione di servizio alla persona.
 
Per questo motivo non è un male che la presa di posizione del Comitato Nazionale per la Bioetica non aggiunga nulla al dibattito esistente in letteratura, come invece lamenta Pessina. Il compito di un organismo come il CNB è quello di contribuire a descrivere nel modo più onesto e chiaro possibile la pluralità delle posizioni in gioco nel dibattito bioetico, in modo tale da aiutare il legislatore e il cittadino a discutere, e a scegliere, nel modo più consapevole possibile. Si tratta di un compito fondamentale in una congiuntura politico-culturale come quella che stiamo vivendo.
 
Sono quindi d’accordo con il collega Lucio Romano, che ha qui ricordato (La pluralità di idee non è un minus, ma è costitutiva del CNB) come questo documento del Comitato Nazionale per la Bioetica non rappresenti propriamente una legittimazione del suicidio medicalmente assistito. Il CNB non deve prendere o avallare decisioni, ma descrivere e chiarificare le posizioni prevalenti su temi pubblici controversi.
 
La notizia che si dovrebbe diffondere semmai è un’altra: il documento del CNB non esprime una delegittimazione di principio nei confronti del suicidio assistito. Forse è proprio questa novità che a qualcuno dà fastidio.
 
Luca Savarino
Università del Piemonte Orientale
Comitato Nazionale per la Bioetica

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