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Martedì 03 DICEMBRE 2019
Contro la violenza anche le parole sono importanti



Gentile direttore,
vorrei integrare una mia riflessione a quella già proposta dal dott. Marco Ballico in merito alle discussione sulla possibile formazione da offrire agli operatori sanitari per la gestione della violenza agita dai pazienti nei loro confronti. Sono due i punti che condivido pienamente.
 
Il primo è che tale formazione non possa esaurirsi in un addestramento di tecniche di difesa. Si rischierebbe a mio avviso di intendere la violenza solo come un fenomeno acuto, improvviso, inaspettato, e non invece come l’espressione di uno stato di crescente disagio (l’escalation della violenza), ravvisabile fin dalle sue prime manifestazioni.
 
Prendiamo ad esempio un paziente che entri in pronto soccorso per una emergenza ed anche urgenza e che si trovi a dover aspettare di procedere per gli accertamenti dovuti più di quanto gli sia stato comunicato e preveda. Prima di agire una violenza avrà dato segnali di irrequietezza, di disorientamento, avrà cercato più volte di intercettare qualche altro operatore a cui domandare di iniziare a soccorrerlo. Non sarebbe utile in questo caso pensare ad una tecnica che possa “disinnescare” la violenza.
 
E’ utile addestrare l’operatore a riconoscere quei segnali come prodromi di una possibile escalation della violenza attraverso l’ascolto di un “proprio sentimento” di pericolo incombente. Ciò che funzionerà in questo caso sarà la disponibilità di uno psicologo a cui delegare, come già indicato al paragrafo 2.1 del documento delle nuove linee di indirizzo nazionali sul triage intraospedaliero, pubblicate lo scorso 29 Luglio, la raccogliere il contenimento e la modulazione della narrazione del paziente.
 
Poter parlare e ottenere di sentirsi ascoltati abbassa i livelli di intensità di ansia e rabbia in caso di crisi in corso, perché il parlare in sé, nella speranza di essere “riconosciuti”, si configura come un atto motorio modulatore che restituisce senso di controllo. Ciò che invece in questi ed altri casi è essenziale per l’operatore è che egli abbia appreso attraverso la formazione a riconoscere, se c’è, un proprio sentimento connotato al senso di pericolo. Come dice Ballico: “Rincorrere le emozioni non paga, comprendere o conoscere anticipatamente i sentimenti dell’altro oltre ad essere parte integrante della deontologia aiuterebbe il medico a comunicare e ad interagire costruttivamente con il malato” Aggiungo: “comprendere o conoscere anticipatamente i propri sentimenti di fronte all’altro”.
Discende il secondo punto su cui mi trovo d’accordo. Un’eventuale formazione non può essere “asettica e standardizzabile”, non solo perché la violenza si inserisce in un contesto relazionale irripetibile ma anche perché, se la violenza è insita nella sua escalation, la finalità formativa sarà non di “disinnescarla” ma di “modulare” le variabili del qui ed ora che agiscono sulla sua escalation.
 
Apprendere a modulare quindi implicherà in sequenza una “corretta lettura ed analisi” oltre che di “di ciò che il paziente prova” e pensa, anche di ciò che l’operatore prova e pensa reattivamente in risposta, un’autoregolazione di questa sua risposta e solo alla fine un intervento modulatore sugli stati mentali e sulle condotte del paziente. Se ad esempio il medico si sente colpevolizzato ingiustamente da un’aggressione verbale, ciò che in sé dovrà riconoscere non è l’infondatezza della colpa presunta, che già gli sarà chiara, ma l’essere fatto vittima di una manipolazione che lo richiama ad una espiazione riparativa e coercitiva e che solleva un’ambiguazione del tema del potere: ce l’ha l’operatore che cura e avrebbe colpe o ce l’ha il paziente che lo vittimizza? La formazione in questo caso potrebbe aiutare gli operatori ad esplorare proprie inclinazioni di risposta alle ambiguità di potere ed integrare specifici protocolli di approfondimento sul potere della cura.
 
D’altra parte, perché nella modulazione ci sia empatia, sostenuta dai neuroni motori mirror (Rizzolati, 2006), occorre una doppia attenzione, all’altro, per discernerne il vissuto, a sé, per avere la consapevolezza da una prospettiva separata e individuale che il proprio stato emotivo è stato evocato dall’altro, in caso diverso ci troveremmo in uno stato fusionale dipendente, e un’azione sintonizzata (Cohen, 2012).
 
In questo senso la modulazione empatica dell’escalation della violenza dovrebbe contenere tutti gli stati mentali anche quelli migliori: se il paziente esprime gratitudine l’operatore dovrebbe ascoltare l’effetto che questa riconoscenza evoca in sé e restituirlo al paziente per rinforzargli la condotta positiva.
 
In sintesi, una formazione efficace alla prevenzione e gestione della violenza dovrebbe nella mia proposta tener conto di:
1) Sostituire la parola “violenza” con “escalation della violenza” e “disinnescare” con “modulare”.
2) Modulare tutti gli stati anche quelli positivi.
3) Proporre una formazione che offra all’operatore anche l’allenamento per superare le personali resistenze all’ascolto di sé nella relazione con l’altro e fare di sé il principale strumento di correzione della condotta dell’altro.
4) Affidare congiuntamente tale formazione agli psicologi clinici, che, esercitando una professione dove la modulazione della relazione è strumento e finalità terapeutica, non rischierebbero di fare della formazione non standardizzata un’improvvisazione.
 
Liuva Capezzani
Psicologa Psicoterpeuta Psico-oncologa

 
Bibliografia
S. Baron-Cohen. La scienza del male. L’empatia e le origini della crudeltà. (2012) Raffaello Cortina Editore
G. Rizzolatti, C. Sinigaglia. So quel che gai. Il cervello che agisce e i neuroni a specchio (2006) Raffaello Cortina Editore

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