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Lunedì 02 SETTEMBRE 2019
Pronto Soccorso. Competenze e responsabilità dopo le nuove linee guida sul triage

I tre atti normativi della Conferenza Stato Regioni si mostrano come un tentativo apprezzabile di riorganizzare e razionalizzare le attività di pronto soccorso. Non hanno certo il compito di surrogare e vicariare altre carenze strutturali come, ad esempio, la carenza di personale o la inadeguatezza dell’assistenza extra-ospedaliera.

La Conferenza Stato Regioni ha approvato tre atti normativi riguardanti l’organizzazione dei dipartimenti di emergenza denominati “linee di indirizzo nazionale” riguardanti l’osservazione breve intensiva (OBI), il triage intraospedaliero e la gestione del sovraffollamento del pronto soccorso.

I tre documenti – in particolare il secondo e il terzo – estendono taluni modelli organizzativi già consolidati in una serie di regioni, con il dichiarato intento di implementare tali modelli su scala nazionale.

Negli ultimi decenni vi è stata una costante attenzione alle problematiche del dipartimento di emergenza e, in particolare, al pronto soccorso e si sono succeduti una serie di atti normativi della Conferenza Stato Regioni generalmente denominati “linee guida”. Questa volta i tre documenti portano la nuova denominazione di “linee di indirizzo”.

I problemi del pronto soccorso sono di varia natura e di una certa complessità e necessitano di numerosi interventi non solo di natura sanitaria.

E’ la prima volta, però, che tre atti normativi distinti vengono approvati congiuntamente in una logica coordinata. I provvedimenti, tra l’altro, ridisegnano una serie di competenze e la responsabilità dei vari componenti dell’equipe che operano all’interno del pronto soccorso con particolare riguardo al rapporto tra medici e infermieri.

Concentreremo la nostra attenzione proprio su queste tematiche e prima di inoltrarci nell’analisi delle novità, in via preliminare, riteniamo doveroso l’approfondimento di una serie di precisazioni riguardo proprio alle competenze dei vari professionisti all’interno del pronto soccorso.

Attività mediche e attività sanitarie in emergenza sanitaria
La discussione è annosa e copre da molto tempo il dibattito sulle competenze mediche, infermieristiche - e in parte ostetriche – nei contesti deputati al trattamento dell’emergenza sanitaria.

Dal punto di vista storico era chiara la suddivisione delle competenze: l’attività sanitaria e l’attività medica coincidevano e l’esercizio della medicina non era sostanzialmente normato, fatta eccezione dei requisiti di abilitazione legati ai titoli e all’iscrizione all’albo. Le figure sanitarie, diverse dalla professione medica, allora già “ordinate” in albi professionali – infermieri, ostetriche e tecnici sanitari di radiologia medica – avevano delle norme di esercizio professionale racchiuse in veri e propri mansionari, recepiti a loro volta in atti normativi. Tutto ciò che era ricompreso nel mansionario di infermieri e ostetriche si considerava di competenza (anche) infermieristica e ostetrica. Tutto ciò che non rientrava nel mansionario era da considerarsi rientrante nella generale competenza medica.

All’inizio degli anni novanta dello scorso secolo l’ordinamento giuridico, al fine di superare le anguste norme mansionariali, emanò dei provvedimenti di varia tipologia aventi sostanzialmente natura derogatoria: nacque appunto il “metodo derogatorio”. Il sistema di esercizio professionale rimaneva quello precedentemente fissato, ma si poteva derogare specificamente in quel settore. Il metodo derogatorio nasce e si struttura, nell’emergenza sanitaria extra-ospedaliera, con il DPR 27 marzo 1992, atto normativo che istituisce in Italia il sistema 118.

L’articolo 10 recita(va) testualmente:
“Il personale infermieristico professionale, nello svolgimento del servizio di emergenza, può essere autorizzato a praticare iniezioni per via endovenosa e fleboclisi, nonché a svolgere le altre attività e manovre atte a salvaguardare le funzioni vitali, previste dai protocolli decisi dal medico responsabile del servizio”.

A fronte del generale divieto di svolgere – all’epoca – “iniezioni endovenose” fuori dal contesto ospedaliero, l’infermiere veniva “autorizzato” a eseguirle (prima deroga). Sempre con lo stesso criterio poteva essere autorizzato a “svolgere le altre attività e manovre atte a salvaguardare le funzioni vitali” (seconda deroga) espressione invero molto ampia che poteva coprire – come poi in effetti è avvenuto – una serie di attività non indifferenti. Il tutto doveva essere previsto dai “protocolli decisi dal medico in servizio”. I protocolli, dunque, vennero e sono posti alla base del sistema di esercizio professionale derogatorio e hanno, nei casi di specie, una chiara funzione di prescrizione anticipata di medicinali e di trattamenti. Il sistema tramite protocolli è stato alla base anche della nascita e della strutturazione della funzione di triage.

Il triage, secondo l’atto normativo che lo ha implementato – Atto di intesa Stato Regioni maggio 1996 e, successivamente, le linee guida sul triage del 2001 - era un’attività “svolta da personale infermieristico adeguatamente formato, che opera(va) secondo i protocolli prestabiliti dal dirigente del servizio". I protocolli, dunque, anche in questo caso posti come strumenti di liceità dell’esercizio professionale. Sempre negli stessi atti normativi si precisava che l'infermiere opera(va) sotto la supervisione del medico in servizio, responsabile dell'attività, e secondo protocolli predefiniti riconosciuti e approvati dal responsabile del servizio di pronto soccorso - accettazione o dipartimento di emergenza - urgenza ed accettazione (D.E.A.).

La liceità della condotta professionale, altrimenti sanzionata con l’articolo 348 codice penale sull’abusivo esercizio, è integrata dal sistema sopra descritto. L’articolo 348 c.p., lo ricordiamo, è una “norma penale in bianco”, destinata a essere riempita di contenuti normativi extrapenali, come in questo caso gli atti normativi della Conferenza Stato Regioni, con la relativa previsione di protocolli strettamente collegati alla “formazione post base”.

Ricordiamo che nel 1999 fu approvata la legge 42 che rivoluzionava l’esercizio professionale consegnando i mansionari alla storia e introducendo tre criteri guida – il profilo professionale, la formazione ricevuta e il codice deontologico – e due criteri limite quali le competenze previste per le professioni mediche e per le altre professioni sanitarie laureate. La legge 42/99 avrebbe permesso – il condizionale è d’obbligo – di rendere desueto il sistema derogatorio per protocolli previsti da atti normativi, in quanto la sua interpretazione work in progress avrebbe permesso un esercizio professionale che si adattava in relazione ai contenuti conseguiti con l’attività formativa post base. Quest’ultima diventa un tassello fondamentale proprio del sistema di esercizio professionale.

Non sempre la corretta interpretazione della legge 42/99 ha permesso il superamento del sistema derogatorio.
Nel perseguimento della valorizzazione delle professioni sanitarie il legislatore ha ipotizzato – è proprio il caso di dirlo vista la totale inapplicazione – anche il “metodo concertativo” che era alla base del comma 566, articolo 1, della legge di Stabilità del 2015 (legge 190/2014) e naufragato proprio – ma non soltanto – per la non volontà di aprire una base di confronto e per l’infelicità della formulazione della norma.

La nuova organizzazione del triage: competenze e responsabilità
Nel recente atto normativo della Stato Regioni si ridisegna parzialmente l’attività di triage sposando il modello del “triage globale” e rimodulando i codici colore estendendoli, tra l’altro, da quattro a cinque (rosso, arancione, azzurro, verde e bianco). Il triage viene definito una “funzione infermieristica volta alla identificazione delle priorità assistenziali attraverso la valutazione della condizione clinica dei pazienti e del loro rischio evolutivo, in grado di garantire la presa in carico degli utenti e definire l’ordine di accesso al trattamento”.
Inoltre il triage ha il duplice obiettivo di “individuare le priorità di accesso alle cure” e di “indirizzare il paziente all’appropriato percorso diagnostico-terapeutico”.

Le novità non sono di poco conto:

1) cessa la confusione sulla natura del codice di triage che oggi è sempre definito di “priorità” (precedentemente vi era una confusione tra “priorità”, “gravità” e “criticità”);

2) il triage viene definito una “funzione infermieristica”;

3) dal momento dell’accoglienza in triage si stabilisce la “presa in carico globale della persona” e di conseguenza la posizione di garanzia del paziente. Viene opportunamente precisato che la presa in carico non coincide necessariamente con la visita medica. Coinciderà solo in caso di codice rosso, altrimenti coinciderà con la valutazione dell’infermiere di triage;

4) sparisce il riferimento alla gerarchia – medico responsabile dell’attività e supervisore – e viene ribadita l’autonomia infermieristica in relazione alle “competenze acquisite durante il corso di formazione”.

La desueta responsabilità gerarchica nel triage era stata già pacificamente ribadita dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 1 ottobre 2014, n. 11601, e IV sezione penale, sentenza 10 aprile 2017, n. 18100) che ha sempre riconosciuto la responsabilità infermieristica in caso di errore e non coinvolgendo la professionalità medica nei giudizi.


Il sistema dei protocolli, inoltre, si democratizza e si allarga. Si democratizza in quanto devono essere elaborati da un “gruppo interdisciplinare (medici e infermieri esperti)” e devono essere approvati congiuntamente “dal responsabile medico e infermieristico del servizio” e “adeguatamente diffusi e condivisi da tutte le professionalità coinvolte”.

Non si può non rilevare come sia la prima volta che i protocolli vengano previsti come documenti interprofessionali – anche nella loro elaborazione – e approvati a doppia firma congiunta medico-infermieristica.

Sul punto non è chiarissimo il riferimento al “responsabile medico” e al responsabile “infermieristico”: non è chiaro cioè quali figure debbano approvare, in concreto, i protocolli nel sistema della gerarchia aziendale. Quanto meno risulterebbe più chiaro sulla figura apicale medica, meno chiaro sulla figura infermieristica: il dirigente?, il coordinatore?, la posizione organizzativa? O, come dovremmo dire oggi in base alle nuove disposizioni contrattuali, un infermiere con incarico professionale o organizzativo?

I protocolli di triage non necessitano dell’approvazione della direzione sanitaria.
La novità deve essere salutata con favore in quanto attiene all’essenza stessa dei protocolli la caratteristica della condivisione e il loro non essere strumento gerarchico ma professionale.
Il sistema dei protocolli si allarga in quanto viene previsto l’utilizzo, non solo come sistema di priorità di accesso alle cure, ma comprende anche la parte informativa, documentale, gli standard di personale ecc.

Sul versante delle competenze, con un salto logico, non del tutto comprensibile, nelle conclusioni (e solo nelle conclusioni) si stabilisce che l’infermiere “può essere specificamente autorizzato alla somministrazione di alcuni farmaci, all’esecuzione di prelievi ematici e all’inizio di trattamenti, qualora queste attività siano previste da protocolli interni” senza alcuna prescrizione medica o, più correttamene, con una prescrizione medica vicariata dai protocolli.

I protocolli possono dunque prevedere:
a) la somministrazione di alcuni farmaci;
b) l’esecuzione di prelievi ematici;
c) l’inizio di trattamenti.

Come è noto la precondizione per la somministrazione di farmaci da parte dell’infermiere è costituita dalla prescrizione medica, fatta eccezione, per i medicinali di automedicazione, i c.d. O.T.C., che non richiedono alcuna prescrizione medica come del resto anche per la somministrazione di farmaci c.d. S.O.P. - senza obbligo di prescrizione – come, ad esempio, la tachipirina. In questi casi la prescrizione – come anche la ricetta per l’approvvigionamento, non è richiesta neanche per il quisque de populo.

Nei medicinali soggetti a prescrizione medica - come per il settore extraospedaliero – sono i protocolli invece a costituire la funzione di prescrizione medica anticipata a fronte di quadri diagnostici standard. Il nuovo atto normativo della Stato-Regioni mutua quel modello normativo e legittima le somministrazioni di medicinali, i prelievi e le prescrizioni di trattamento – nel caso di specie dei percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali (P.D.T.A) - da iniziare o anticipare in sede di triage di pronto soccorso per una risposta più pronta ed efficace tesa alla soluzione dei problemi di salute dei pazienti afferenti al pronto soccorso stesso. L’attività di anticipazione di attività avviene in seguito alla “fase di decisione del triage” che prevede l’assegnazione del codice di priorità, l’attuazione dei “necessari provvedimenti assistenziali” e l’eventuale “attivazione dei percorsi diagnostico-terapeutici” (P.D.T.A). Tutte le attività devono essere previste dai protocolli medico-infermieristici.

L’attività del triage esita in:
1) invio diretto in sala di emergenza (in caso di codice rosso);
2) assegnazione ad un ambulatorio (in caso degli altri codici con le priorità indicate);
3) l’avvio del fast track;
4) la prestazione diretta tramite il see and treat.

I punti sub 1) e sub 2) rientrano nella piena logica e tradizione del triage. L’atto normativo della Conferenza Stato Regioni individua il il see and treat e il fast track come momenti di sviluppo del processo (laddove, ovviamente, non già implementati).
Analizziamoli distintamente.

Il see and treat
Questa metodica – letteralmente “guarda e tratta” - viene resa operativa dalla Regione Toscana nel 2007 (successivamente aggiornata nel 2017) e oggi viene estesa a livello nazionale. E’ un modello di “risposta assistenziale a urgenze minori predefinite che si basa sull’adozione di specifici protocolli medico-infermieristici definiti a livello regionale per il trattamento di problemi clinici preventivamente individuati”. Il paziente con una tipologia di problemi ben determinata viene avviato dall’infermiere di triage all’area see and treat. Bisogna tenere presente che l’espressione “urgenza minore” tradizionalmente utilizzata per il see and treat viene oggi usata anche per indicare il codice verde del pronto soccorso con il rischio di ingenerare confusione stante la differenza tra le tipologie di quadri clinici trattati.

Dunque, una volta che si presenta al pronto soccorso un paziente rientrante nella casistica del see and treat, viene preso in carico dal relativo personale infermieristico, adeguatamente formato, “che applica le procedure del caso e, previa condivisione con il medico, assicura il completamento del percorso”. Nel see and treat l’infermiere gestisce il processo in base ai protocolli che devono essere “approvati dalla direzione sanitaria”.

Quindi i protocolli del triage devono essere approvati dal responsabile medico e infermieristico, mentre i protocolli see and treat dalla direzione sanitaria (e dalla Regione?). L’infermiere che ha preso in carico il paziente applica i relativi protocolli e, come abbiamo visto, previa condivisione con il medico, “assicura il completamento del percorso”. Questo passaggio, invero, non risulta chiarissimo.
I passaggi sequenziali sono:
a) presa in carico dell’infermiere di triage con relativa valutazione di urgenza minore;
b) passaggio al see and treat;
c) applicazione dei protocolli medico-infermieristici tesi alla risoluzione dei problemi lamentati;
d) dimissione del paziente (“completamento del percorso”) che però deve avvenire “previa condivisione del medico”.

Il termine dimissione – di tale si tratta – non viene utilizzato, mentre lo ritroviamo negli atti normativi della Regione Toscana (vedi da ultimo la delibera di Giunta 806/2017). Inoltre sottolineiamo che a fronte di un processo che la Conferenza Stato Regioni attribuisce autonomamente all’infermiere, non è facile individuare il momento di condivisione che non si risolva in una vera e propria visita e valutazione da parte del medico. L’interpretazione letterale porterebbe a questa conclusione che però si scontra con l’efficacia e l’utilità del percorso e, financo, sulla sua logicità. Secondo gli insegnamenti della Corte costituzionale, però, l’interpretazione letterale è spesso una interpretazione “primitiva” che deve lasciare il passo a una interpretazione sistematica che non può portare che a individuare la condivisione nello strumento dei protocolli.

Non si tratta di stigmatizzare ciò che deve in realtà essere incentivato e cioè il rapporto e il confronto tra professioni, ma di chiarire competenze e responsabilità: se si implementa il modello organizzativo-professionale del see and treat, la “dimissione” non può che essere conseguentemente infermieristica come atto finale di conclusione del percorso. La casistica riportata dalla Regione Toscana (60.000 casi trattati in cinque anni) è inoltre particolarmente significativa proprio dal punto di vista statistico della sicurezza del percorso. Non si può chiedere a chi non prende parte alla presa in carico – il medico, nel caso di specie – l’assunzione di responsabilità, come vedremo a breve.

In caso di dimissione infermieristica saremmo nella legalizzazione della risposta di pronto soccorso di carattere sanitario, ma non medico.

Di fatto siamo a un bivio: vi è cioè da stabilire se sia la persona che chiede una prestazione di pronto soccorso a decidere la professionalità in grado di trattarla o se debba essere il sistema. Nelle statistiche di accesso al pronto soccorso la percentuale di codici bianchi (quindi di totale inappropriatezza) e di codici verdi sono la maggioranza in genere. La soluzione see and treat prevede una delle soluzioni possibili tesa a decongestionare le sale di triage dalle urgenze minori, pur lasciandole afferenti al pronto soccorso.

Rimane sullo sfondo la problematica del triage out che consiste nella dimissione del paziente senza la previa visita medica e senza neanche il trattamento infermieristico. Non possiamo certo affermare che il triage out – che verosimilmente viene applicato nei fatti – abbia diritto di cittadinanza oggi, neanche in caso di manifesta inappropriatezza della richiesta di prestazione di pronto soccorso (fatta salva, come abbiamo visto, la casistica risolvibile con il see and treat).

Sul triage out prima o poi, però, una discussione andrà aperta.

Il fast track
Altra modalità da mettere in atto come diretta filiazione del triage è il fast track. Anche in questo caso siamo in presenza di un modello di risposta assistenziale alle urgenze minori “di pertinenza monospecialistica” (es. oculistica, ortopedia, otorino ecc.). In questo caso “l’attivazione si avvia dal triage ed è condotta sulla base di specifiche linee guida e protocolli validati localmente”. In questo caso l’incertezza della titolarità della validazione è ancora più marcata come vedremo. Comunque i protocolli e le linee guida devono individuare i quadri clinici di “urgenza minore” di pertinenza “mono-specialistica”. A differenza del see and treat questo percorso si conclude con la trasmissione della presa in carico – e quindi della posizione di garanzia – dall’infermiere di triage direttamente al medico specialista, senza la mediazione del medico di pronto soccorso.

La responsabilità professionale all’interno del pronto soccorso
Dopo avere analizzato il problema della liceità dell’esercizio professionale è necessario approfondire il problema della individuazione della suddivisione della responsabilità facendo riferimento ai percorsi svolti autonomamente e quelli svolti équipe.

Per quanto riguarda il triage la responsabilità risulterebbe a carico del medico e dell’infermiere congiuntamente laddove l’adozione dei protocolli – ricordiamo a doppia firma medico infermieristica – non abbia rispettato i principi di congruità, pertinenza, adeguatezza e evidenza scientifica. I protocolli nella loro parte iniziale non devono creare problemi per l’applicazione della seconda pare applicativa che, abbiamo visto essere, anche di carattere anticipatorio rispetto alla visita e quindi alla presa in carico da parte dei medici.

Se i criteri sopra ricordati portano a una valutazione della sostanziale correttezza dei protocolli, l’errata applicazione del protocollo, in fase iniziale o di rivalutazione, ricade sulla responsabilità dell’infermiere di triage (es. conseguenze della sottostima del codice e sue conseguenze).

Per quanto riguarda il see and treat la questione responsabilità – oltre che similare nelle considerazioni sulla congruità dei protocolli - è più articolata in quanto si deve distinguere:
a) la fase di triage di attribuzione del percorso see and treat;
b) la fase del trattamento;
c) la fase della dimissione.

Le prime due fasi sono di stretta competenza e responsabilità infermieristica in quanto la posizione di garanzia non può che risiedere nell’unica figura professionale che ha preso in carico il paziente, mentre la dimissione risulterebbe un atto congiunto. Nel non chiarissimo linguaggio utilizzato – “il completamento del percorso” che deve avvenire “previa condivisione del medico” - esclusa una nuova e compiuta presa in carico complessiva del paziente già trattato ed esclusa altresì una gerarchia vecchio stampo superata dalla Stato Regioni – la dimissione deve essere “condivisa” – si versa probabilmente in un contesto di “contitolarità della posizione di garanzia” (esattamente come per la stesura dei protocolli) laddove a trattamento ormai applicato, nella fase finale viene disposta la dimissione su proposta infermieristica e successiva “convalida” medica. Difficile in questo caso ricondurlo alla usuale responsabilità individuale per colpa che permea il nostro ordinamento penale. Siamo nel campo della responsabilità di équipe, quindi, con un principio dell’affidamento temperato proprio dalla contitolarità della posizione di garanzia (approfondisci).

Si riespande, infine, il criterio della responsabilità individuale, nelle procedure fast-track, fatti salvi i limiti della congruità dei protocolli già evidenziati.

Criticità
In un contesto di innovazione come quello previsto dalla Stato Regioni si ravvisano alcune criticità che riguardano, come abbiamo anticipato, l’imprecisione del linguaggio utilizzato e la difficoltà di individuare la titolarità di firma di protocolli e linee guida.

In sintesi:
a) per il triage si prevedono “protocolli” (non linee guida, solo protocolli) approvati “dal responsabile medico e infermieristico del servizio” e “adeguatamente diffusi e condivisi da tutte le professionalità coinvolte”. Quindi protocolli aziendali – “ogni organizzazione” (pag. 19) e “ogni struttura” (pag. 22) - da aggiornarsi con periodicità almeno triennale. Nel paragrafo 5.1 a un certo punto spuntano anche le “procedure”. Nelle conclusioni – e solo nelle conclusioni (pag. 36) – si parla anche di “linee guida e protocolli in continuo aggiornamento”;

b) per il see and treat l’incertezza è ancora maggiore. Si legge che sono necessari protocolli “medico-infermieristici definiti a livello regionale” e poi, nella stessa pagina si legge che i “citati protocolli” (quelli regionali) devono essere “approvati dalla direzione sanitaria”;

c) per il fast track oltre ai protocolli si prevedono delle linee guida che devono però essere validate “localmente” (che supponiamo sia il sinonimo dei già utilizzati “in ogni organizzazione” e “in ogni struttura”).

Altra problematica è quella relativa alla natura delle nuove “linee di indirizzo” che sono un “aggiornamento” delle “linee guida” del 2003 che sono quindi ancora valide laddove non superate con l’ultimo documento.

Si continuano a utilizzare quasi in modo fungibile diciture che indicano documenti diversi: protocolli, linee guida, procedure, linee di indirizzo. Si indicano titolarità diverse livelli locali (aziendali?) e regionali. Soprattutto si trascura, per motivi non chiarissimi, l’architrave della legge 24/17 (c.d. Gelli) relativa alla pubblicazione delle linee guida sul sito dell’Istituto superiore di sanità. Nel periodo storico in cui gli esercenti le professioni sanitarie hanno una legge quadro sulla responsabilità professionale a cui sono riconnesse precise salvaguardie penalistiche e civilistiche in caso di adozione e osservanza di linee guida e buone pratiche clinico-assistenziali (le prime sono però preferite alle seconde), i documenti di esercizio professionale inspiegabilmente ignorano questo canale. Per altro, l’aggiornamento delle linee guida, ai sensi della legge Gelli, deve essere biennale.

Conclusioni
I tre atti normativi della Conferenza Stato Regioni si mostrano come un tentativo apprezzabile di riorganizzare e razionalizzare le attività di pronto soccorso. Non hanno certo il compito di surrogare e vicariare altre carenze strutturali come, ad esempio, la carenza di personale o la inadeguatezza dell’assistenza extra-ospedaliera.

L’aggiornamento delle linee di indirizzo – sarebbe stato preferibile un documento e totalmente nuovo che non si ponesse solo come aggiornamento – introduce, come abbiamo visto, nuove modalità e rapporti di esercizio professionale che impiegano efficacemente le professionalità esistenti superando desueti rapporti paralizzanti.
Interessante – non lo abbiamo trattato – è l’introduzione del bed management, attività però tutta da declinare.

E’ la prima volta che con documenti di tale ampiezza si mette mano alla riorganizzazione di attività cruciali come quelle del dipartimento di emergenza.

Come abbiamo sottolineato, sul fronte delle nuove competenze e responsabilità, una maggiore chiarezza, una maggiore incisività e una minore contraddittorietà sarebbe stata preferibile. Ci permettiamo di suggerire, stante la riconosciuta normatività degli atti della Conferenza Stato Regioni, una redazione degli stessi atti più omogenea agli atti normativi storici con particolare riferimento alla suddivisione dell’atto in articoli debitamente rubricati.

Luca Benci
Giurista

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